Nel 1987 la casa editrice Melograno di Alessandro Gogna pubblicava la traduzione italiana del libro di Werner Bätzing L’ambiente alpino: trasformazione – distruzione – conservazione’ . Titolo originale: Die Alpen. Naturbearbeitung und Umweltzerstörung (Sendler, 1986).
Il testo si sofferma sulle trasformazioni sociali e antropiche delle Alpi (siamo negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso!).
La cosa interessante è che l’Autore ha compiuto i suoi studi dai quali è nato il testo tra le comunità delle montagne tra torinese e cuneese, allora in fase di pieno spopolamento ma ancora con un’economia contadina riconoscibile.
Le due pagine dell’illustre presentazione di Alex Langer sono di una cristallinità esemplare e sono tuttora attuali anche se negli ultimi 50 anni il mondo si è stravolto (Massimo Silvestri)
L’ambiente alpino
Presentazione e Premessa
Presentazione
di Alex Langer
Sono contento che ora anche i lettori italiani possano conoscere questo interessante e documentato lavoro di Werner Bätzing. Egli considera e descrive l’arco alpino come un “oikos”, un “habitat” complessivo e come risultato della millenaria interazione tra ambiente e uomo, ed analizza la differenza ed il conflitto tra l’uso e l’abuso di questo spazio vitale, questo Lebensraum, parola che forse andrebbe tradotta meglio come “territorio vissuto”. È un esempio particolarmente convincente di visione ecologica in senso ampio, e senza l’artificiosa scomposizione e contrapposizione tra uomo e natura, quasi che l’uomo non ne fosse parte e quasi che per godere dell’ambiente naturale lo si dovesse mettere sotto vetro.
In una situazione di generalizzato degrado ambientale e di forte emergenza ecologica può essere impellente la tentazione del mero protezionismo: salvare il salvabile, ponendolo sotto la tutela di speciali vincoli ed attraverso la sottrazione ad una fruizione che si presume comunque smodata e squilibrata. Senza negare – ovviamente – l’importanza della salvaguardia ambientale anche attraverso l’istituzione di speciali riserve, va tuttavia osservato che tale modello non può essere il paradigma prevalente o addirittura universale di difesa e recupero. Se l’equilibrio ecologico non viene ripristinato comprendendovi l’uomo e la sua fruizione moderata dell’ambiente, si arriverà al massimo a istituire e preservare un certo numero di “isole” ambientali, più simili a dei musei ecologici che non ad un Lebensraum, ad uno spazio vissuto e vivibile. Tre questioni – tra quelle che il libro di Bätzing può sollecitare ad affrontare – vorrei sottoporre all’attenzione ed alla riflessione del lettore.
1. L’arco alpino, una volta di più, risulta un’area al tempo stesso assai multiforme ed assai omogenea. Se si cominciasse a guardare al territorio non con gli occhi deformati dai confini statuali (politici o amministrativi), ma con la sensibilità e la volontà di comprendere più profondamente la rete di interdipendenze e di interazioni ambientali, risalta immediatamente la necessità di arrivare ad una considerazione unitaria che dovrebbe consigliare anche una utilizzazione unitaria e concordata dell’area alpina. Ci si sente rabbrividire se si confronta la profonda omogeneità della civiltà alpina, pur nelle sue varie e diverse articolazioni ed esperienze, con l’attuale vera e propria “corsa agli armamenti” che contrappone e vede in competizione le diverse regioni alpine in un forsennato riarmo turistico, stradale, edilizio e così via. Gli interventi di prolungamento artificiale delle stagioni turistiche – con “cannoni da neve” e quant’altro occorre per essere indipendenti dalle risorse naturali – e di altrettanto artificiale moltiplicazione delle attrazioni e delle comodità collocabili sul mercato stanno distruggendo penosamente, ed in poco tempo, quel che molte generazioni hanno pazientemente costruito e/o salvaguardato, e finiranno per tagliare del tutto il ramo su cui la stessa valorizzazione turistica è seduta, se non si porrà tempestivamente un freno. Non si potrà chiedere ai turisti di sciare su montagne anch’esse artificiali, come la “neve garantita”.
Spingersi reciprocamente, nella competizione economico-turistica tra le regioni alpine, all’accelerazione sempre più folle di un meccanismo autodistruttivo è insensato e suicida: bisognerà arrivare ad accordi di autolimitazione, che risulteranno più accettabili, nella stessa logica della mercificazione, se si potrà contare su analoghe politiche anche da parte dei concorrenti. La varietà, ma anche l’unità dell'”habitat” alpino (dal punto di vista ecologico, sociale, economico, culturale), dovrebbe oggi consigliare uno sforzo congiunto di buon vicinato, per non farsi schiacciare da strade ed autostrade, alberghi e swimming-pool, impianti di risalita e di innevamento coatto e quant’altro avanza sul fronte dello sfruttamento aggressivo e smisurato dell’arco alpino. Paradossalmente la variegata molteplicità delle lingue, dei costumi, delle forme di coltivazione e di pascolo, di edificazione, di costruzione dei masi esprime un’unica e vitale civiltà alpina, mentre l’omologazione turistico-industriale-viaria dell’area crea unità solo nella distruzione.
2. L’esperienza dell’arco alpino (ma si potrebbero cogliere molti altri esempi: come magari le isole del Mediterraneo) dimostra l’immensa varietà dei possibili usi ecologici del territorio e dell’ambiente. Il processo millenario di adattamento dell’uomo al suo “habitat” naturale, e di intervento trasformatore su di esso, non ha prodotto valori-standard o indici di impatto ambientale formalizzati e non è approdato alla definizione di norme o “direttive”, ma ha sviluppato ben più complessi criteri ed un senso di misura che si può esprimere in tante e diverse forme di uso. Ecco una dimostrazione convincente di unità nella molteplicità, di relazioni decentrate ma intimamente coordinate, di tante modalità specifiche, di esternare e sviluppare il proprio particolare rapporto con l’ambiente e con gli uomini. Ecco un modo di attraversare la natura e la storia non senza lasciar tracce (quasi fosse un ambiente asettico e da preservare in una fittizia integrità), ma proprio lasciando tracce, da parte di tutti coloro che vi passano, ma tracce misurate, equilibrate, compatibili con quelle degli altri utenti umani o animali o vegetali: riconoscibili, varie, specifiche, ma non distruttive, o basate su interventi di forza. Un passaggio dolce nella natura e nella storia: dolce, e inconfondibile.
3. Una terza questione può essere utilmente posta a partire dal libro di Bätzing, ed è questa: chi sono gli ecologisti più efficaci, e dove esiste – per così dire -un “luogo” favorevole all’affermarsi della ragione ecologica?
C’è infatti una ricorrente tentazione, nella recente scoperta dell’ecologia da parte di tanti politici, tecnocrati, industriali e altri professionisti di management, ed è questa: considerare l’ambientalismo come una nuova branca da amministrare, da affidare agli esperti, da mettere nelle mani di appositi apparati. E così la salvaguardia ambientale diventerebbe un compito per guardie ecologiche, valutatore di impatti ambientali, pianificatori di parchi, legislatori e sindaci. Ma tutto questo sarebbe povera cosa e sostanzialmente inefficace, oltre che forse un po’ artificioso ed astratto, se non ci fosse un pieno e convinto coinvolgimento delle popolazioni interessate. Se oggi in numerose regioni alpine si parla dei contadini come di potenziali “giardinieri del paesaggio” e si ipotizza un’agricoltura interamente sovvenzionata per assicurarsi la continuazione dell’opera di quei contadini a beneficio dell’ambiente, si riconosce qualcosa di vero, ma si dà probabilmente una risposta sbagliata. Si riconosce che i principali garanti della stabilità e dell’equilibrio ecologico possono essere quegli “utenti” dell’ambiente che ne hanno a cuore, anche oltre lo spazio della loro stessa vita biologica, il destino e la salvezza. Ma ci si illude, con ogni probabilità, se si pensa che tale funzione possa essere svolta da un nuovo ceto sociale artificialmente creato per volontà programmatoria, e non più legato intimamente alla simbiosi con i cicli naturali, però sostanzialmente dipendente dal denaro e dal fatto di ricoprire una funzione solo apparentemente agricola, ma in realtà largamente “terziarizzata”. Difficilmente il compito di “giardinieri del paesaggio”, che si vorrebbe affidare ai contadini espropriati del loro rapporto con un’agricoltura vitale, potrà durare oltre la prima generazione di ex-contadini e, al massimo, dei loro figli.
In altre parole: pare arduo immaginare un’ecologia professionalizzata, affidata a dei professionisti e mercenari della tutela ambientale piuttosto che al vivo e giudizioso uso dell’ambiente da parte di chi vi ha un interesse spontaneo e vitale.
Analoga risposta può trovare la domanda sul “luogo” dove si può affermare la ragione ecologica. Oggi, di fronte all’entità della catastrofe ecologica, qualcuno auspicherebbe persine una sorta di illuminata eco-dittatura o comunque una direzione autoritaria e centralizzata (magari in nome della programmazione) dei processi di salvaguardia e di recupero ambientale. Vincoli, divieti, prelievi razionati, accessi rigorosamente regolamentati alla natura e alle sue risorse, direttive, leggi… e quant’altro si può immaginare per arginare con gli strumenti di governo l’erosione quotidiana di abitabilità e di vivibilità del pianeta ne sarebbero l’espressione. Ma tutto questo a poco servirebbe, se gli abitanti dei luoghi si sentissero e si comportassero come dei passanti occasionali o degli utenti casuali dell’ecosistema, e non invece come parte decisiva (almeno in negativo) di una catena che mai come oggi è stata in pericolo di spezzarsi se ogni singolo anello non tiene conto della compatibilità e dell’usura complessiva di essa.
Una forte valorizzazione della dimensione locale può offrire incentivi e ragioni convincenti per salvaguardare, usare con rispetto e parsimonia, e tramandare un patrimonio di ambiente e di cultura, di civiltà materiale e spirituale, che si tutela meglio se si sa da chi proviene e a chi sarà destinato in futuro. L’esperienza dell’arco alpino, così ben analizzata da Werner Bätzing, può offrire ampio spunto di conoscenza e di riflessione a questo proposito e aiutare ad illustrare con la concretezza dei fatti e della storia (naturale e sociale) una tematica che appare destinata ad occupare un posto di rilievo nello sforzo di opporsi alla distruzione che altrimenti sembrerebbe inesorabilmente programmata.
Bolzano, 1 marzo 1987
Premessa dell’autore
di Werner Bätzing
I crescenti guasti apportati alla natura e all’ambiente, la cui portata ha ormai raggiunto un livello critico per la sopravvivenza stessa dell’uomo sul pianeta, hanno messo l’umanità a un bivio: o l’uomo vive della natura, perturbandone sempre più l’ambiente, o con la natura, “in pace” con essa. Nella seconda ipotesi, ci si deve chiedere come possano realizzarsi concretamente le basi per un rapporto di non sfruttamento.
Sono domande che fanno parte a buon diritto delle problematiche più dibattute e controverse del nostro tempo ed è invero sbalorditivo che le soluzioni suggerite siano per lo più rimaste sul piano sterile delle astrazioni. La cosiddetta “pace con la natura” o l'”approccio di non sfruttamento dell’ambiente”, di cui tanto si parla, altro non sono che espressioni vuote di significato.
Il presente studio vuole dare un contributo e affrontare questa problematica secondo una metodologia che potrà forse sembrare inconsueta, prendendo cioè
una ben precisa regione per esaminare nel caso concreto il rapporto uomo-natura. A monte di questa scelta vi è la convinzione che i problemi di fondo non siano affrontati al meglio con un approccio di natura filosofica (come dire, con riflessioni ontologiche sull’uomo e sulla natura), bensì pragmatisticamente,
attraverso lo studio di un caso tipo, nel quale sia sempre presente la dimensione universale e che, nel corso dello studio, cercheremo di enucleare passo per passo. Il generale può venire in luce solamente sulla base del particolare.
La regione alpina – la fascia di transizione dalle campagne coltivate in su – ci è parsa particolarmente adatta a un’analisi concreta come la nostra, in quanto le Alpi costituiscono un ecosistema relativamente labile, nel cui ambito ogni minima variazione e alterazione del rapporto uomo-natura si riflette con immediata chiarezza nel paesaggio. In spazi-limite di questo tipo – un altro esempio che potrebbe offrire ampia materia di riflessione è la zona del Sahel, fascia di transizione con il deserto – l’uomo si trova di fronte a una natura avversa, con la quale deve instaurare un rapporto particolarmente attento e razionale. Nelle Alpi, poi, l’economia e la cultura tradizionali non sono ancora scomparse del tutto e se ne può pertanto studiare il rapporto con la natura e la trasformazione da esse indotta sull’ambiente. Una possibilità, questa, divenuta assai rara in Europa. Si sviluppa così un quadro delle Alpi, che non si limita a collezionare e addizionare fatti, ma che, partendo dalla problematica di base del rapporto uomo-natura, riorganizzi e valuti la gigantesca massa di informazioni e di dati. E poiché ci riferiremo sia alla dimensione storica (senza la quale non si potrebbe comprendere la situazione attuale), sia al territorio alpino nella sua globalità (e non solamente alla regione di un singolo Stato), ecco che abbiamo un quadro nuovo e completo della regione delle Alpi.
Val forse la pena di spiegare perché mai io, berlinese per elezione, abbia scelto di parlare di una regione così lontana. Il fatto è che, con la conclusione degli studi, il trasferimento a Berlino e l’inizio delle settimane lavorative di 40 ore, sentivo il bisogno di vacanze diverse. Una volta tanto, non desideravo nuovi stimoli e impressioni, né volevo prendere le distanze dalla cultura mitteleuropea e, mentre ero ancora a Berlino, andava a poco a poco insinuandosi nella mia mente la visione delle Alpi (che già conoscevo) come luogo di riposo e di concentrazione, lontano dalla frenesia e dagli eccessi della grande città. La prima vacanza mi portò per caso nell’Oetztal (Alpi Retiche austriache), nel cuore di una regione alpina ad alta attività turistica.
Proprio quello che non volevo. Mi misi così a cercare sistematicamente una zona che non fosse stata ancora aperta al turismo di massa e in questa ricerca mi tornò utile aver lavorato un tempo come libraio e il poter disporre di sussidi bibliografici. Così, sulla scorta d’inadeguate carte stradali, di libri fotografici e di guide, m’imbattei in quella regione delle Alpi sud-occidentali che si estende da Torino al Mediterraneo e della quale in Germania si ha spesso la falsa convinzione che, trovandosi così a sud, non siano più delle vere e proprie Alpi.
Mi recai in quei luoghi per la prima volta nel 1977 e me ne entusiasmai: da un lato, la zona non era ancora stata aperta al turismo di massa, dall’altro vi trovai i resti di una specifica cultura alpina, da tempo scomparsa in altre regioni delle Alpi. Ne fui dunque affascinato e cercai di comprendere quanto avveniva sotto i miei occhi: perché i giovani abbandonavano questa regione, anziché sfruttarla? Di dove venivano le innumerevoli rovine, i giganteschi impianti militari, lo strano dialetto? Quale ignota tradizione impregna ancora questi tenitori? E, soprattutto, perché questa cultura va scomparendo? Per avere una risposta, m’immersi nella regione, la percorsi a piedi, aiutai nel loro lavoro le genti del luogo, mi unii alle loro feste, percepii e registrai peculiarità e incomprensioni.
E imparai a vedere e a decifrare le tracce dell’antico rapporto uomo-natura nel paesaggio e compresi meglio il vecchio detto che “l’uomo vede solo ciò che conosce”.
Ed è interessante il modo in cui questa comprensione andò ulteriormente evolvendosi: le impressioni e le esperienze che andavo a poco a poco ricavando da conversazioni con la gente del luogo e da osservazioni e confronti sistematici, in un primo momento mal assimilate e non comprese, andarono a poco a poco integrandosi e organizzandosi. In seguito riuscii anche a trovare della letteratura che mi consentì una comprensione più profonda, ma fu soltanto relativamente tardi che cominciai a estendere all’intero territorio alpino le esperienze e la conoscenza di questa regione.
Un siffatto modo di procedere è oggi del tutto inconsueto: spesso, infatti, si parte da una teoria di cui si cerca la convalida nell’applicazione pratica e per lo più non vi è il tempo perché se ne possa sviluppare con calma un’analisi. E questo è un fatto la cui importanza non verrà mai abbastanza valutata. Dopo la positiva accoglienza che questo libro ha avuto in Germania, Austria e Svizzera, sono ben lieto che ora possa apparire anche in edizione italiana. Se si tiene conto del profondo divario linguistico e culturale esistente fra i paesi di lingua tedesca e l’Italia, non ancora colmato malgrado l’unità europea a cui si aspira, questa versione è tutt’altro che ovvia e sarei felice se questa edizione italiana potesse contribuire ad una maggiore comprensione reciproca dei paesi alpini.
E non è certo un caso che la bilingue Regione Autonoma Alto Adige rappresenti il contatto tra Berlino e Milano: queste regioni alpine bilingui del Centro Europa sono mediatori ideali tra zone europee così diverse, essendo esse in grado di assorbire direttamente nuovi impulsi e di trasmetterli ad altre cerchie culturali. A questo proposito, devo molto ad Alexander Langer, di Bolzano, che mi ha invitato in Alto Adige per tenere delle conferenze e che ha raccomandato la traduzione del mio libro alla Melograno Edizioni. Ai miei occhi, Alexander Langer è una di quelle personalità perfettamente bilingui che, grazie all’eccellente conoscenza di entrambe queste diverse culture, si sforza di porre in atto una collaborazione, senza una perdita di identità di alcuna delle parti. Con una siffatta opera di mediazione, le regioni alpine bilingui acquisiscono oggi una nuova importanza e un futuro a livello europeo, radicati in identità storiche diversamente evolutesi e che, lungi dal logorarsi in una contrapposizione di culture, vengono da questo tramite consolidate. All’elaborazione di quest’ampia materia mi sono stati di grande incitamento i numerosi e approfonditi colloqui e le discussioni con scienziati dagli orientamenti specialistici più diversi. In primo luogo, desidero ringraziare il relatore della mia tesi di laurea, Ludwig Ellenberg, di Berlino, che sin dagli inizi si è adoperato per sostenere e incoraggiare il mio processo metodologico e la mia impostazione tematica. Sono anche molto grato, per i proficui colloqui, a: Marcel Beck, Winterthur, Svizzera (storia); Josef Birkenhauer, Monaco, Germania (geografia); Emil Egli, Zurigo, Svizzera (geografia); Heinz Ellenberg, Goettingen, Germania (biologia, ecologia); Hans Elsasser, Zurigo, Svizzera (pianificazione locale, regionale e nazionale); Franz Fliri, Innsbruck, Austria (geografia); Erwin Fluetsch, Neuheim, Svizzera (geografia); Dieter Freiburghaus, Berna, Svizzera (scienze politiche); Gerhard Furrer, Zurigo, Svizzera (geografia); Erwin Grötzbach, Eichstatt, Germania (geografia); Arnold Niederer, Zurigo, Svizzera (tradizioni popolari).
Le innumerevoli discussioni con Evelyn Hanzig, Berlino (filosofia), sulla filosofia hegeliana sono state meditataci di un approfondimento teorico della pressoché illimitata multiformità della regione alpina e mi hanno dato stimoli e punti di vista sempre nuovi, ed anche di questo desiderio ringraziarla. Ma, soprattutto, sono grato alla gente del Vallone di Neraissa, della quale ho imparato ben più che da tutte le ricerche scientifiche. Ad essa dedico questo libro.
Berlino, ottobre 1986
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Luciano,
magari sarebbe utile smettere di lamentarsi dei vari attori del set politico (uso con volontà precisa questi termini), spostando l’attenzione su ciò che individualmente possiamo fare.
Il grande non è che lo specchio del piccolo, come insegna il Tao.
Non può esistere uno “sviluppo sostenibile”, poiché qualunque sviluppo umano (secondo il capitalismo) prevede degli scarti che non sono assimilabili da nessun ecosistema.
È necessario arrestare ciò che viene chiamato “sviluppo” e propendere per stili di vita più sostenibili per tutti, non solo per il nostro caro pianeta.
I tanti MINISTRI DELL’AMBIENTE, cosa hanno fatto sino ad oggi?
In realtà più che ripeterlo tra noi, sarebbe interessante ascoltare le voci dei Paesi al vertice della natalità mondiale (mentre in Italia siamo al vertice dei Paesi a più basso tasso di natalità (quindi Silvestri tranquillo che nessuno ti farà fuori, almeno per motivazioni demografiche).
Pare che le buone intenzioni ci siano, questo è quanto accade in Niger, Paese in testa a questa classifica:
https://www.google.com/amp/s/amp.today.it/mondo/niger-bambini-fermare-nascite-donne.html
“Riduzione della popolazione? Perfetto. E da dove iniziamo? Dal Silvestri? Dal Crovella?”
Basta che, per cominciare a risolvere il problema della sovrappopolazione, non proponiate la fucilazione del Crovella!
Krovellik ha un piglio risoluto e categorico, oserei dire quasi kantiano, e prende decisioni irrevocabili, ma in fondo in fondo è un buon uomo e non merita di essere soppresso.
Carlo, dico bene? 😉😉😉
La casa editrice Melograno NON È del signor Gogna.
La casa editrice Melograno ERA del signor Gogna e non esiste piú da decenni.
Albertperth, prima di spargere il tuo solito fiele, impara almeno le basi.
La casa editrice del Melograno non è del Sig…….gogna…Supercazzole
Ho già descritto in passato le tecnicalità, del tutto INCRUENTE, della decrescita demografica mondiale. Sono agli atti, invito gli interessati a recuperale, non ho voglia né tempo di occupare ogni volta pagine e pagine del blog per ripetere le stesse cose. Sottolineo solo che scrivo sempre “accompagnare al ribasso la dinamica demografica”, non “tirare a sorte per la fucilazione”.
Se non accettiamo quella prioritaria tipologia di intervento, ogni altra manovra è destinata al fallimento. O quanto meno la non completo successo, cosa che però, data la situazione gravissima cui siamo giunti, corrisponde più o meno al fallimento.
Già negli anni ’70 il Club di Roma avvertiva che non è possibile immaginare uno sviluppi infinito in un sistema finito. Il pianeta Terra è un sistema finito: di fatti spesso si parla di risorse “NON RINNOVABILI”. Ebbe i consumi (di tali risorse come di prodotti finali, per produrre i quali si consumano le risorse) sono funzione di due variabili chiave: il numero di individui-consumatori e il loro stile di vita (più sobrio oppure più “consumista”). Si può, anzi si deve agire anche sulla seconda variabile, entrando tutti nel circolo virtuoso spesso chiamato “descrescita felice”, ma la variabile principale è la prima: il numero di individui. Infatti per quanto possano diminuire i consumi di un singolo individuo (al seguito di una sua decisione di vivere in modo più sobrio e spartano), tale diminuzione individuale non sarà mai tale da compensare la totale assenza di consumi di altri individui che “non esistono”.
Se non entriamo in un mood del genere, possiamo stare fino a domani mattina a ragionare su questa o quella ipotesi operativa, ma saranno solo dei palliativi. Il pianeta sta per scoppiare, non in quanto astro dell’universo, ma come contenitore adeguato alla vita umana. Il pianeta Terra in quanto tale sopravviverà, ma non sopravviverà più la specie umana.
@4: Voglio essere esplicito: non concordo con la posizione di Crovella. Riduzione della popolazione? Perfetto. E da dove iniziamo? Dal Silvestri? Dal Crovella? No? E allora da chi? Che si debba stabilizzare la popolazione umana …. avverrà naturalmente con il miglioramento delle condizioni di vita nel terzo e quarto mondo con il miglioramento dell’istruzione (e nello specifico di quella sessuale) e la disponibilità di mezzi di contraccezione, evidentemente inesistenti laddove la gente neppure ha i mezzi di sussistenza più elementari a causa di condizioni climatiche alterate e debba lasciare i propri paesi d’origine per conflitti di vario tipo ….
Il primo vero nodo è invece l’incredibile disparità di distribuzione delle risorse:
https://it.wikipedia.org/wiki/Distribuzione_della_ricchezza#:~:text=La%20piramide%20mostra%20che%3A,il%2097%25%20della%20ricchezza%20totale.
Il secondo vero nodo è che i Paesi Occidentali che mirano ad uno ‘sviluppo sostenibile’ sui propri territori (andate a vedere su questo stesso blog la critica di Georgescu Roegen a proposito di queste parole …) sfruttano in realtà paesi terzi per produrre i prodotti che servono a ridurre l’impatto ambientale: l’esempio dei moduli fotovoltaici prodotti in Cina dove hanno costi di produzione molto più bassi, che ha portato alla sparizione di ditte produttrici in USA ed in UE è emblematica … ma non la sola!
Ad ogni modo il commento di Langer era circoscritto alle aree alpine: se fosse in vita oggi probabilmente anche lui affronterebbe un quadro globale ….
Saluti.
MS
Il problema fondamentale è l’eccessivo numero di essere umani. E’ un problema complessivo che, oggi, riguarda TUTTO il pianeta, non le sole Alpi. Se non troviamo dei meccanismi incruenti per contingentare la popolazione antropica e presumibilmente ridurla verso i 5 miliardi complessivi (equamente distribuiti sul pianeta, in modo da non avere aree di particolare concentrazione umana), ogni considerazione è viziata all’origine.
Le idee dell’autore del libro e dell’autore della prefazione sono molto illuminate, ma, proprio perché espresse a fine anni ’80 (35 ani fa!) e non recepite da nessuna decisione delle autorità competenti, significa che manca totalmente la volontà politica di realizzare una pianificazione intelligente del problema ambientale. Tale pianificazione, se davvero “intelligente”, non può che partire dall’accompagnamento al ribasso della dinamica demografica. poi seguono le applicazioni specifiche.
Saluti a tutti.
In merito alla chiusa: una copia e’ finita nella mia biblioteca, un’altra nella biblioteca delle aree protette del sud Piemonte. Il vallone di Neraissa citato da Batzing se non sbaglio e’ sopra Vinadio …
In merito al contenuto la posizione dell’Autore e’ che aree alpine modificate dall’uomo (sostanzialmente con sostituzione di aree pascolive o di agricoltura tradizionale alle originarie aree boschive) trovino il loro equilibrio ecologico solo con il mantenimento di una fruizione agricola tradizionale da parte dell’uomo e laddove questa difetti di convenienza economica la societa’ esterna alle aree alpine ne finanzi i maggiori costi …
Alcuni concetti seppure praticamente poco realizzabili sono comunque da sottolineare, ad esempio quando Batzing dice che le aree alpine dei diversi paesi avendo problemi comuni dovrebbero mirare ad uno status politico e amministrativo comune …
Ho girato ad Alessandro alcune pagine molto interessanti su questi concetti …
Saluti a tutti.
Massimo Silvestri
Anche qui nel Tigullio oggi c’è una manifestazione per l’estensione a 7 comuni come Parco Nazionale del Parco di Portofino. Probabilmente saremo sconfitti dagli interessi locali ma tutte queste manifestazioni comunque segnalano che una certa sensibilità c’è e che forse si espande.
Domani ci saranno due manifestazioni contro il turismo e lo sport, l’una a Cortina contro la pista per il bob e l’altra al lago Scaffaiolo (tra l’Emilia e la Toscana) contro la nuova funivia. Analoghe ma distanti tra loro a riprova delle preoccupazioni e dalle difficoltà espresse a suo tempo da Alex Langer: la difesa del paesaggio ha bisogno di in impegno comune tra le popolazioni della montagna senza confini regionali né nazionali.