In occasione della pubblicazione Valle della Luce, alpinismo in Valle della Sarca e Valle dei Laghi, siamo andati a scovare un sobrio articolo di Franco Gadotti, uno dei massimi protagonisti nella storia alpinistica della Valle della Sarca. Questo scritto avrebbe dovuto far parte della parte antologica di Valle della Luce, ma ne è stato escluso purtroppo per mancanza di spazio.
L’alpinismo sta morendo?
(Un’analisi personale delle attuali tendenze)
di Franco Gadotti
(pubblicato su Rivista Mensile del CAI, febbraio 1975)
Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(0), disimpegno-entertainment(2)
Mezzo secolo fa, i migliori rocciatori cercavano di firmare con un itinerario, se possibile più logico e difficile di quelli già esistenti, le più grandi pareti delle Alpi. Le vie, stupende arrampicate libere, erano tracciate con un numero limitatissimo di chiodi: questo, oltre che per motivi etici, soprattutto perché i chiodi erano rudimentali, i passaggi erano tali da essere superati, dai migliori, in libera, e le cime, non stracolme di itinerari, permettevano di ricercare senza il pericolo di antiestetici incroci i punti deboli della parete.
Attorno agli anni Cinquanta, esaurite le più importanti vie in libera, i ricercatori di vie nuove devono posare la loro attenzione sulle pareti allora ritenute impossibili. Ma impossibili da essere superate con i sistemi tradizionali! Gli alpinisti inventano perforatori, con cui superano tetti e strapiombi, e amache. Però un’ombra comincia a vagare nei loro animi: se l’impossibile non esiste più, come può l’alpinismo sopravvivere?
4 novembre 1974. Franco Gadotti nel diedro finale della via degli Amici, Monte Brento, 1a ascensione. Foto Giorgio Cantaloni.
Sorge il dubbio, ai giorni nostri, di aver sbagliato, di non aver agito eticamente: si accusano le staffe e i chiodi a pressione, strumenti tipici del sestogradista estremo di dieci anni fa, di uccidere l’alpinismo.
Ma non è stato uno sbaglio! Era logico che l’uomo, animale intelligente, affinasse la sua tecnica a tale punto da vincere, una volta esauriti gli itinerari classici, le pareti ancora vergini. Non serve dibattersi nelle polemiche. Il problema è piuttosto quello di scoprire in che modo l’alpinismo si possa evolvere; se attraverso il chiodo a pressione e ciò che ad esso potrà seguire, o attraverso la rivalutazione dell’arrampicata libera.
L’impossibile esiste ancora. Basta avere l’intelligenza di riscoprirlo e la modestia di ammetterlo. Occorre soprattutto accettare quei principi etici che, senza troppo comprimere la libertà, appaiono necessari ai fini dell’evoluzione dell’alpinismo e della sua stessa sopravvivenza.
Credo che molti l’abbiano capito ormai; per noi giovani sembra comunque chiaro che è necessario dedicarci all’arrampicata libera, e che soltanto in questa direzione è possibile realizzare ancora dei valori incancellabili nel tempo. Per riuscire in ciò, è essenziale sottoporsi a intense e metodiche preparazioni atletiche, spesso più dure degli allenamenti richiesti per le altre discipline sportive. I grandi d’un tempo (come Vinatzer, Carlesso, Detassis) effettuarono le loro performance quasi esclusivamente sulla base di doti personali. Mediante allenamenti specifici è senza dubbio possibile tracciare, con limitatissimi mezzi artificiali, itinerari ancora più belli e impegnativi.
Qualcuno (si pensi agli ormai mitici Cozzolino e Messner, ma anche a tanti altri giovani) è già riuscito a spostare un po’ il limite dell’arrampicata libera, il limite delle solitarie, delle invernali, della parsimonia nell’uso dei chiodi; e ciò sta a dimostrare che la via intrapresa è quella giusta.
Sembra di poter affermare che la nostra epoca si distinguerà per aver ricercato nell’arrampicata libera nuovi traguardi, sempre più vicini al limite mutevole delle possibilità umane.
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Ripeto e ricordo però che nel 1985-86 degli sloveni avevano salito il Cerro Torre aprendo la Direttissima dell’Inferno….. Knetz la definisce la sua via più difficile e ad oggi non è stata ancora ripetuta.
L’altra slovena di quegli anni è sulla Torre Egger, viene data più “facile” di ben 1 grado, ma è stata ripetuta dopo 29 anni, in stile alpino, da Korra Pesce che la definisce la via più difficile che lui abbia salito.
Mi piacerebbe leggere ancora nomi di tanti italiani (anche se Korra è un emigrante italiano 🙂 )
Negli anni 2K ci sono state almeno 30 imprese alpinistiche senza o con pochissimi precedenti perchè la tecnica degli alpinisti moderni è immensamente superiore a quella degli alpinisti passati (sono aumentate le conoscenze di come allenarsi, in questo Cesen fu un pioniere avanti di almeno dieci anni, e anche i materiali sono più leggeri. Ma soprattutto la tecnica: uno che fa il 7c a vista o l’M9 a vista e va in montagna polverizza i tempi di salita di dieci anni prima, e può permettersi in poche ore, finestre meteo cortissime, salite che avrebbero richiesto bivacchi ai suoi predecessori), solo che l’alpinismo di punta è molto meno conosciuto rispetto al passato perchè, appunto, più tecnico. E’ così in tutte le disciplice: si conosce il mainstream ( Ramazzotti piuttosto che le salite agli 8000), e solo gli appassionati conoscono la punta ( Keith Jarrett e i Dream Theater piuttosto che le salite in Patagonia di questi anni). Sarà sempre più così i più furbi, alla ramazzotti appunto, approfitteranno della grancassa mainstream. Le cento pareti/linee più difficili del pianeta sono ancora tutte da salire. Probabilmente anche le 500 più difficili. Approfitto per dire che lo Sperone Mummery non era assolutamente una via da suicidio o fuori portata per Daniele e Tom, tutte le pià grandi imprese alpinistiche di questi anni hanno quella dimensione e quel margine di rischio, Ovviamente non stiamo parlando di Curling e tanomeno di calcio. L’alpinismo di punta moderno è pazzescamente pericoloso ed è paragonabile alla formula 1 fino a Villeneuve. E’ per pochissimi eletti, tutti fenomeni,con percentuali di sopravvivenza uguali, appunto, alla Formula 1 di 40 anni fa. Negli ultimi 15 anni sono morti tantissimi grandiosi alpinisti (Steck, Humar, Potter, Leclerc, Lafaille, la lista è lunghissima e impressionante), non c’è forse etica o morale in questo ma sarebbe da fessi applaudire alle grandi imprese alpinistiche dimenticandosi che tutti i fenomeni che le tentano rischiano la pelle a percentuale altissima. Posso dire che nei miei 8 anni di presidenza ragni almeno 5 grandissime imprese non mi fecero dormire per qualche notte, erano assurdamente complesse, difficili ed estreme. E’ così. a chi non piace non deve piacere neppure il motociclisimo e la boxe, perchè non sono discipline che, praticate ad altissimo livello, possono essere considerate alla stregua di altre. Buona giornata a tutti
Direi che l’alpinismo non è morto se non in Italia.
Come fai notare, basta leggere quello che tutti gli altri fanno, per rendersi conto che in Italia meno di pochissimi fanno dell’alpinismo di una qualche attualità.
“L’ALPINISMO STA MORENDO? La domenica pomeriggio, dopo una bella passeggiata, è il momento del relax… e delle letture; mi capita sottomano un articolo scritto da un ventenne Franco Gadotti, nel febbraio del 1975, che però sembra pensato oggi… In un momento in cui, da una parte, nascono ogni giorno “talenti” e “fenomeni” che considerano l’alpinismo come un’operazione di marketing per poter raggiungere facilmente notorietà e possibilmente anche entrate economiche. Dall’altra, personaggi sconosciuti al “pubblico” (se di pubblico in alpinismo si può parlare) come i russi dello Jannu (Sergey Nilov e Dmitry Golovchenko) che hanno aperto una via “impossibile” sull’inviolata parete est di una delle montagne più ostiche dell’Himalaya, o il vagabondo americano Jim Reynolds, che, senza alcun clamore, sta salendo e scendendo in free solo (cioè senza alcuna protezione) una dopo l’altra le grandi vie su roccia della Patagonia! Potrebbe essere utile, ai “talenti e fenomeni” nostrani, questa umile lettura. Fatta da un autentico “fenomeno” dell’allora nascente movimento del free climbing, che si interroga su cosa si può, o si deve, considerare “impossibile”. Per non dimenticare che “superamento dell’impossibile” nulla ha da spartire con la fortuna, ma, invece, sottintende allenamento feroce, caparbietà, volontà ferrea e, anche, qualche dote specifica. Che non tutti, purtroppo, hanno, ed è quella che, a parità di allenamento e volontà, distingue l’ottimo alpinista dal fuoriclasse. In tutto questo, marketing, facebook, e aspirazioni da “guru” valgono ZERO. E non basta desiderare (o pretendere) di entrare nella Storia dell’Alpinismo per essere considerati grandi alpinisti… Metto in copia alcuni amici, alcuni di loro autentici grandi alpinisti, con l’intento di condividere questo pensiero. Buona domenica. L’ALPINISMO STA MORENDO? di Franco Gadotti (pubblicato su Rivista Mensile del CAI, febbraio 1975 e ripreso da Gognablog) Mezzo secolo fa, i migliori rocciatori cercavano di firmare con un itinerario, se possibile più logico e difficile di quelli già esistenti, le più grandi pareti delle Alpi. Le vie, stupende arrampicate libere, erano tracciate con un numero limitatissimo di chiodi: questo, oltre che per motivi etici, soprattutto perché i chiodi erano rudimentali, i passaggi erano tali da essere superati, dai migliori, in libera, e le cime, non stracolme di itinerari, permettevano di ricercare senza il pericolo di antiestetici incroci i punti deboli della parete. Attorno agli anni Cinquanta, esaurite le più importanti vie in libera, i ricercatori di vie nuove devono posare la loro attenzione sulle pareti allora ritenute impossibili. Ma impossibili da essere superate con i sistemi tradizionali! Gli alpinisti inventano perforatori, con cui superano tetti e strapiombi, e amache. Però un’ombra comincia a vagare nei loro animi: se l’impossibile non esiste più, come può l’alpinismo sopravvivere? Sorge il dubbio, ai giorni nostri, di aver sbagliato, di non aver agito eticamente: si accusano le staffe e i chiodi a pressione, strumenti tipici del sestogradista estremo di dieci anni fa, di uccidere l’alpinismo. Ma non è stato uno sbaglio! Era logico che l’uomo, animale intelligente, affinasse la sua tecnica a tale punto da vincere, una volta esauriti gli itinerari classici, le pareti ancora vergini. Non serve dibattersi nelle polemiche. Il problema è piuttosto quello di scoprire in che modo l’alpinismo si possa evolvere; se attraverso il chiodo a pressione e ciò che ad esso potrà seguire, o attraverso la rivalutazione dell’arrampicata libera. L’impossibile esiste ancora. Basta avere l’intelligenza di riscoprirlo e la modestia di ammetterlo. Occorre soprattutto accettare quei principi etici che, senza troppo comprimere la libertà, appaiono necessari ai fini dell’evoluzione dell’alpinismo e della sua stessa sopravvivenza. Credo che molti l’abbiano capito ormai; per noi giovani sembra comunque chiaro che è necessario dedicarci all’arrampicata libera, e che soltanto in questa direzione è possibile realizzare ancora dei valori incancellabili nel tempo. Per riuscire in ciò, è essenziale sottoporsi a intense e metodiche preparazioni atletiche, spesso più dure degli allenamenti richiesti per le altre discipline sportive. I grandi d’un tempo (come Vinatzer, Carlesso, Detassis) effettuarono le loro performance quasi esclusivamente sulla base di doti personali. Mediante allenamenti specifici è senza dubbio possibile tracciare, con limitatissimi mezzi artificiali, itinerari ancora più belli e impegnativi. Qualcuno (si pensi agli ormai mitici Cozzolino e Messner, ma anche a tanti altri giovani) è già riuscito a spostare un po’ il limite dell’arrampicata libera, il limite delle solitarie, delle invernali, della parsimonia nell’uso dei chiodi; e ciò sta a dimostrare che la via intrapresa è quella giusta. Sembra di poter affermare che la nostra epoca si distinguerà per aver ricercato nell’arrampicata libera nuovi traguardi, sempre più vicini al limite mutevole delle possibilità umane.”
c’è sempre qualcuno che vede più avanti di altri.
Forse perchè si fa più domande?
Certo che Gadotti nel 1975 era già un bel po’ avanti!