Metadiario – 96 – Mezzogiorno di Pietra – 2 (AG 1981-002)
Cala di Luna
Accanto alla grande grotta di Biddiriscottai il 15 gennaio 1981 Manolo e io salimmo un bel diedro, Minibacò: non potevamo fare di più, continuava a piovere. Bighellonando per Cala Gonone fummo invitati a un banchetto di piazza,con falò di gioia sul molo. Masticando una braciola di porcello annaffiandola con generosi bicchieri di Cannonau, mi chiedevo perché, perché mai non ero nato un po’ prima. Non sembrava che la buona gente del luogo volesse come me fermare il tempo, anzi parevano ben fieri dei tempi presenti. Magari avevano ragione, forse è molto meglio affrettare la fine. Intanto il vento disperdeva faville in mare e così, salutati i nostri ospiti, alzati i baveri dei nostri duvet, fuggimmo da Cala Gonone, nella vana attesa che la terra, l’aria e l’acqua tramite il fuoco si ribellassero.
Arrivammo ai Cuili Buchi Arta che era mezzanotte. Avevamo navigato lungo la sterrata e credevamo d’essere arrivati, perché non si poteva più proseguire. I lecci si piegavano fino a terra e le raffiche di vento c’impedivano di stare in piedi. Faceva un freddo insopportabile: i nostri fari bucavano la notte e il fragore della tempesta. Ma i cani dovevano essere impazziti e dopo pochi minuti due uomini intabarrati ci spianarono contro le armi. Erano i pastori che, come da migliaia di anni, si difendevano da un presunto abigeato. All’alba del giorno dopo (16 gennaio) entrai nei loro «barracu», cilindri di pietre squadrate sormontati da coni di ginepro contorto e ingrigito. Mi offrirono grappa, pecorino e un pezzo di cinghiale. La loro giornata era iniziata almeno due ore prima e avevano già munto. Mi vergognai d’aver interrotto il loro sonno.
Un canalone ripido ma con sentiero fa scendere rapidamente a Cala di Luna (Cala Ilune). Laggiù incontrammo una capanna dove vivevano due giovani di Baunei. «Su Neulaggi», l’oleandro, era il nome di questo bar essenziale e loro si davano il cambio con altri due per sorvegliarlo durante l’inverno «perché altrimenti quelli di Dorgali ci rubano tutto. Questo è il confine dei comuni di Dorgali e Baunei». Nulla di magico quindi e nulla di paradisiaco. Ma lasciando i problemi dei due, che d’estate s’auguravano una buona frequenza di barche, Cala di Luna è assai suggestiva. Una spiaggia di arena candida racchiusa tra rocce grigie, una valle che s’inoltra chilometri all’interno. Dopo poche decine di metri c’è il torrente, fiancheggiato da gallerie d’oleandri e il canyon s’inoltra tortuoso, serpeggiando ben al di sotto dei ripiani su cui sorgono i cuili.
Ma quel giorno io non raggiunsi il mare, mi fermai prima con Roberto e salimmo Scala di Seta alla Falesia de li Purcheri. Manolo invece, giunto all’arenile, adocchiò subito due belle vie, la Fessura degli Spilli che fece con Monica e Vampiri di Vetro, sulla quale Monica non riuscì a seguirlo per le dita fredde. Lui continuò da solo dopo il primo tiro. Questo oggi è chiodato a spit come monotiro e lo danno 6b. Per Manolo era V+, che io contrattai a VI-, ma sapendo benissimo che era ancora stretto.
Ritornammo la sera verso le capanne, proprio quando queste si animavano dopo un solitario pomeriggio. Il vento si era calmato, qualche leccio aveva ceduto. Il vociare dei caprai e l’accensione del fuoco, il lentisco bruciava con crepiti e fumo penetrante. E mentre all’interno rosseggiava un quieto falò, fuori il sole calava dietro le montagne di Baunei e infiammava di bagliori purpurei i muri esterni. Così doveva essere mille anni fa, quando a Buchi Arta non arrivavano le auto. Quando fu scuro mi avviai senza pensieri e sereno per la mulattiera invasa da smussate e lucide pietre che il bestiame aveva zoccolato da sempre. Inciampai una o due volte, poi alla luce dei fari sentii il profumo della cena che era a buon punto. Prima di entrare sentii un brivido.
Carovana dei Miserabili
Come lavoratori transfrontalieri, il giorno dopo tornammo a Cala di Luna. Roberto e Monica senza troppa convinzione scelsero il pilastrino di Forse che sì forse che no. Erano scusati, il tempo ancora una volta era pessimo, la temperatura quasi proibitiva. Una brutta via per una brutta giornata. Con Manolo andai alla Parete di Somasongiu, proprio sopra alla seconda ansa della còdula. Il pilastro era interrotto da una fascia gialla e strapiombante: giunto sotto deviai un po’ a sinistra a una cengia con albero. Manolo poi ritornò a destra, al di sopra della fascia, con un obliquo bellissimo e su roccia spaziale. E da lì una fessura-diedro procedeva come una fucilata verso la vetta. La seguimmo, poi scendemmo per macchia facilmente fino al fondo della còdula. Non sapevamo nulla dei nostri compagni, perciò ci dirigemmo, nell’oscurità incipiente, a Buchi Arta.
La sera discutemmo parecchio sui gradi, il fatto che Manolo fosse di gran lunga più bravo di me non era sufficiente per accettare supino una graduazione che nulla aveva a che fare né con l’UIAA né con il buon senso. Non lo faceva apposta: è che, al di sotto di una certa difficoltà, per lui era tutto ugualmente facile… E così per la Carovana dei Miserabili di quel giorno osai parlare di VII, unilateralmente. Ancora mai ripetuta.
Tentativo alla Coda dell’Angelo
Intense sono le coltivazioni nell’agro di Dorgali: frutteti, vigneti, oliveti trovano terreno fertile perché di origine vulcanica e attraversato dal Riu Flumineddu.
Al di sopra di questo ambiente si elevano le pareti di calcare. A oriente una continua falesia divide la valle dal mare, mentre a occidente un’ondata di mare pietrificato procede ininterrotta per chilometri dal Monte Tondu fino al Monte Nercone, attraverso il Monte Oddeu. Solo in due punti la continuità della parete si spezza: allorché la Scala ‘e Sùrtana delimita a nord la bastionata dell’Oddeu e quando la profonda Gola di Gorropu trova la sua uscita poco distante da Genna Silana.
La parete dell’Oddeu è dunque lunghissima, alta mediamente dai 200 ai 250 metri. La base più comoda è vicina al ponte Sa Barva.
Un curioso e agevole spigolo nord è il limite che si affaccia direttamente sul Dolòverre e sulla Scala ‘e Sùrtana. Una bella via aperta dai finanzieri Emilio Beber, Carmelo Andreatta e Giovanni Cagnati al tempo della campagna di Partel e soci. Con Roberto lo salii il 18 gennaio, senza poi andare in vetta scendemmo a corda doppia. Ebbe da dire quando imposi una calata su un arbusto che io vedevo robustissimo e lui fragile come un fico…
La parete dell’Oddeu ha grande successo con gli arrampicatori di oggi perché strutturata a muri grigi e compatti, poco solcata da fessure o camini. Solo nel settore meridionale, quasi alla Gola di Gorropu, un elegante diedro incide la muraglia. E lì rivolsi le attenzioni.
Il 19 come al solito faceva un freddo cane, un pallido sole al mattino ci aveva fregati: non avevamo con noi la giacca a vento, solo le felpe. Manolo e io tremavamo di freddo già all’attacco. Questa maledetta carovana dei miserabili doveva registrare un successo, pena la depressione del capo e degli accoliti. Attaccai con gli occhi iniettati di sangue un diedro di 50 metri, poi continuai su un tiro ancora più difficile dove usai ogni trucco del mestiere. Non potei evitare di volare su un friend, di quelli ancora a barra rigida. Sul terzo tiro andò avanti Manolo che, nel tentativo di salire in libera il secondo, aveva fatto riprendere la circolazione del sangue. Giunti sotto a un tetto che sembrava il passo chiave erano già le 16.00. Non rimaneva che battere in ritirata, arrivammo in fondo al buio pesto. Così si chiuse il tentativo su questa via che avevo fgià battezzato La Coda dell’Angelo, sulla Est del Monte Oddeu. In giornata Roberto, Monica e Nella avevano salito Ali tarpate, sulla falesia di sinistra del Dolòverre di Sùrtana. Il 20 volevo tornare al diedro, ma la pioggia battente ci consigliò di usare il tempo in altro modo, per esempio andando a cercare la famosa Aguglia di Goloritzé.
L’Aguglia di Goloritzé
Manolo aveva visto un poster in un bar-tabacchi di Dorgali, durante i soggiorni in Sardegna quando lavorava alle scarpate rocciose ai lati delle strade; mi condusse in un locale fumoso e a colpo sicuro mi mostrò la fotografia che era ancora là appesa: una magnifica guglia calcarea si ergeva smisuratamente dal mare azzurro di una tranquilla e riservata caletta. Sembrava liscia e inaccessibile.
Era già un’impresa arrivare alla piana del Golgo, aveva momentaneamente smesso di piovere ma le sterrate erano in condizioni penose. Grazie alle cartine militari riuscii a stabilire, senza chiedere a nessuno, da che parte era la Cala Goloritzé. Ero però anche interessato a capire fino a che punto si poteva arrivare con i mezzi lungo la Còdula Sisine. Scendemmo a Ololbizzi, poi ci avventurammo ancora più a nord verso il mare invisibile. Sembrava che il Supramonte ci volesse respingere, presto ci trovammo in un guado e stupidamente proseguimmo. Eravamo in cinque sul furgone di Bonelli, che purtroppo si stava eccitando all’odore della battaglia. Dopo qualche centinaio di metri ci arrendemmo, inoltre stava ricominciando a piovere. Il tempo di fare dietro-front e tornare al guado… e scoprimmo che con molta probabilità ci eravamo fregati da soli. L’acqua scendeva rovinosamente, non si capiva neppure in quale punto eravamo passati prima. Roberto diede due sgasate all’acceleratore e poi, con uno sguardo di pura follia, si lanciò come un pazzo nel guado. Tutti noi urlavamo di terrore all’idea di ribaltarci.
Beh, era bravo a guidare, d’accordo. Però per me ha avuto anche fortuna. Ci ritrovammo dall’altra parte, decisi a rimontare al più presto il rimanente percorso pericoloso. La sera Roberto e Manolo discussero animatamente, l’uno rinfacciava assenza di soste e protezioni in arrampicata, l’altro giudicava follia pura quel modo di guidare.
Il mattino del 21 gennaio c’era sole. Salimmo al colle e, con piacevole marcia, presto ci trovammo a osservare da lontano il mare e poco dopo la vedemmo. La realtà era molto superiore alla foto. In breve fummo al mare. Un sole intermittente illuminava una scena da forti emozioni. Il vento soffiava fortissimo, il mare sbatteva ondate furiose sui poveri scogli della riva dirupata, l’Aguglia sembrava pencolare nella furia dell’aria e faceva un freddo porco. Per metterci gli imbraghi ognuno trovò una sua soluzione: non si poteva infatti stare in piedi su una gamba, anche solo per un attimo. Poco convinto, Manolo iniziò ad arrampicare, dopo essersi preparato da seduto. La mole dell’Aguglia ci sovrastava con quella che sentivamo non tanto una minaccia quanto un netto rifiuto. Non lo sapevamo, ma attaccammo nello stesso punto di Giorgio Mallucci e Rys Zaremba, tanto è vero che dopo una ventina di metri trovammo un vecchio cordino. Naturalmente non ne sapevamo nulla, allora. Manolo continuò, facendo un tiro da 45 metri. Roberto e io lo seguimmo, poi andai avanti io mirando al camino, passaggio obbligato. Mi ero esaltato: ogni piccolo particolare congiurava per rinunciare, a eccezione della mia volontà. Sosta alla base del gelido e scuro camino. Mi ci buttai dentro in quello stato di grazia che ti fa perfino essere contento di sentire meno le raffiche. Feci il tiro (solo 15 m, ma praticamente improteggibili) con l’uso di un solo sparuto chiodo, tirando fuori le balle come avevo fatto sull’Ear alla Salathé del Capitan. Ma arrivato in vetta al pilastro fu la rinuncia, non v’era altra scelta. Allorché ci vide scendere, Monica si avviò sul sentiero perché non ne poteva più di stare ferma. Arrivammo al campo che annottava, il cielo era plumbeo e Monica non era ancora arrivata! Roberto e Manolo stavano accendendo l’ennesima sigaretta come il flemmatico Yanez, ma tutti e tre pensavamo che bisognava andare a cercarla. Ormai era buio. Stavamo quasi per ripartire, quando lei arrivò, trafelata. Non riuscimmo a capire come potevamo averla sorpassata!
Quella notte i pullmini tremarono alle raffiche di vento e nulla lasciava sperare in una schiarita.
Sinfonia dei Mulini a vento
La mattina, dopo una notte agitata e con il freno a mano tirato, mi alzai per primo. Barcollando, infagottato nel duvet, andai a svegliare gli altri. Lasciai entrare senza pietà le raffiche nel vano tepido di respiro notturno di tre persone. Accesi il gas, riempii la moka per il caffè, poi mi sedetti sconsolato, cercando di rannicchiarmi. La Piana del Golgo era sconvolta da arbusti che si agitavano freneticamente, alberi che si piegavano fino a terra e lottavano disperatamente per una posizione più verticale, il cielo grigio faceva scorrere una nuvola continua a differenti graduazioni di scuro e di pioggia imminente.
Avevamo messo dei cordini per poter trattenere meglio le porte scorrevoli, avevamo visto i giorni prima grossi lecci sradicati, perfino un furgone ribaltato.
Ma per quegli strani meccanismi che a volte fanno risolvere una situazione di assoluta immobilità, Manolo e io decidemmo di andare ugualmente.
Nessuno ci seguì, era troppo chiederlo.
Alla base ci furono le consuete acrobazie per legarci, questa volta Manolo si attaccò con una fettuccia a un ginepro! Il vento, se possibile, era più violento del giorno precedente, mentre il cielo era ugualmente scuro, coperto da nuvole nere che correvano veloci. Bisognava urlare nell’orecchio dell’altro per farsi capire. Questa volta mi toccò il primo tiro e fu un’arrampicata di incredibile sofferenza, come raramente mi era già capitato sulle lontane montagne dell’Himalaya o d’inverno sulle Alpi. Ma eravamo rapiti in una strana forma di esaltazione. Il vento faceva volare i sassi, anche se difficilmente qualcuno di voi lo crederà. A volte si stava fermi sugli appigli sperando di non essere strappati via. Toccò a Manolo il camino da me fatto nel tentativo. E poi finalmente ci avventurammo su terreno nuovo, una fessura, all’inizio doppia, che solcava lieve un muro di una quindicina di metri. Qui eravamo in versante est, dopo il muro saremmo stati ancora a nord.
La tecnica era di arrampicare quando le raffiche erano meno violente, ma queste non s’intervallavano regolari, anzi ti sorprendevano. Manolo volò tre metri precipitandomi quasi addosso mentre ero sulla sommità del pilastro, la sosta 3. Continuai io e, usando il doppio di protezioni di quelle che avrebbe usato lui, ne uscii. Un’altra parete scoraggiante ci sovrastava, aperta a quella specie di bora, vedevamo a terra le fronde degli alberi impazzite. Manolo va a destra e poi s’impegna con decisione su un’ostica fessura aggrappato con tutte le forze ai minuscoli appigli. Non lo vedo, non lo sento. Sento uno strappo, poi la corda cessa di essere tesa. È volato ancora!
Arrivammo in punta con l’ultima luce: a quello scenario apocalittico si era aggiunta una vetta così minuscola che dovevamo abbracciarla. Quella precarietà era insostenibile. Rinforzammo la sosta sulla sommità, poi gettammo la corde a sud. Nessuno ci aveva suggerito di lasciare chiodate le soste: così avremmo potuto scendere per la via di salita. Allora non si faceva! Le corde rimanevano in orizzontale e si perdevano in direzione mare. Le recuperammo febbrilmente e vi attaccammo dei chiodi e un martello. Calando quel materiale volevamo capire se la metratura ci permetteva di arrivare da qualche parte di solido. Ma anche con la ferraglia attaccata, il capo delle corde si rifiutava di scendere in verticale! Munito di cordini per poter risalire, Manolo scese nel pozzo nero. Io con angoscia tastavo continuamente le corde per sentire se si sgravavano. Mi raccontò dopo di aver sentito con i piedi la presenza di un ginepro e quindi di essercisi gettato sopra alla fine della corda!
Lo raggiunsi, facemmo un’altra breve calata e ci trovammo in un inferno di rovi e spine sul versante sud della torre. Dovevamo andare a nord per recuperare zaini e sentiero. Nel buio pesto e nella tempesta ancora più scatenata lui andava avanti in mezzo ai blocchi e alle spine, io lo assicuravo tenendolo per le caviglie!
Ci volle quasi un’ora per arrivare agli zaini, poi un’altra ora e mezza per arrivare al campo. Ci aspettavano con i fari accesi.
Durante la giornata Monica aveva fatto il bucato, ma i panni si erano congelati. Nella era incazzata per il consumo inutile di acqua.
Il 23 il tempo era ancora brutto e il freddo siderale. Avevamo una mezza intenzione di andare a vedere la parete in Còdula di Luna e arrivammo perciò con l’Orientale Sarda al bivio per Teletotes. Qui per terra c’era il vetrato e mettemmo le catene: ma non per scendere in còdula, bensì per raggiungere al più presto Olbia. Era la fine.
Manolo è nato a Feltre (BL) il 16 febbraio 1958. A 18 anni è già fortissimo, a 20 ha già salito la via dei Piazaroi alla Cima della Madonna. Nel 1979 una serie di successi in arrampicata libera su alcune delle vie più dure delle Dolomiti (il capolavoro, la Biasin-Scalet al Sass Maor) lo consacrò numero 1. E fin qui senza allenarsi mai. Fu solo in compagnia di Heinz Mariacher, di Roberto Bassi e Bruno Pederiva che cominciò a prendere l’arrampicata in modo più sportivo e i risultati non si fecero attendere. Quando Mariacher lo vide salire sulla Signora degli Appigli alla Spiaggia delle Lucertole, lo chiamò “il Mago”. Dal Mattino dei Maghi in poi la leggenda di Manolo continuò a crescere e ancora oggi non ha finito di stupirci. Nel 1979 diventò aspirante guida e associò questa professione a quella dei lavori in esposizione (disgaggi, ecc.) fino al 1985/86, quando arrivarono prima la sponsorizzazione della Francital e poi quella della Sportiva.
L’immagine di Manolo è stata legata alla Sector per una decina d’anni, dal 1991 al 2000. Manolo ha trovato anche il tempo di scrivere tre belle guide, Nelle Pale di San Martino (Zanichelli, 1983), Appigli ridicoli (Artigianelli, 1998) e In bilico (Osteria taci cavallo Editing, 2013): specie in quest’ultima è una grossa ricerca di come narrare oggi le vie e le imprese. Manolo è nonno di quattro nipoti avuti dalla prima figlia Manuela, nonché padre di Alice (12) e Nicolò (15) avuti dalla moglie Cristina Zorzi. Vive a Fiera di Primiero.
Dopo l’improvvisa, ma dolorosamente necessaria, interruzione del nostro viaggio, tornammo a casa. Ma non fu facile ripartire in breve tempo, Manolo non poteva tornare con noi e dovetti rifare la squadra.
Nell’attesa, durante un periodo di quattro giorni alle Fate Nere di Champoluc, assieme ad Angelo Recalcati feci tre belle escursioni con gli sci: il 27 febbraio 1981 al Corno Vitello, l’1 marzo al Monte Croce (dove incontrammo uno strano gruppo di amici mascherati da carnevale) e il 2 marzo al Monte Zerbion.
Ci fu anche una breve uscita il 19 marzo 1981 nella palestra di Scarenna, vicino a Erba, assieme a Nella che mi fece sicura su cinque vie di cui non ho annotato il nome.
San Pantaleo e Capo Fìgari
La squadra messa in piedi per la seconda campagna in Sardegna era veramente imponente. Siamo veramente in tanti la mattina piovosa di quel 16 aprile 1981. Nove persone, tre furgoni e un’auto si danno appuntamento alla base delle Rocce di San Pantaleo. Ernesto Fabbri, il tanto maledetto proprietario del gommone che abbiamo ancora portato con noi, si lega con Monica e va a fare la facile traversata delle Punte di La Vigna Vecchia (una via di Mozzanica): peccato che Monica perda le lenti a contatto e che con ciò la via da piacevole le diventi spiacevole; Marco Bernardi va con Anne Lise Rochat in direzione di una repulsiva fessura granitica; Massimo Demichela, Roberto Bonelli e io in direzione di un’altrettanto orrida serie di camini; Lella Salusso (la ragazza di Roberto) e Nella fanno la guardia al nostro ingente parco automezzi. La meteo ci grazia per un pelo, in compenso noi andiamo a pericolare con sprezzo del pericolo. La via di Marco e Anne Lise risulta così dura, specialmente per una terribile e rabbiosa fessura off-width, che la chiamano Prima e ultima volta: un nome che impressionerà anche eventuali ripetitori, che in effetti ancora mancano dopo 34 anni.
Noi tre invece ci avventuriamo su Speleotrip, una serie di camini faticosi, specialmente quello del primo tiro, che mette a dura prova il non esile Massimo.
– Mi ci sono sbucciato le trippe… però era consolante sapere che, incastrato com’ero, mai avrei potuto cadere…
– Potevi rimanere lì per sempre!
– Bah, magari dopo due giorni un po’ dimagrivo!
Conclusa la via ci avviamo baldanzosi e slegati verso la prevedibile zona di uscita di Marco e Anne Lise.
Ciò che ci è risparmiato a San Pantaleo ci colpisce il giorno dopo, passato tutto a imprecare sotto una pioggia battente.
Al mattino seguente la meta diventa Capo Fìgari. Accompagno Marco, Massimo e Anne Lise in cima al faro e gli mostro dove presumibilmente fare una bella via nuova, tra il Pilastro del Divorzio e Poseidon. Poi scendo in fretta e furia per spedire Roberto e Monica alla falesia di Rocca Ruja (non sarà una grande scelta, ne uscirà infatti una via mediocre, Tartaruga zoppa). Quindi mi dedico assieme al cinquantatreenne Ernesto ai preparativi per la ricognizione a Capo Fìgari, lato mare (est). Salpiamo con un mare appena mosso che, girata la Punta Filasca, diventa agitato in modo preoccupante. Ernesto affronta le onde che arrivano una dietro all’altra urlando a squarciagola come un pazzo ripieno di adrenalina, io vedo arrivare questi muri d’acqua scura e poi mi sento precipitare ogni volta come su un otto volante. Sono terrorizzato e più gli urlo di andare piano più lui dà gas e gode di quest’avventura del cazzo. Vorrei tornare indietro subito, non me ne frega più nulla della parete da vedere: e invece ci arriviamo, proprio al culmine di un ulteriore inasprimento dell’incazzatura del mare.
E solo a quel punto il nocchiero pazzo decide di tornare. Nel tragitto io prego che il motore non si fermi come fece a Capo Caccia, Dio m’ascolta e alla fine è terra!
Non sia mai detto che quella maledetta gita marittima non serva a nulla, quindi senza perdere tempo risaliamo in cima a Capo Fìgari, scendiamo all’orlo est, ci caliamo a doppie fino al mare ancora in tempesta e risaliamo. Battezzo la via Mirage, che è il nome dell’ignobile gommone.
Anne Lise, Massimo e Marco erano già usciti dalla via del Piacere, un nome dato a scherno di un itinerario che secondo Max di piacevole non aveva nulla. Una via “laida e pericolosa”. Specialmente al secondo tiro un passaggio assai difficile avrebbe richiesto almeno la presenza di una buona sosta, che invece non c’era. E ancora: “una via inquietante, con la paranoia delle zecche”. Un’altra via di Bernardi senza ripetizioni, per ora.
Intanto Ernesto, il “chimico”, cuoceva per tutti le chioccioline di mare pazientemente da lui raccolte sugli scogli.
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Sul mio comodino fa bella mostra di sé Una frontiera da immaginare (edizione Dall’Oglio, collana Exploits, 1976!), con dedica al Mucchio Selvaggio.
Sto finendo di leggerlo per la trentasettesima volta.
… … …
Forse per Natale ne regalerò una copia al nostro Crovella. Chissà che non ne resti illuminato come Paolo sulla via di Damasco?
Molto emozionante, avevi dei bei Talenti e li hai seminati bene, ben scavato vecchia talpa!
Bel racconto condito come sempre da divertenti aneddoti.
Grazie Alessandro!
“Manolo…vive a Fiera di Primiero”: infatti a portata di mano ha praticamente tutto.Natura, Porfidi, Graniti ( massiccio Cima d’Asta) Dolomia e Calcare a stretto raggio…sciate , parapendio, bici, legna da ardere..ecc…e per i figli almeno fino alla scuola superiore comoda da raggiungere.Mentre i comuni escursionisti si guardano le varie cime e pareti, egli puo’ sempre ricordare le sue scalate sulle medesime e almeno, anche se in giornata non ha combinato, si gusta il tramonto enrozadira , specie sulla Lasta del Sol strano campanile “secondario”che cambia colori a seconda di stagione e ore del giorno.(ovviamente con una sua via)
Certi misteri sono salvifici e andrebbero protetti
Il più interessante e coinvolgente estratto de La pietra dei sogni. Abbracciare la punta dell’Aguglia è sempre una emozione, purtroppo la sua base ornata di oleandri attualmente è un letamaio con le immancabili cartacce
Sempre belle le storie sulla scoperta di quello che oggi è diventato uno dei giardini di roccia più belli al mondo. A parte le linee spittate, oggi giustamente frequentate, ci sono ancora milioni di possibilità per ogni stile e difficoltà. Pochi giorni fa ho ripercorso Bacu S’Orroargiu (dove il solito Manolo ha di recente tracciato alcune linee strepitose su suggerimento di Fulvio Balbi) e circondato da tutta quella roccia immaginavo, ma non sapevo molto, dove potevano essere saliti Nadali, Giorgi e C. durante le loro campagne selvagge a Sa Ena. È bello che il Supramonte sia ancora pieno di misteri.