L’ambiente risponde a domande che gli pone la nostra paura
di Alberto Bianchi
“In principio (…) le tenebre ricoprivano l’abisso …”. Se la Bibbia, sia che sia scritta da mano divina o sotto divina dettatura sia che sia il distillato della coscienza umana, spiega i segreti più remoti dell’uomo, con queste parole, con le quali esordisce, ci racconta di un iniziale brancolare dell’individuo nel buio indissolubilmente associato alla sua paura. Dunque in principio erano l’individuo e la sua paura. Era la paura di tutto quello che gli era esterno e che lo tratteneva dall’esporsi, dall’avventurarsi, dal muovere un singolo passo e dal compiere un singolo gesto; ma che contemporaneamente lo proteggeva da qualsiasi pericolo e gli evitava di rischiare. La paura era un sentimento paralizzante.
Alberto Bianchi su Pichenibule (Verdon, Provenza)
Ma immediatamente dopo fu la luce. Nell’individuo quasi simultaneamente alla paura scoccò la
scintilla del bisogno di vedere e vedere vuole dire scoprire, conoscere e sapere, tant’è che nel greco
antico lo stesso verbo “eidon” significa tanto vedere quanto sapere: ho visto quindi so. Quindi,
nell’individuo c’è anche un sentimento dinamico, che lo spinge a cercare all’esterno di se stesso,
esplorando l’ignoto perché è fuori da sé che l’individuo può trovare i mezzi per la sua sussistenza e
per migliorare la sua esistenza.
Nel giusto dosaggio di questi due impulsi antagonisti, paura e curiosità, risedette da sempre la
ricetta per la gestione del rischio che consentì all’individuo di vivere mediamente sempre meglio o,
quanto meno, sempre più a lungo.
Ma poi c’era anche la collettività degli individui. La collettività al posto della paura pose oggetti
deterrenti sicché a presidio dei luoghi nei quali voleva sconsigliare l’individuo dall’avventurarsi,
pose mostri formidabili, tabù e residenze divine. Né divieti né limiti alla mobilità e, più in generale,
all’agire dell’individuo furono posti dalla società primordiale e questo bastò all’umanità per
conservare se stessa ed anche per progredire e migliorarsi.
Oggi, i dosaggi della paura e dell’audacia dell’individuo e l’interferenza della società nella libertà
individuale in materia di sicurezza, che altro non è che il complemento del rischio, sono
profondamente diversi, il che significa che nel tempo c’è stato un cambiamento; ma in più, oggi,
sembrano abbastanza percettibili sia la velocità sia una precisa direzione di questo cambiamento.
All’origine dei comportamenti sia dell’individuo sia della società sembra esserci un unico comune
movente: l’istinto di conservazione, dell’individuo per l’uno e della specie per l’altra. A tal fine
l’individuo e la società mettono in atto comportamenti, diversi ma assimilabili, che sono il frutto di
un compromesso, a livello personale, tra paura e curiosità o tra incolumità e ricerca e, a livello
sociale, tra salute pubblica e benessere e progresso collettivo.
Mentre gli stimoli e i freni inibitori dell’individuo nei confronti del pericolo non sono cambiati nel
tempo, la società, col progredire della conoscenza, abbandona la sfera del magico formidabile, del
tabù, o del divino inaccessibile e mette in campo altri strumenti per la conservazione della specie,
alla quale sono funzionali da un lato l’espansione del tasso di natalità e dall’altro la riduzione di
quello di mortalità, nel rispetto obbligato dei vincoli posti dalle risorse limitate. A tal fine la società,
pur con evidentissime differenze territoriali, culturali e temporali, si è adoperata principalmente in
due direzioni mediante l’emanazione di norme tese a rendere meno pericolosi gli ambienti esterni
all’individuo e l’imposizione di divieti alla frequentazione di quelli la cui pericolosità non riesce ad
essere addomesticata entro valori per lei accettabili.
In questo quadro generale del rapporto pericoloso tra individuo e società da una parte ed ambienti
esterni dall’altra, l’ambiente esterno che interessa l’alpinista è un ambiente prettamente geografico e
fisico: l’alpinista è il frequentatore temporaneo di una particolare porzione del territorio montano,
quella in genere caratterizzata da quote più elevate, temperature più basse, ghiacciai e rocce e neve
e in ogni caso da terreno impervio e certamente non idoneo ad alcuna forma di insediamento umano
permanente.
Per queste sue caratteristiche il territorio alpinistico ha un tasso di pericolosità per l’incolumità
individuale più elevato di quello di molti altri ambienti, non solo geografici e fisici. Quindi ed
estremizzando, nei riguardi della natalità e della mortalità, la società è impegnata, per quanto
riguarda l’alpinismo, al contenimento della seconda. Più in generale, la società è interessata al
contenimento di tutti gli incidenti in montagna anche non mortali, anche i più banali, che, in ogni
caso, si traducono nella necessità di mettere in campo da parte sua gli opportuni anticorpi a difesa
della vita per la conservazione della specie.
Per quanto concerne la libertà nella pratica dell’alpinismo, il dosaggio delle diverse componenti
individuali e sociali nel rapporto col pericolo è evoluto con una progressiva espansione
dell’influenza della società a scapito dell’autodeterminazione e della responsabilità individuali.
La società è intenta a offrire all’individuo ambienti (di lavoro, di svago, di studio, alimentare,
culturale, ecc.) sempre più sicuri e a cingere col recinto del divieto o di altre barriere meno
direttamente evidenti gli ambienti pericolosi (il bere, il fumo, le droghe in genere, il gioco
d’azzardo, ecc.).
Questo meccanismo di messa in sicurezza e di divieti porta però a un ottundimento del prezioso
sentimento della paura e a una crescente deresposabilizzazione dell’individuo nella scelta delle
attività che si appresta ad affrontare e dei territori, in particolare, in cui intende avventurarsi e dei
modi e dei mezzi con cui affrontarli o avventurarvisi. Come estrema conseguenza, nell’individuo
arriva a maturare la presunzione del diritto alla sicurezza e quindi del diritto al soccorso in qualsiasi
circostanza e situazione e, più o meno cosciente, la convinzione che tutto ciò che non è
espressamente vietato è sicuro, in particolare che se l’accesso a una parete di roccia o a un pendio
innevato non è vietato, quella roccia e quella neve sono privi di pericoli per lui.
In montagna, la disponibilità di corde sempre più resistenti e di ancoraggi sempre più affidabili ha
cancellato la pudica paura di “volare”, l’adozione del casco quella di battere la testa o di essere
colpiti da un sasso cadente, il telefono satellitare, quello cellulare, il GPS, internet e l’elicottero
hanno fatto sbiadire la paura dell’isolamento e la sensibilità all’incertezza meteorologica.
Giustamente; ma se tutto funziona e dando per scontato il diritto, per legge o per dovere morale, al
soccorso!
La pretesa che tutto sia sicuro perché ciò che è pericoloso è vietato è tanto profondamente radicata,
penetrante e diffusa nella società italiana, che la collettività al verificarsi di un incidente o di un
disastro, anche cosiddetto naturale, non cerca di individuare un eventuale vittima di un errore o di
un imprevisto, ma, attraverso una magistratura particolarmente solerte promotrice di questa
mentalità, scatena immediatamente una caccia al colpevole di un reato.
Il legislatore si sente invece investito del dovere di bandire l’attività rivelatasi funesta e di vietare
l’accesso ad un territorio ove si è verificato l’incidente o nella, migliore delle ipotesi, di
regolamentarli.
Esiste il pericolo che la pur legittima aspirazione della società di tutelare la salute pubblica, anche
con l’imposizione di regole e divieti, degeneri nella tentazione di inseguire la sirena della sicurezza
totale con la doppia negativa conseguenza di mortificare il benefico sentimento di paura
dell’individuo, propedeutico allo sviluppo di virtù personali come l’attenzione e la prudenza, e
paralizzarne lo slancio innovativo e l’anelito di scoperta ed espansione dei propri limiti insostituibili
motori del progresso umano.
La giusta quantità individuale di libertà di rischiare, in montagna come in ogni altra situazione,
dovrebbe essere frutto di corretti dosaggi di paura e curiosità, di responsabilità personale e norme e
divieti e soprattutto basarsi sulla coscienza individuale e collettiva che la sicurezza totale non può e
non deve essere propria della vita umana ovvero che il rischio nullo non esiste, non solo nella
pratica dell’alpinismo, ma anche in nessuna altra attività.
Quest’ultima asserzione si presenta come postulato e perciò è criticabile e anche rigettabile come
ogni verità apodittica, ma la sua forza è evidente. Ne discende che frasi come “dobbiamo fare sì che
incidenti come questo non si verifichino mai più” pronunciate da politici e legislatori all’indomani
di ogni incidente sia pur grave sul lavoro, o “sciagure come questa non si verifichino mai più”
pronunciate dagli stessi e da altri all’indomani del recente disastro di Lampedusa, ma anche in
occasioni di incidenti in montagna particolarmente luttuosi, sono aberranti per chi ammette che la
nostra conoscenza è limitata e sa che questi incidenti, forse con frequenza minore ed anche sempre
più bassa, potranno ripetersi.
Dal postulato discende anche che è scorretto affermare semplicemente che l’alpinismo è pericoloso,
o meglio sarebbe dire, rischioso. Semmai si potrà dire che è un’attività più rischiosa di altre.
Possiamo concordare sul fatto che sia meno pericoloso camminare su un marciapiede cittadino che
su un sentiero dal fondo irregolare o peggio arrampicare su una parete di roccia degradata, ma
nessuna delle tre progressioni è totalmente esente dal pericolo di inciampo e di caduta.
Diverso ancora è il rischio, correttamente inteso come prodotto della pericolosità per il danno, che
addirittura potrebbe vedere un’inversione della precedente graduatoria, se cadendo sul marciapiede
ci si procura un trauma e “volando” in parete si rimane semplicemente appesi alla corda di
sicurezza.
Sull’onda della corsa all’inseguimento della sicurezza, la giurisprudenza impone all’organizzatore
di corsi di alpinismo di informare preventivamente gli allievi dei pericoli della montagna e dei
rischi dell’alpinismo e di ottenerne un’attestazione di consenso informato alla partecipazione.
Questa procedura persevera sulla strada di indurre l’individuo a pensare che ci sia sempre un altro
che deve pensare a metterlo in guardia e che sia responsabile al suo posto di ciò che può accadergli
ed inoltre cozza contro l’impossibilità di compilare un elenco completo ed una descrizione
esauriente di tutti i pericoli ed i rischi.
Piuttosto, quindi, che cercare di elencare e descrivere i pericoli della montagna ed i rischi
dell’alpinismo, bisogna risuscitare negli allievi il senso della paura, che induce all’attenzione, alla
cautela ed alla prudenza.
Un ulteriore contributo alla distorsione della percezione del rischio risiede nell’esagerata fiducia
nella scienza e nella tecnica che degenerano rispettivamente in presunzione di onniscienza e di
infallibilità. Una corretta assunzione di responsabilità deve avere, invece, il supporto della
consapevolezza dell’esistenza dell’imprevisto e dell’errore o del difetto.
L’accresciuta affidabilità delle corde di arrampicata e dei dispositivi di protezione e delle tecniche
di assicurazione ed autoassicurazione in genere ha eliminato negli arrampicatori delle più recenti
generazioni la paura di “volare” che caratterizzò gli esponenti delle precedenti generazioni in
maniera tanto più marcata quanto più si risale nel tempo. Questo fatto è certamente un fatto
positivo, in quanto fattore di progresso, perché autorizza l’individuo ad osare passaggi sempre più
difficili spingendo il limite della prestazione umana sempre più in alto; ma è anche dimostrazione
della scomparsa di una delle paure che più inducevano gli alpinisti a muoversi, invece, con grande
cautela.
Per chi pratica lo scialpinismo, invece, l’aumento delle capacità di valutazione del pericolo di
distacco di valanghe e di diffusione della relativa informazione, la sostituzione di vecchi strumenti e
metodi di localizzazione dei travolti, come il cordino da valanga, con i più recenti e sofisticati
ARTVA il cui potenziamento e perfezionamento non accenna a rallentare, l’adozione di pala e
sonda e di altri piccoli accorgimenti nella tecnica di progressione, l’invenzione di dispositivi
antisoffocamento ed antiseppellimento hanno consentito, a costo di un appesantimento delle
procedure e dell’equipaggiamento, di ridurre il rischio legato a tale fenomeno; ma non devono fare
dimenticare allo scialpinista la necessità di relazione stretta e costante con l’ambiente in cui si
muove.
Se per il pericolo di distacco di valanghe la possibilità che l’attenzione per l’ambiente sia soffocata
dal fardello della tecnica è particolarmente evidente, tale possibilità esiste anche per le altre
discipline alpinistiche e se da un lato ci si è liberati da non molto tempo dell’illusione di potere
rendere la montagna sicura, dall’altra è fondamentale ricordarsi della necessità e del valore di
cercare di stabilire e mantenere per tutto il tempo che si opera in montagna un filo diretto con
l’ambiente in cui si sta agendo ed un flusso continuo di informazioni dall’ambiente con cui si
interagisce in risposta alle domande che gli pone la nostra paura.
Prima, (ma quanto prima? O prima di che cosa?) l’uomo viveva affrancato da ogni pericolo nel
“Paradiso terrestre” (ma dov’era il “Paradiso terrestre”?) e quindi senza bisogno di paura e di
coraggio e con un solo divieto sociale: quello di mangiare del frutto della conoscenza. Ma questa
era tutta un’altra storia.
Milano, 18/2/2014.
Alberto Bianchi
Nato a Milano il 3 febbraio 1949, ingegnere, professore al Politecnico di Milano, guida alpina dal 1986, organizza e conduce gruppi di alpinisti e sci-alpinisti in Asia, Nord and Sud America. Ha salito il Muztagata, il Kun, il Carstenz, il McKinley, l’Illimani, l’Aconcagua e molte altre montagne in ogni parte del mondo. Ha partecipato a diverse spedizioni himalayane tra cui l’Everest. È stato per diversi anni, dopo Alberto Re, presidente del Collegio Nazionale delle Guide Alpine.
postato il 25 febbraio 2014
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