L’alpinismo di Gabriele Boccalatte o l’ALPINISMO
di Salvatore Gabbe Gargioni
Si aggirava senza una meta, se non dettata da un’immediata necessità, l’homo erectus da poco! Su pianure e acquitrini immensi, pianeggianti. Interminabili, anche per la sua inconscia resistenza…
Ma nel suo vagare un giorno alzò senza volere lo sguardo e scorse all’orizzonte, qualcosa che per caso si stampò sulla sua retina. Vide senza osservare. Senza curiosità.
Senza un programma, e quindi per caso, un qualche numero di neuroni, “I Primi Vicini” come si dice in fisica, iniziarono per necessità biochimica ad interagire creando nell’ emisfero sinistro del cervello una zona di interesse, nuovo, verso gli stimoli in arrivo. Così iniziò a guardare.
Il terreno cambiò inclinazione mentre procedeva, per la prima volta attratto da qualcosa di inanimato, non per sfuggire a un pericolo o inseguire una preda. Anche se il terreno sempre più impervio costituiva un problema nuovo, pur avendone ormai superati per tipo e difficoltà innumerevoli.
Ma quell’immagine impressa una volta, ora sembrava lentamente materializzarsi dinnanzi. E quella zona dell’emisfero cerebrale, che presiedeva alla curiosità, lo spronò a proseguire. Sino al punto più alto. Da dove, la visione di infiniti altri simili mostri, grandi e uguali, senza soluzione di continuità apparente, lo spaventò e deluse. Non aveva scoperto o trovato qualcosa di unico, e quindi neppure di nuovo!
Era nato l’alpinismo. Quanti migliaia di anni prima dell’ALPINISMO!
Mi viene in mente Les conquérants de l’inutile di Lionel Terray. Quell’omarino, sperduto in quell’iniziale brodo di cultura dell’umanità (stavo per dire della Civiltà, mi sono fermato in tempo…) è certo un antenato del grande Lionel!
Inutile, forse, quest’ALPINISMO, ma proprio per questo un’affascinante attività umana.
’Sagera nen! mi suggeriscono gli amici di Cuneo!
Quando vengono a mancare le forze, o quando le vicende della vita riescono a distoglierci persino dalle passioni, vengono in soccorso, placebo naturali ma effimeri, i ricordi, le analisi, la critica degli atti propri e altrui. Possono rappresentare una consolazione, a volte un nuovo paradigma di vita.
Iniziai a esaminare i miei gesti, le mie “inclinazioni”, così come quelli degli amici, e quelli degli animali, dei famigliari e/o dei personaggi che si erano affacciati sul mio mondo con criteri naturalmente solo miei, volontariamente(?), scelti. Non credo, perché è una mistificazione, all’idea del homo faber fortunae suae. Sono mille le pulsioni che cerchiamo di assecondare, e se ottieni qualche risultato ti lanci sulla corsia di un successo che non sempre realizzi ma che contribuisce alla vita confortandoti lungo il percorso.
Un’analisi delle discipline montane, oggi sempre più intese e praticate come attività ludiche (Plaisir, come dice l’amico Gianni Ghiglione riferendosi all’arrampicata nelle sue cento declinazioni) e dell’Alpinismo, esaltante perché rischioso, difficile, richiedente dedizione e tempo, nel quale i pericoli si perpetuano dall’apprendimento, sino alla frequentazione (che sembrano assopirsi dopo quattro anni di attività intensa, come pensava e mi raccontava Guido Rossa che sull’ultimo passaggio ha esagerato, o qualcuno ha tagliato la corda?): l’analisi dicevo, può essere divertente, pur rappresentando un “metaalpinismo”, discorsi, logos, sull’Alpinismo. Così come la critica letteraria è “metaletteratura”, ma non per questo meno interessante, ecc. Ma dedicarsi alla speculazione, vivifica e alimenta ricordi, aiuta la vita.
Sarà l’ultimo sgarbo, l’ultimo racconto o l’ultima contestazione, e come scrisse Vittorio Luciano Pescia nell’ultimo (!) articolo sulla Rivista della Sezione Ligure del CAI: “Non contradditemi!”.
L’attività alpinistica sembra aver subito un salto o una rottura nella spirale del “DNA Alpinistico”, se mai esistesse, e non recentemente. L’evoluzione procede a salti e per errori, non avendo un binario come guida, e solo a posteriori individuiamo una continuità, uno scopo, un intento… inesistente. E’ inevitabile accettare le trasformazioni, che inevitabilmente avvengono. Ma può… dispiacere?!
E quest’analisi la faccio dopo aver letto, già da molto tempo, il libro che la moglie Ninì Pietrasanta pubblicò dopo la scomparsa di Gabriele Boccalatte: Piccole e grandi ore alpine, i commenti di Massimo Mila dedicati a Boccalatte, quelli più critici di Armando Biancardi; confortato da quanto scrive Alessandro Gogna e legatomi con un nodo Bulino, corda di canapa, due chiodi, qualche moschettone e l’inseparabile mazzetta Cassin (non depitonneur, siamo proprio alla frutta), ho posato religiosamente, come per un rito propiziatorio, le mani sulla roccia, come faceva e diceva Euro Montagna, e ho iniziato a… scrivere. Vedremo se sarò capace di raggiungere la Vetta. Questo è lo scopo originale nel pensiero e nell’agire della Montagna. Pensate: scopo, meta, goal, mira sono sinonimi! Forse anche Vetta?
Tutto il resto potrebbe definirsi una Sovrastruttura, anche se non credo Karl Marx conoscesse il significato matematico di struttura.
E’ naturale e consolatorio crearsi Miti personali, o farne propri altri. Ma senza una “coltivazione piacevole e cosciente” si sfocia negli Idoli. Così come detestare i Miti, tacitando i propri, nasconde una sorta di invidia, di timore per un confronto seppure virtuale. E’ un sentimento, una debolezza che la psicologia descrive.
Ho controllato anche i lacci delle pedule e ora posso… scrivere:
Viva Boccalatte!
’Sagera nen!” mi suggeriscono ancora.
Un ricordo del personale “mito Boccalatte”, risale alla serata del lunedì 26 novembre 2012 a Genova, quando Fulvio Scotto presentò il suo libro Scarason e io intervenni, presente Alessandro Gogna primo salitore, affermando che la ricerca, la scelta, la scalata di quella prima salita mi ricordavano le scelte, le invenzioni di Boccalatte. Quella era la mia impressione che articoli e saggi, il suo libro e il racconto della sua Ninì Pietrasanta mi avevano ispirato e confermato.
Se osservate un bambino, giovanissimo, e lo avvicinate ad un sasso poco più alto di lui vedrete (controllandolo!) che istintivamente fa dei gesti naturali, simili agli insegnamenti dei primi Corsi di Alpinismo e cerca di arrivare… sopra. Non possiede il concetto di Vetta, ma vuole salire per salire e per arrivare.
Torniamo al nostro Gabriele, visto il “mito costruitomi”: cosa pensa, cosa adotta come metodo per affrontare una salita, per scegliere una parete o una montagna? Ricerca, trova, non solo pareti e salite famose, possibili “prime”, ma la costante applicazione della propria “ontologia” e per esteso quella della Montagna.
Gli aspetti, i metodi, le mire del suo Alpinismo e della sua vita mi hanno affascinato, ad iniziare dalla passione, coltivata parallelamente con amore e successo per la musica. Per il mio amatissimo Pianoforte che non saprei toccare con un dito ma che è lo strumento più libero proprio perché il più limitato. Ossimoro intrigante che coltivo da sempre e forse la metafora perfetta della Democrazia che ti offre la Libertà nell’ambito di regole. Si può fare un parallelo tra interpretare un brano di Beethoven in cento modi e in cento modi inventarsi una via non necessariamente la più diretta, la più “scolastica”, più assurda. A proposito, su una raccolta di brani dalla rivista francese Passage un autore parla delle ripetizioni di una salita come le repliche di un’opera musicale e necessariamente delle varie interpretazioni.
Digressione 1, il racconto delle sue “ferie alpinistiche” dei primi anni, in un periodo limitato, con pochi soldi, senza auto mi ricorda i nostri primi tempi: massimo quindici giorni in Marittime o una settimana… sulle Alpi… “macongranpenalerecagiù”, treno, corriera, ecc. Come il suo volteggiare sul mitico Sasso Preuss dove sale da tutte le parti: sono riuscito alla prima, pensate, ad arrivare in cima con un movimento (sbilenco) inventatomi alla mia casalinga Pietra Grande. Fine Digressione 1.
Cosa distingue, seppur criticato, il suo metodo per “salire”: dalla ricerca della via logica, che significa per salire, arrivare. Da una parete, o da una cresta, non necessariamente una via tracciata con una penna su una foto o individuata con un binocolo, più diretta possibile ma da… una tensione per il raggiungimento della vetta… non c’è altrettanto cruccio per la via seguita». Il fatto è che le vie a goccia d’acqua non «interessavano» Boccalatte, perché violentando la montagna gli toglievano il piacere più grande dell’alpinismo: capire la montagna.
L’astuzia del montanaro che cerca i punti deboli non era dettata in Boccalatte dal proposito utilitario di ottenere il maggior risultato col minor dispendio di energie, come non velatamente, lo critica Armando Biancardi aggiungendo che la via era in sostanza storta! Ma lacomprensione della Montagna, nel significato latino della parola: “racchiudere in sé”.
E’ ancora l’ossessione estetica che deve governare la via di salita, nel suo divenire. Si potrebbe dire nella “topografia” e nell’arte del salire… l’eleganza che richiede a se stesso nei movimenti che, se forzati, vuole ripetere per migliorare il gesto.
La legge che governa le sue salite è una sola, il bello. Amava tanto la roccia che il ghiaccio, certamente più quella che questo, le Alpi Occidentali come le Dolomiti, le vie nuove come le ripetizioni…
«essendo un passaggio di forza sulle mani, non è nella mia specialità, trovandomi io invece molto più sicuro dov’è in gioco l’equilibrio e la leggerezza».
Digressione 2: anche quest’aspetto della sua “debolezza” (scusami Gabriele), che ritrovo mia, è stato uno dei motivi della mia “Boccalatticomania”. Fine Digressione 2
Pensa al fatale degrado cui vanno incontro le vie nuove, quando… «la parete salita verrà, negli anni futuri… calpestata dal giudizio di arrampicatori… con l’itinerario nel taschino della giacca…».
Vi si fa strada una concezione classica dell’alpinismo come esplorazione – come ricognizione della Natura e contatto, compenetrazione con essa – che lo porta, di fatto, a privilegiare le grosse, scomode e faticose montagne occidentali.
«Questa è una di quelle salite sportive, che col tempo verranno risolte a furia di chiodi, ma che interessano poco dal lato alpinistico (pag. 191, pag. 241)».
Vivere in montagna, era l’arte, la vocazione di Boccalatte, e gli alimentava l’animo d’infinite esperienze.
Le citazioni, le analisi, le critiche riportate, tratte dagli scritti di Massimo Mila, Armando Biancardi e Alessandro Gogna e quelle di Boccalatte stesso, che oltretutto le ha raccolte, rappresentano un’analisi storica dell’Alpinismo di Gabriele Boccalatte che richiederebbe l’opera di uno storico, che io non sono, con documenti nuovi, per ampliare e investigare questo personaggio.
Ma è il racconto di un mio percorso personale, dai Miti coltivati nell’iniziale esperienza alpinistica, con gli ottimi compagni capaci di suscitarli – Euro Montagna in primis – e tutti i libri che ho e che abbiamo letto. Così nasce l’ammirazione per una serie di Alpinisti, personaggi vivificati dai loro scritti e dalle loro avventure. Erano icone indiscutibili, impossibili da confrontare o analizzare: erano appunto icone inossidabili.
Nell’elenco, né cronologico né valoriale, ricordo l’iniziale ammirazione per Paul Preuss, ieratico quasi ascetico, meno per la figura estetizzante di Emilio Comici. Arrivò Giusto Gervasutti come un asteroide che spiana il panorama terrestre dell’Alpinismo, almeno per noi, da Euro alimentati a “Giusto e latte” per crescere. Di questi ho letto anche il suo libro Le mie scalate nelle Alpi, stampato dalla Tipografia Gervasutti & C. (che era la sua!).
Passaggi od occasioni per citarlo cento volte. Quando nel 1956 salii per la prima volta sul Corno Stella per la via Decessole, scendemmo con il mio compagno di cordata Michele Bordo dallo “spigolo basso” che richiedeva 3 “rappel”, ma con la prima scorsi un minuscolo terrazzino che immediatamente nominammo “o terrazzin de Gervasutti”! E con una seconda si arrivava… a casa.
I racconti di Renato Chabod innalzarono il Fortissimo all’Olimpo dell’alpinismo.
Ma in seguito, ancora vivo e conosciuto, arrivò il mito di Riccardo Cassin, pragmatico, decisionista, capace ai nostri occhi di qualunque impresa, escluso il K2 perché qualcuno lo scartò! E forse anche per questo ci apparve più grande.
Gaston Rébuffat per il suo libro Stelle e Tempeste e per i filmati con un violoncellista sul ghiacciaio.
E ancora Walter Bonatti, ammirato, “letto”, sui suoi libri e articoli, inorriditi per la vicenda del K2 (sempre quello!). La sua vita a 360° per le avventure e romantica per amore.
Ma un giorno, parlando con l’amica Maria Grazia Capra di figure dell’alpinismo, lei mi chiese qual è il più “grande”. Non esitai: Hermann Buhl! Perché? Per il suo silenzio! La sua modestia! La sua grandezza, che sembra una tautologia ma si verifica cercando la trama della sua vita.
Ed ora con tutti questi vecchi e nuovi “miti” che si sono succeduti nel mio sentire, perché mi sono “fermato” a Gabriele Boccalatte? Se non sono riuscito a spiegarmi strappate queste pagine e usatele per accendere il fuoco e cuocere una suntuosa grigliata alla quale vorrete invitarmi. Io porto il vino.
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Distratti dal carisma di Gervasutti, perfino noi torinesi non teniamo nella giusta considerazione Gabriele Boccalatte, che in realtà dovrebbe essere il nostro beniamino, visto che era torinese Doc. Ma la nomea del Fortissimo ha decisamente oscurato quella di Gabriele. Ci sono anche sei anni di maggior attività di Giusto. Eppure Boccalatte è descritto da tutti come un funambolo sulla roccia (“arrampicava accarezzandola”) e forse era perfino più dotato, in termini di talento arrampicatorio, del Fortissimo. Fra i due si consumò un rapporto di strisciante competizione, poiché erano le due prime donne dell’ambiene subalpino anni ’30, cosa che freno’ la loro collaborazione. Una sistematica cordata Boccalatte-Gervasutti sarebbe stata strepitosa, come hanno dimostrato in una delle poche imprese realizzate insieme: il Pic Gugliermina, con alcuni passaggi che ancor oggi, vengono classificati ben oltre il VI classico.
Bellissimo scritto, diretto, interessante e spontaneo. Il finale è proprio ligure. Di quelli che darsi addosso fa godere. Ma non so quanti lo capiranno, lo spirito del finale, intendo.