L’alpinismo come attività fisica

L’alpinismo come attività fisica
di Pierachille Barzaghi
(pubblicato su Lo Scarpone n. 2/1981)

Ho provato a spiegare in un precedente articolo che l’alpinismo potrebbe esser inteso come una attività artistica (Lo Scarpone del 1 novembre 1979) . Ora vorrei, immagino senza che sia necessario dimostrare che lo è, discutere dell’alpinismo come attività fisica. Il discorso che farò potrebbe, probabilmente, riguardare anche tutti gli altri sport, ma anche dal punto di vista del metodo vale la pena di attenersi ad un esempio singolo ben noto e tenerlo come riferimento. Intanto, cosa è un’attività fisica? Un pittore o un meccanico esercitano una attività più fisica o più mentale? È possibile nella loro opera scindere l’atto dalla concezione, per esempio un pittore può pensare il quadro e farlo eseguire da altri?

La distinzione dell’uomo in corpo e spirito non è una distinzione naturale e propria di ogni cultura, ma data dalla filosofia greca. In molte lingue antiche esisteva una sola parola che indicava l’essere vivente, e si intendeva con essa la unità corpo-spirito. Per noi sportivi, la svalutazione del corporeo pare un pregiudizio superato, ma chiediamoci se è veramente cosi: di solito, più che l’idea di una unità psicofisica, abbiamo un modo di pensare che corrisponde al “mens sana in corpore sano”. E cioè, se il corpo non è più, come diceva un filosofo, un incidente dello spirito, è pur sempre una entità subordinata allo spirito: lo sport è positivo se ci ispira pensieri e sentimenti elevati; ci parrebbe volgare il reciproco, dire che Mozart è bello perché ci rilassa i muscoli.

Se noi leggiamo i racconti di montagna ci accorgiamo che quasi sempre l’accento è posto sull’aspetto spirituale delle reazioni di chi è in montagna: la bellezza estetica del paesaggio, l’amicizia per i compagni, eccetera. Oppure, l’accento è tutto sulla fatica, l’impegno, le forti sensazioni che provoca l’aspetto selvaggio della montagna, e perché? Il motivo è trasparente, fatica e rischio sono intesi in senso moralistico come ascesi, riscatto della “fatica bruta” del corpo, in grado di indirizzare allo spirituale. Di rado capita di sentir descrivere sensazioni veramente fisiche, e pensare che sono cosi intense; è vero che descrivere una sensazione è più difficile che spiegare un pensiero, ma è pur strano che nei racconti degli alpinisti occupi più spazio l’Assoluto che la rugosità della roccia.

Ora io vorrei chiarire quali aspetti specificamente fisici dello sport in generale, e dell’alpinismo in particolare, mi paiono importanti. Naturalmente, pur negandola, non posso che partire da quella distinzione corpo-spirito propria della nostra civiltà, e non certo per rovesciare a favore della fisicità il vecchio pregiudizio, ma semmai per mostrare che questo tipo di attività del corpo permette una esperienza fondamentale per la persona umana, e che se lo scopo di questa esperienza, che io penso sia la conoscenza di se stesso ed il completamento della propria personalità, può esser raggiunto per molte vie, questa non deve certo esser considerata un surrogato di altre per tradizione considerate più nobili. Può essere chiarificante, per capire come può funzionare una disciplina fisica nella formazione della personalità, esaminare la via proposta dallo Yoga.

Non perché l’Oriente sia oggi di moda ma perché il porsi dal punto di vista di una cultura diversa dalla nostra è il modo migliore per capirne certi schemi. Mentre l’ascesi occidentale, coerente alle sue premesse, comanda di dirigere tutti i pensieri ed i sentimenti sull’Assoluto e di soggiogare il corpo perché non interferisca in questa ricerca, lo Yoga fa esattamente l’opposto: “Concentrati su te stesso, armonizza le funzioni della tua persona”, suggerisce, “vuota la mente di ogni pensiero inutile. Non cercare nulla, sarà l’Assoluto a trovarti quando avrai raggiunto la armonia con il Cosmo”. Questa, io penso, dev’essere anche la Via Maestra dello sport. Chiunque abbia fatto, anche da modesto dilettante, una qualsiasi attività sportiva, sa che raggiungere questa armonia, che non è automatismo, è uno dei massimi piaceri: sentire che non sto assalendo una montagna, ma che mi adeguo a lei, sento la natura della sua roccia. Non è possibile arrampicare bene pensando “questo è un appiglio rovescio, lo devo prendere dal sotto in su”, la mano deve trovare il giusto modo di prenderlo prima che io percepisca di averlo preso.

Che poi uno trovi se stesso, l’Assoluto o qualcos’altro ancora sarà una conseguenza forse necessaria ma non premeditata di questo essere “intenzionalmente non intenzionale”, come si legge in un libro di disciplina sportiva Zen. La cosa fondamentale è il rendersi conto che il provare sensazioni e l’esercitare attività fisiche è una cosa importante di per sé, che non ha bisogno di essere giustificata dagli effetti psico-intellettuali che queste attività e sensazioni provocano. Ed ecco le caratteristiche specifiche della esperienza fisica-sportiva: una esperienza completa e conclusa. Una attività fisica, e l’alpinismo per certe sue caratteristiche in modo spiccato, ci permette di avere delle esperienze magari limitate ma vissute fino in fondo ed interamente concluse: vissute, quindi, in modo molto diverso dalle esperienze dello spirito.

La funzione-spirito è per sua natura non-limitata, e le esperienze della mente hanno proprio questa caratteristica: nessun traguardo è mai veramente raggiunto, nessun risultato è mai definitivo, ogni idea rivela solo un punto di vista, una apertura ad altri sviluppi. Nessun artista anche grandissimo ha mai la sensazione che la sua opera sia interamente realizzata, esaurisca del tutto il tema, anzi proprio questo è il continuo interrogativo: come raggiungere la espressione più coerente? Se fosse tutto sbagliato? E gli stessi dubbi possiamo provare nei nostri modesti lavori quotidiani. Per questo motivo, per questa continua spinta alla critica ed al superamento di noi stessi che ne riceviamo, vale la pena di leggere, di ascoltare musica, di occuparci di problemi anche lontani dai nostri interessi concreti.

Ma il mondo dello spirito è anche disorientante, e può anche capitare che ci si illuda che ciò che è futile e banale sia invece alto ed importante. Invece la funzione-corpo ha una sua concretezza che non può essere elusa e che si impone anche allo spirito, e ci può dare questa sensazione, che un atto, un lavoro sia alla fine, se non perfetto, almeno compiuto. In questo modo può costituirsi in una preziosa àncora al reale anche per l’altra funzione complementare: da questo deriva, credo, la impressione di serena pacatezza che danno a volte le persone che esercitano un lavoro manuale che richieda abilità ed esperienza. Una esperienza che provano tutti gli alpinisti, indipendentemente dalla difficoltà dell’ascensione (può provarla anche l’espertissimo che per una volta si accontenti di una facile gita), è il senso di compiutezza che si prova quando la cima è raggiunta, e la ascensione è finita: il corpo si rilassa ed anche lo spirito prova un senso di appagamento.

Abbiamo scelto quel percorso, breve o lungo, facile o difficile che sia, su quel percorso ci siamo misurati, il compito è concluso; altre ascensioni magari più importanti ci aspettano, ma sono per un altro giorno. È difficile avere quelle oscillazioni di giudizio che rendono difficile la valutazione di una esperienza culturale: se abbiamo superato goffamente un passaggio banale, è impossibile illuderci che si trattasse di un passaggio elegante, che lo abbiamo superato in modo brillante ed originale. Il corpo, al contrario dello spirito, è difficile da ingannare. Ma che importa, si potrebbe obbiettare, sperimentare le reazioni del corpo. Ma il punto fondamentale è quello che ci indica lo Yoga: noi non sperimentiamo solo il corpo, semmai, attraverso il corpo, giungiamo a sperimentare su di un termine preciso la nostra persona unificata. Una esperienza di sé.

Nell’agire dell’uomo c’è questo bisogno di prendere coscienza di sé e delle proprie capacità. E per questo che il lavoro non è solo il modo di procurarsi da vivere, e che il raggiungere l’età della pensione può essere un dramma. Ma nella vita normale la nostra possibilità di azione è limitata da cento vincoli: economici, psicologici, sociali, gerarchici, eccetera. E, alla fine, del risultato di quello che io chiamo “la mia attività”, quale è effettivamente mio merito o demerito? A questa impossibilità di una azione effettivamente autonoma possiamo esser tentati di reagire vincolando a nostra volta gli altri, cercando non il potere (di qualsiasi tipo) per uno scopo, ma per il potere in sé. A volte invece siamo tentati di farci “mosche cocchiere”, nasconderci dietro gli altri illudendoci di condurre mentre siamo condotti. Anche in questo caso, se una qualsiasi attività fisica è un salutare termine di confronto, l’alpinismo colla sua realtà dura, lineare, che riduce al minimo la possibilità di “giochi di squadra”, impedisce qualsiasi equivoco.

Difficile, di fronte ad una via di salita, trovare scappatoie che non si dichiarino come tali. Proprio la apparente riduzione del margine di libertà, perché il campo d’azione è strettamente delimitato ed i termini del problema sono ridotti al minimo (qui la base della parete, là la cima, alcune ore di luce disponibili), permette di metter in campo tutte le nostre doti, se ne abbiamo, in una partita assolutamente leale. Le difficoltà sono le stesse per tutti, e anche se abbiamo dei compagni, di fronte ad esse siamo soli. Se uno strattone di corda ci ha aiutato, non è possibile equivocare fra chi è stato tirato e chi ha tirato: la concretezza della sensazione corporea impedisce qualsiasi illusione, e se non è cosi l’esperienza è inutile. Naturalmente la cosa importante non sarà poter dire “ho fatto la nord delle Jorasses (o il canalone Porta)”, ma l’aver capito qualche cosa di noi durante la salita. Anche i traguardi fisici sono un patrimonio comune.

Di solito si considera che le grandi opere dell’uomo nel campo della cultura sono patrimonio di tutti: la Pietà Rondanini, o la Teoria della Relatività, non si riducono a private anche se ammirevoli realizzazioni dei signori Michelangelo ed Einstein, ma diventano parte della cultura di tutti. Ciò che della cultura di oggi e di ieri è vivo diventa, anche senza che ce ne rendiamo conto, parte del nostro modo di pensare e di vivere. Si considera doveroso dare alla gente la possibilità di accedere a questo patrimonio, lo si considera un patrimonio positivo anche se sappiamo che può pure esser usato in modo sbagliato. Può esser difficile accettarlo, ma io penso che questo valga anche per le migliori realizzazioni della vita sportiva.

Se noi leggiamo le descrizioni drammatiche dei primi esploratori delle Alpi, in quei luoghi dove oggi anche un modesto sciatore della domenica trova normale sciare in pieno inverno, ci rendiamo conto che non è solo la evoluzione degli equipaggiamenti e dell’organizzazione che rende possibile questo, ma che anche chi non ha mai fatto dell’alpinismo ha ormai assorbito una coscienza della montagna, un modo di viverla ben diverso da quello dei pionieri. E quindi quello che sull’Everest hanno fatto Mallory, e poi Hillary e poi Messner dimostrando che erano possibili cose prima impensabili, diventerà la possibilità di un diverso modo di essere psico-fisico per tutti noi; non solo in montagna, ma in qualsiasi situazione. Certo, nello sport c’è il rischio del record inutile, della difficoltà fine a se stessa e senza significato umano: proprio come nel campo della cultura. È un rischio che va accettato con consapevolezza perché non si può progredire volendo la certezza di far solo cose giuste.

Lettera di un lettore
di Emilio Mondani
(da Lo Scarpone n. 5/1981)

L’articolo di Pierachille Barzaghi su «L’alpinismo come attività fisica», pubblicato nel n. 2/1981 de Lo Scarpone, supera certo la dimensione della testimonianza personale di un alpinista sul proprio modo di intendere lo sport del cuore. L’estensione del testo e la densità d’argomentazione accreditano lo scritto in quanto comunicazione puntuale sul significato culturalmente attribuito all’andare in montagna oggi. È su questo piano di cultura, di unione su di un criterio comune e obiettivo che il dibattito culturale richiede come condizione di dialogo e intesa, che mi sento di intervenire, dal basso del mio stato di habitué della montagna in versione PD. Ritengo potersi contestare a Barzaghi l’obiettività delle due affermazioni che enuncia come fatti «fondamentali»: a) che «provare sensazioni ed esercitare attività fisiche sia importante di per sé»; b) che «nella pratica dell’alpinismo noi non sperimentiamo solo il corpo, bensì sperimentiamo su di un preciso termine la nostra persona unificata».

Se vogliamo far della filosofia dell’alpinismo, ovvero cercare le ragioni autentiche che accreditano questo come altri fenomeni dell’agire e quindi dell’essere degli uomini — cosa che Barzaghi incontestabilmente fa — bisogna operare con i canoni e il rigore del discorso filosofico, che guarda i fatti, considera le sole loro caratteristiche essenziali, le interpreta giustificando le proprie affermazioni attraverso la considerazione critica delle opinioni diverse e contrarie. Su questo piano il discorso di Barzaghi è carente. Anzitutto è necessaria una giustificazione teorica dell’alpinismo come fatto fisico e sportivo? La risposta è no. Perché la nozione stessa di sport (diporto) implica la gratuità del fenomeno, in quanto divertimento. Proprio la risposta al quesito «chi te lo f a fare» svilisce lo sport inteso nella nozione originaria e nella tipologia del suo sorgere come passione dei suoi praticanti.

Originario è il fatto fisico/sportivo (segnatamente l’andare in montagna). Le riflessioni di accreditamento culturale dell’azione intrapresa vengono poi, ne sono il risultato, neppure strettamente necessario. Ma proprio perché ne conseguono, è riduttivo vedere il significato profondo dello sport collocato in una dimensione prettamente fisica. L’esperienza Yoga citata dall’autore non si può intendere come la ricerca dell’armonia psico/fisica; è la ricerca del vuoto di sé: è l’oblio dì sé nel tutto, finalizzato all’esperienza di quell’assoluto che, alla greca, preferisco chiamare Dio. Fondamentale non è allora — su questo piano di ripensamento dell’azione fatta — solo provare sensazioni fisiche, bensì collocarle in un orizzonte di vita per dar loro significato ampio, razionalità. Allora si recupera la piena legittimità delle penne che scrissero e scrivono dell’alpinismo in dimensione morale, così come esiste l’interpretazione edonista del medesimo fatto di sport.

La partita si giocherà a questo punto tra diversi modi di concepire la vita e la realtà, sarà filosofia in senso pieno e religione, qualcosa di più e diverso dal semplice andare in montagna. Mi pare anche esagerato dire che l’alpinista percepisca la propria persona unificata su di un preciso termine (su di un passaggio di vario grado). Se qui conta l’esperienza, me ne confesso profondamente ignorante. So di aver provato in montagna fatica e paura, gioia e soddisfazione, fisicamente percepite come tremito di gambe e respiro convulso, ovvero sospirone e jodeln. Ma la coscienza di queste sensazioni, il loro darle significato, mi giunge dalla riflessione di poi, del sentiero che porta a valle, del diario scritto dopo aver riposto il sacco.

E tanto le riflessioni sono profonde quanto l’impegno fisico in scalata o manovre di corda le impediva mentre si faceva l’alpinismo fisico. Che poi un’ascensione abbia, come esperienza fisica, il pregio della conclusività che le attività spirituali non avrebbero, è asserzione ingenua. Chiunque faccia a vario titolo attività culturale è cosciente che le idee sono angoli di prospettiva da cui si traguarda il reale e mai lo esauriscono; ma da qui al dire che perciò si sia insicuri del proprio operare, in perenne dubbio di essere in completo errore, Buon Dio, ce ne corre! Ben dice Barzaghi del senso dì compiutezza infuso dalla cima raggiunta, ma la stessa sensazione si prova al termine di una lettura, di uno scritto, alla soluzione di un problema.

E ancora, sull’esperienza di sé che la montagna consentirebbe. Anni fa in Dolomiti mi capitò di essere «tirato su», ma il mio comportamento successivo fu più bauscia di prima. Quindi l’esperienza di salita fu inutile? Direi proprio dì no, perché il fatto sportivo c’è stato ed ha divertito il suo attore. Dire il contrario equivarrebbe a considerare lo sport sotto l’aspetto morale e quindi contraddire proprio la prima affermazione «fondamentale» di Barzaghi. Tiriamo le somme; in montagna ci andiamo perché ci piace. Punto e basta. Da questo, come da tanti altri piaceri piccoli o grandi della vita, tutti più gustati in quanto acquisiti con sforzo e rischio (è un dato difficile da contestare), traiamo poi spunto per collegare i nostri atti alle personali idee di fondo. Ma questo non autorizza il confronto dell’alpinismo con la cultura, fatta di altra pasta, come la creazione artistica — di cui parla Barzaghi — non va equivocata con quella ludica, frutto del gioco.

Se invece vogliamo stare sul piano della considerazione filosofica dell’alpinismo, andiamo, da buoni montanari, all’essenziale, nell’atmosfera rarefatta delle altezze dove sì parla poco perché manca il fiato. Non è problema dire perché si va in montagna. Se ne è già parlato. Problema è come questo sport si inserisca autenticamente nella vita morale di coloro che lo praticano. E qui i soliloqui e complessi di colpa del solitario salitore invernale al Monviso (cfr. Rivista del CAI, novembre/dicembre 1980) — verso la memoria di Guido Rossa — possono valere per suggerire di non dare troppa importanza alle montagne e a chi le sale. Ciò dico per l’ansia dell’obiettività. Libero poi, ovviamente, ciascuno di elaborare la propria teoria sulle proprie passioni, come lo è di salire dove e come vuole. Se poi trova condivisori, essi saranno suoi compagni come i soci di cordata. Concludo, con la convinzione che certo la montagna è scuola di vita, ma solo a condizione che la si consideri con realismo, senza sostituire nuovi miti a quelli di ieri. Forse cosi, in tempo di alpinismo di massa, daremmo un piccolo contributo per diminuire il lavoro del soccorso alpino.

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L’alpinismo come attività fisica ultima modifica: 2024-05-27T05:30:00+02:00 da GognaBlog

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14 pensieri su “L’alpinismo come attività fisica”

  1. Secondo me l’alpinismo (e con questo mi riferisco alle ascensioni su goulotte, couloir,vie di misto, in ambiente alpino, ecc..) non può essere considerato uno sport o un’attività fisica da intednersi come per la corsa, o il nuoto… questo a causa della notevole compenente di rischio che include, nonstante oggi si disponga di tecnologia e di matieriali più performanti: il livello della difficoltà ricercata si è alzato  e la platea di persone che si sono avvicinate all’alpinismo è aumentata… perciò i rischi per la maggior parte di coloro che lo praticano non sono diminuiti, piuttosto è diminuita  la percezione del rischio per molte persone che si affidano troppo alla tecnologia e ai materiali, ma la montagna è sempre la stessa… 
    Secondo me c’è una visione edulcorata delle amicizie e delle relazioni che si formano in ambito alpnistico… spesso le ascese si condividono con un “socio” che ha ben poco a che fare con l’amicizia, sono momentanei sodalizi tra due o più perosne per raggiungere lo stesso effimero obiettivo alpinistico… per il quale spesso si rischia anche la vita propria e degli altri…  di per se è un’attività folle e inutile fatta per i falliti che non hanno niente da perdere nella loro vita…

  2. Retorica pletorica verbosita ingenieristica: dire mille parole per aver poco da dire.
    Pallosita anni 80.
    Sole e acciaio. Il tempo stringe.

  3. Les activités en montagne sont très nombreuses, et chacun peut y trouver son bonheur.
    On pourrait en discuter jusqu’à la fin des temps… et cela ne changerait rien.

  4. Che mi sono persa, Guido? Che c’entrano i mariti? 🙂
     
    Anche se ci sono tanti spunti interessanti nelle considerazioni dell’autore, anche me sembra un po’ farraginoso.

  5. Fabio, grazie per il consiglio, ma con la signora in nero ho un rapporto molto sereno.  
    Comunque alle signore il nero gli dona…????

  6. Alberto infatti non mi riferivo a te….mi riferisco a tutti quelli che non si identificano nella loro azione ma anzi si perdono in parole…..

    Quelli sono i critici che di solito sono degli artisti mancati…preferiscono le parole ai fatti.

  7. Caro Alberto, ti ricordi che cosa urlavano nei cortei durante il Sessantotto? 
    “Benassi, borghese,
    ancora qualche mese!”
     
    Mi pare che si gridasse proprio cosí. O sbaglio?
    😀 😀 😀
     
    … … …
    Mi sono accorto che pure tu accenni di tanto in tanto alla Signora in Nero e alla caducità di tutte le cose.
    Accetta questo consiglio da amico di blog: cerca di pensarci di meno. Mi dicono che si viva meglio.
     
    P.S. Certo che la vita è strana: da giovani si pensa sempre alla Signora in Rosso; poi, soprattutto a partire da una certa età, alla Signora in Nero. Mah!

  8. Alberto infatti non mi riferivo a te….mi riferisco a tutti quelli che non si identificano nella loro azione ma anzi si perdono in parole…..

  9. Salve scusate il cinismo ma queste sono  elucubrazioni maniacali. Intellettuali borghesi che posticipano l’azione annegando in una marea di parole. Sole e acciaio. Il tempo stringe.

    Io sulla mie mai c’ho i calli. E non me li sono fatti a suon di pippe. Sono un intellettuale borghese??
    Il tempo passa per tutti, che tu faccia o che non faccia. Alla fine siamo tutti uguali, la grande signora ci livella.

  10. Salve scusate il cinismo ma queste sono  elucubrazioni maniacali. Intellettuali borghesi che posticipano l’azione annegando in una marea di parole. Sole e acciaio. Il tempo stringe. 

  11. Io appartengo alla linea di pensiero dell’accademico torinese Massimo Mila, secondo il quale l’alpinismo è una delle poche attività umane in cui si fondano insieme pensiero e azione. (nota: “alpinismo” come “andare in montagna”). Di conseguenze le due componenti sono inevitabili. Ognuno trova il giusto mix fra queste due componenti. In linea teorica si potrebbe andare anche a 100% di una e 0% dell’altra, ma ovviamente non è più “andar in montagna”. Se uno vive solo (100%) l’aspetto culturale-emotivo-ideologico e non fa più neppure un passo sul sentiero, perde il contatto con la montagna. All’opposto che spinge la componente atletico-sportiva al 100% e azzera l’altra, vive l’andar in montagna come uno sport e lo inaridisce. L’interesse, anche a livello  di semplice amatore della domenica, continua a vivere finché si migliora: se oggi hai fatto 100 m di D+ in più, so se hai fatto mezzo grado in più sulla roccia, allora arde l’interesse, altrimenti si riduce. Ma prima o poi ognuno raggiunge il proprio limite e i miglioramenti sono così esigui da risultare inesistenti, finché si estinguono oggettivamente. A quel punto chi ha un approccio puramente sportivo impatta con la frustrazione di non migliorare più e getta alle ortiche sci o imbragatura, piccozza o varappes. Coltivare una componente intellettuale è quindi fondamentale per rimanere interessanti alle montagne per tutta la vita. In questo ultimo concetto io vedo il valore “artistico” dell’andar in montagna, a maggior ragione per un qualsiasi sconosciuto amatore della domenica.

  12. Che senso ha lo sport se allontana dalla contemplazione della bellezza in montagna?

    Che nell’alpinismo ci sia una componente sportiva non ci sono dubbi, e va anche bene. Sta a noi non farci prevaricare e vederci solo sport e  allo stesso tempo non farci prevaricare dalla tecnica.

  13. Da una parte l’alpinismo sportivo ha dissipato il moralismo dell’alpinismo eroico, ma d’altra parte consegna gli uomini alle prevaricazioni della tecnica. In ogni caso non si può rifiutare la domanda sul senso della vita senza perdere la propria umanità. Che senso ha lo sport se allontana dalla contemplazione della bellezza in montagna?

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