Il mondo lo ha quasi dimenticato, come tante altre catastrofi naturali che colpiscono paesi poveri e lontani da noi: il terribile terremoto del Nepal. Il 25 aprile 2015 un sisma di grado 7.8 della scala Richter ha devastato il paese himalayano, causando oltre 8.000 morti e gravi distruzioni di abitazioni e infrastrutture. Una spedizione di torrentisti italiani, appartenenti al Corpo Nazionale del Soccorso Alpino e Speleologico, si trovava a Langtang, villaggio a 3430 metri di quota nel nord del paese. Qua il terremoto ha provocato un’immane valanga che ha raso al suolo l’intero abitato. Al cataclisma sono sopravvissute una ventina delle circa 400 persone (fra locali e stranieri) presenti sul posto.
Dei nostri quattro connazionali sono sopravvissuti Giuseppe Antonini e Nanni Pizzorni, socio della sottosezione di Sori; purtroppo deceduti Gigliola Mancinelli e Oskar Piazza.
La Redazione della Rivista della Sezione Ligure del CAI
Il Langtang Lirung 7227 m
Langtang (Nepal), 25 aprile 2015
di Giuseppe Antonini
(pubblicato sulla Rivista della Sezione Ligure del CAI, 1-2016, per gentile concessione)
Madre e Figlia
Siamo in treno e Gigliola incrocia le dita mentre finisce le ultime telefonate, per una conferma che tutto funzionerà come ha disposto con i suoi incastri prodigiosi. Poi spegne il telefono. Ora è, finalmente, in spedizione. Nanni ci attende in stazione, a Milano, ed è sereno alla vigilia di questa impresa, da condividere con pochi amici. Lo scorso anno non eravamo riusciti a convincerlo, ma stavolta siamo stati molto più persuasivi. Infine, voliamo a Kathmandu. Oskar è lì da qualche giorno e ci accoglie con la sua bella divisa nera da alpinista, impeccabile come sempre. A vederlo sembra un alto ufficiale e, in effetti, gli spettano i gradi più alti, guadagnati in ‘prima linea’.
Il mattino seguente alle 7 siamo già nel bus verso Syabrubesi. Ci aspettano 8 ore a dondolo fra le curve e poi due giorni di marcia tra il rosso e il rosa dei grandi rododendri fioriti. A Langtang ci accoglie Pasan Dindu, cuoco, guida locale e amico, proprietario del lodge nel quale vivremo per i prossimi giorni.
Il nostro obiettivo è la prima discesa di una splendida forra, il cui nome è “Figlia”. E questa ha anche una “Madre”, un solco vertiginoso nella grande parete che sembra precipitare su Langtang. L’avevamo esplorata nella spedizione di maggio 2014. Ma, dopo di questa, non era rimasto tempo per carezzare anche la Figlia. E così tornammo a novembre, invano: era percorsa da cascate che non davano margini di sopravvivenza. Sapevamo che saremmo dovuti tornare solo per lei. Nel momento in cui rinunciammo a scenderla, scegliemmo inconsapevolmente la strada che ci stava portando diretti all’appuntamento con il destino.
Foto: Guy Zakh
Nei giorni successivi al nostro arrivo saliamo a installare le corde fisse per consentire un accesso più sicuro e il trasporto dell’equipaggiamento all’attacco della forra. Giglio e Nanni si ‘acclimatano’ ulteriormente salendo al monastero di Kyangjin Gompa, alla testata della valle. Un giorno io e Oskar scendiamo lo spigolo che delimita il lato sinistro della Figlia, mettendo gli occhi in quel profondo baratro, per capire quali difficoltà incontreremo durante la discesa. Scendiamo in forra in un paio di punti a installare corde fisse per una fuga in caso di problemi insormontabili. Bisogna ricordare che, una volta dentro, non c’è altra via d’uscita che la fine del canyon. Queste precauzioni sono necessarie: saremo tutti e quattro in forra e, in caso di necessità, nessuno verrà a tirarci fuori da quelle cascate, incassate nel solco della profonda gola.
Venditrice di rape, Langtang Valley. Foto: K3PhotoAgency
Passiamo le serate nel lodge, ci si raccoglie attorno a una piccola stufa che brucia legna e stereo secco di yak. Non sembra, ma la cucina tibetana di Pasan e della moglie riescono anche ad alleggerire i pensieri, orientati da qualche giorno alla discesa di quelle cascate. Dopo cena, sempre attorno al fuoco, si apre il libro dei racconti. Storie divertenti, drammatiche… tragiche. I racconti durano fin quando nella stufa c’è legna, merce rara qui, razionata. Il dopo sono letture, ognuno le sue, o un film da vedere insieme, con Giglio.
Per il 24 aprile è deciso che riposeremo. Ce lo dobbiamo imporre, in vista della lunga giornata di domani. Il tempo dovremo dedicarlo alla lettura, a bere tè e mangiare. La sera ci raccogliamo di nuovo attorno alla stufa a confermare i piani per l’indomani, a ‘sentirci’, a rilassarci e a pensare a quando saremo di nuovo qui, consapevoli di aver fatto una grande discesa.
La nube grigia
25 aprile: stamane non c’è il solito raggio di sole a illuminare la porta, il segnale che partiremo. C’è nebbia sopra i 3600 metri. E così continuo a gustarmi il tepore della piuma ancora per un’ora. Verso le 6 busso da Oskar e, come immaginavo, rinunciamo all’idea di andare: con quella nebbia patiremmo troppo il freddo. Poi vado a dare il buon giorno a Giglio. Quando si sveglia intuisce che oggi non si farà nulla. Le domando se ha dormito bene. Indugia un po’ a rispondermi… poi, con sguardo adombrato, dice “Ho sognato Mamma” (sua madre era scomparsa lo scorso anno). “Cosa ti ha detto?” e Lei: “Cose brutte, ma ora non voglio parlarne…”.
Tessitrice, Langtang. Foto: K3PhotoAgency
Anziano a Langtang. Foto: K3PhotoAgency
Una casa di Langtang (1975). Foto: K3PhotoAgency
Gigliola Giglio Mancinelli
E così, scendiamo di sotto a fare colazione, la stufa è già accesa e la figlia di Pasan continua a mettere legna. Verso le 10.30 esco dal lodge con il satellitare in mano; devo comunicare a Paola, in Italia, il cambio di programma, informandola che tutto è rinviato al giorno dopo. Ci diamo appuntamento telefonico per il 26 sera o, al più tardi, il 27 mattina. Poi chiudo e salgo in stanza con Giglio e cerco un film sul computer. Proprio sui titoli iniziali del film, accade qualcosa. La terra inizia a tremare in un crescendo che atterrisce. Anche Giglio si alza dal letto e stiamo vicini. Sono abituato al terremoto, vivendo in un’area sismica dove già dall’infanzia si impara a convivere con questo mostro orrendo. Negli istanti che seguono cresce d’intensità e la struttura della casa ondeggia, sembra quasi che si stia per disarticolare… passano i secondi e mi rendo conto che, se continua così, a breve crollerà tutto. Pensando al peggio, osservo il tetto sopra di noi, è molto leggero e, forse, nel crollo potremmo anche sopravvivere… altri secondi interminabili, poi l’intensità diminuisce, lasciando la speranza che forse finirà qui. Ma non è così… aumenta in modo esponenziale e stavolta, ne sono certo, sprofonderemo tra le macerie; infatti pochi istanti più tardi crollano i muri esterni, lasciandoci praticamente all’aperto. Inspiegabilmente il tetto e il solaio reggono ancora. Le implorazioni fanno sì che la terra finisca di tremare. In quel momento grido agli altri di sotto chiedendo se sono salvi. Mi risponde Nanni, rassicurandomi che sono tutti vivi, ma di fare attenzione perché la tenuta del lodge è appesa a un filo. In un istante mi allontano da Giglio per controllare se la scala per scendere esiste ancora… e quella c’è. Ma avverto un rumore sordo e cupo che ne nasconde un altro, più sinistro ancora. So già che cos’è, perché il rumore non lascia dubbi. Dalla parete vedo precipitare la massa solida di una ciclopica valanga. Spero che la distanza, circa 1 km, sia sufficiente a impedire al mostro di raggiungerci e infatti, nei secondi che seguono, la massa solida si abbatte sul fondo della parete, proseguendo nell’alveo della valle, rilanciando la speranza che tutto andrà per il meglio. Ma rimane un sibilo di sottofondo, qualcosa che avanza ancora nascosto tra le nebbie. So che l’immensa seraccata che incombe su Langtang è franata su un fronte immenso, tra i 6000 e i 7000 metri di quota, e sta per raggiungerci sotto forma di una valanga nubiforme. Tra pochi istanti quella roba uscirà dalla nebbia. La mia sola speranza è che la distanza che ci separa sia sufficiente ad attenuarne la forza. Ma non è così… questa immensa nube grigia, alta forse qualche centinaio di metri, avanza senza esitare verso di noi sempre più rapida (400 km/h), a ondate successive. Moriremo, lo so, rinunciando a ogni speranza. Ma Giglio, che forse non ne è pienamente consapevole, mi domanda: “Cosa facciamo?”. Per la prima volta, non trovo una risposta dentro di me, e le dico solo: “Vieni qui con me”. Non so se abbia realizzato che non ci sarebbe stata più vita, che non avremmo più potuto rivedere figli, amici, madri e fratelli. So solo che vedevo la nube avanzare e, come un condannato a morte chiede di poter esser bendato, mi sono portato dietro la sottile parete divisoria della stanza, per non vedere in faccia la fine. Giglio mi stava raggiungendo lì, per morire insieme. Poi… più nulla.
Oskar Piazza
Modalità sopravvivenza
Il primo contatto con la realtà è il rumore di un vento dalla forza immane, apro gli occhi solo per vedere la neve nebulizzata che non mi consente di capire nulla, né di orientarmi. Non so neppure cosa stia succedendo attorno a me, ma sento che molte pietre mi colpiscono. Non avverto alcun dolore, e penso solo che probabilmente tra poco arriverà la frazione solida della valanga, ricoprendomi totalmente. In quell’istante ho sperato di morire subito, per non subire l’agonia del soffocamento. Non saprei dire quanto è durato il vento, so solo che per aria volavano grandi pietre e ogni pezzo di Langtang. E, mentre mi chiedevo cosa ci sarebbe stato dopo la vita, quel soffio improvvisamente è cessato, lasciando solo un silenzio immane. Ci sono voluti alcuni istanti per collegare la mente al corpo e, la prima cosa che ho gridato è stata “Giglio”. L’ho chiamata… ma non rispondeva. Poi ho pensato che fosse sotto le macerie e che quindi dovevo fare in fretta. Ma non mi ero ancora reso conto di essere sepolto dai detriti: fuori, oltre alla testa, mi rimaneva solo un braccio. Il resto era sotto i rottami della casa. Ho preso a scavare e, nel frattempo, sentivo Nanni che mi chiamava, ma non potevo vederlo, essendo intrappolato e senza possibilità di voltarmi. Pietra dopo pietra sono riuscito a tirarmi fuori con il busto e a guardarmi attorno, chiamando Giglio, invano. Cercando con gli occhi, infine, lo sguardo s’imbatte in un qualcosa di blu. Giglio indossava proprio una maglia di quel colore, ma il sangue che mi cola sugli occhi non mi permette di mettere a fuoco nulla. Penso di aver impiegato una ventina di minuti a liberarmi dalle macerie. Con estremo stupore mi rendo conto di poter camminare.
Nanni Pizzorni
Mi precipito verso quel blu, lontano una decina di metri, la trovo piegata con il busto in avanti… la chiamo, le sollevo il busto, spero che sia solo ferita. Poi, la osservo bene, le apro gli occhi, le ascolto il polso. Ma Giglio non può sentire le mie mani… non più. L’anima non può essere toccata. In quel momento non piango, non riesco a farlo. La mia mente non vuole accettare la realtà, ma il mondo si fa buio. La vita mi ha dato tanto, ma in quell’istante mi ha tolto di più. Rimango ad accarezzarla, incredulo e svuotato.
Poi i richiami di Nanni mi riportano a quello che devo fare. Cammino scalzo verso di lui e solo allora posso avere un’immagine complessiva della devastazione. Nulla esiste più intorno a noi. Tutto è grigio, la nebbia è sempre più bassa e pochi centimetri di neve sporca sono la coperta che la morte ha disteso sul villaggio. La seraccata è caduta da 3 km più in alto, ha attraversato il fiume ed è risalita sul versante opposto per più di mille metri di dislivello, penetrando a monte e a valle per almeno 1 km. Non c’è più nulla. Le uniche cose vive che vedo attorno a me sono Nanni, che si lamenta, dolorante all’addome, e Pasan che ha un braccio rotto e piange per sua moglie, schiacciata dalle macerie. Ma… Oskar, dov’è? Chiedo a Nanni, che me lo indica, appena visibile tra i detriti; lo vedo di spalle, mi avvicino e lo trovo seduto dentro una specie di buca tra le macerie, dalle quali Pasan lo ha liberato. Ora è davanti a me, ha il volto gonfio, ma il resto sembra a posto. Non so che cosa abbia veramente, ma è disorientato e, sebbene mi capisca, non riesce a rispondere alle mie domande. Temo che abbia un trauma cranico o… peggio. Ma spero di sbagliarmi e voglio pensare in positivo. Gli dico “Oskar, non ti preoccupare, ora troveremo un riparo e poi arriveranno i soccorsi”. In realtà, in quel momento non ci credevo, perché già la mente razionalizzava sul fatto che quel disastro era di proporzioni immani e noi, dispersi in un villaggio tra le montagne, saremmo stati gli ultimi degli ultimi. Così, già mi proiettavo in un futuro a breve fatto di fame e di attesa… giorni, forse una settimana; senza contare Oskar e Nanni, sul cui futuro non avrei potuto scommettere. Ero smarrito, forse sarei rimasto solo. Ma dovevo reagire e pensare ai vivi, ero l’unico in piedi e dovevo pensare a loro.
Langtang non c’è più. Foto: Guy Zakh. Foto: Reuters
Così mi allontano in cerca di un riparo e, soprattutto, di indumenti, scarpe, cibo. Eravamo con due maglie addosso e… null’altro. La neve polverizzata nella nube aveva intriso completamente gli indumenti ed eravamo fradici. Nonostante l’adrenalina scorresse a fiumi, il freddo cominciava a farsi vivo, soprattutto ai piedi, scalzi nella neve. Rovistando tra le macerie passo davanti a corpi semisepolti e straziati di gente che, fino a poco prima, ci salutava con un sorriso; in qualche caso non riesco neppure a capire se si tratti del corpo di una persona o di un animale. Faccio fatica a crederlo, ma la mia mente è già entrata in modalità ‘sopravvivenza’ e, pertanto, non considera più ciò che è privo di vita. Compassione, pietà, non c’è posto per questi sentimenti. Solo ‘azione’ funziona bene. Infine, entro nella porta scardinata di un ripostiglio, ormai senza tetto, dove vedo alcuni bidoni blu da spedizione. Trovo così un paio di scarponi, dei grandi teli in plastica e coperte. Non so a chi devo questo, se a Dio o agli dei, ma quella roba era lì per noi, per farci vivere. Esco e copro immediatamente Oskar e Nanni, ai quali chiedo solo di attendere per il tempo che servirà a cercare una dimora per i giorni a seguire. E così mi allontano, camminando solo su macerie e, più in là, neppure quelle… la nube ha fatto il suo lavoro in modo perfetto: là dove c’erano case, sembra che ci siano stati da sempre solo pascoli; neppure le macerie sono rimaste. Mentre vago desolato alla ricerca di un riparo e non so che altro, in lontananza intravvedo due sagome nella nebbia. Grido loro di avvicinarsi. Mi si presenta Florent, un francese con il suo portatore. È in lacrime, ha appena ritrovato il corpo straziato della sua ragazza: era solo pochi metri dietro di lui, ma lei è stata spazzata dalla nube. Lo scuoto e gli dico che questo non è il momento di lasciarsi andare, ma di rimanere in piedi, e così gli dico di farsi forza, poiché anche a me è toccata la stessa sorte, e ora bisogna reagire. Gli chiedo di unirsi a me per aiutare i sopravvissuti.
L’unica casa di Langtang a essere rimasta in piedi (a metà)
Così torniamo da Oskar e Nanni e, mentre provo a cercare altro per coprirci, chiedo a Florent di recarsi presso l’unica casa rimasta in piedi a metà. Paradossalmente è la casa più vicina alla traiettoria seguita dalla nube ma, essendo addossata a una parete, è stata letteralmente scavalcata. Più tardi torna dicendomi che quel che rimane della casa dopo il sisma è in buone condizioni. Ma è troppo lontana, almeno 400 metri, Oskar e Nanni non sono in grado di camminare. E noi non abbiamo le forze per trascinarli fin là. Trovo una stalla, bassa, ancora in piedi, ma semi sepolta dalle macerie. Si trova a poche decine di metri ed è davvero l’unico posto riparato: ha una base di sterco asciutto, isolante, e inoltre c’è molta legna secca. Ma la neve della nube si sta già sciogliendo sul tetto e filtra tra le assi, creando uno stillicidio intenso che rischia di infradiciare tutto e di trasformarlo in pantano. Devo fare in fretta e così, cercando ancora come un disperato, trovo dei tappeti, che stendo nella stalla, poi porto i teli e le coperte. Infine, il momento più difficile: dobbiamo portare qui Nanni e Oskar. Nanni si lascia trasportare nella stalla. Lo copro per bene con i teli e le coperte, Pasan lo veglierà per tutta la notte. Poi, è il momento di Oskar. Mi avvicino e gli dico “Oskar, ora ti porteremo in un riparo sicuro, devi solo lasciarti aiutare a raggiungerlo… è qui vicino”. Lui mi osserva smarrito e, anche se intende quello che dico, mi risponde in modo incomprensibile. Ma non c’è tempo per pensare, lo afferriamo e, nonostante i lamenti, lo portiamo nella stalla, dove rimane in posizione semi seduta. Lo copro con quello che rimane del mio saccoletto, strappato alle macerie, e con i teli di plastica. Nel frattempo ci raggiunge una donna anziana che si aggrega al gruppo e alla quale chiedo, tramite Pasan, di accendere un fuoco e di mantenerlo per tutta la notte. Ma ora è il momento di separarci. La stalla è infatti molto sicura nel caso di un altro sisma, ma non nel caso di caduta di un’altra seraccata. Ma è comunque un bunker, essendo protetta su ogni lato da detriti. In ogni caso sarebbe impossibile trasferire Oskar e Nanni nella casa della parete, confortevole ma poco sicura in caso di altri eventi sismici, essendo per metà crollata. E, lì dentro, in caso di terremoto, bisognerebbe uscire in fretta e con le proprie gambe per evitare la sepoltura tra le macerie. Così io, Florent e la figlia di Pasan, di appena 9 anni, ci incamminiamo verso la casa.
Il bivacco di fortuna nell’ospedale in costruzione
Comincia a far freddo e, per prima cosa, bisogna accendere un fuoco. Così inizio a cercare legna… che non trovo. Non mi rimane che saccheggiare i mobili, seppure di legno intarsiato. E così il fuoco è acceso. Poi cerco ancora nella casa e trovo indumenti, con i quali mi copro, sapendo che passerà del tempo prima di scendere a valle. Mi intravvedo un istante specchiandomi nel vetro di un mobile… sono orribile: non c’è un centimetro del mio volto che non sia coperto da sangue rappreso e mi spavento a guardarmi. Ho l’occasione per fermarmi un po’ a capire in che condizioni mi trovo. E così toccandomi la testa capisco di esser pieno di ematomi e tagli profondi. Non mi rimane che avvolgere una maglia sulla testa in modo da evitare altri sanguinamenti. Mentre ci asciughiamo al fuoco, si affacciano alla porta una ventina di superstiti, gli unici di Langtang, gente impegnata lontano, nei campi, o in posizioni riparate. Sono tutti anziani, salvo cinque bambini, ormai orfani. Ma noto subito in loro un atteggiamento sospettoso, che sfocia ben presto in aperta ostilità non appena vedono bruciare nel fuoco quei mobili che avevo rotto. Tentano addirittura di sbatterci fuori dalla casa; ma, per fortuna, dopo aver chiarito che dovevamo asciugarci per sopravvivere, ci tengono tra loro. Durante la notte mi offrono tè e una tazza di riso. Devo mangiare e bere, altrimenti non reggerò a lungo. Ogni tanto qualche scossa di terremoto ci desta da un dormiveglia fatto di immagini, quella di Giglio che se n’è andata, sempre nei miei pensieri. E spero davvero di svegliarmi da un momento all’altro per poter raccontare di questo incubo, così incredibilmente vero. Ma so bene che non ci sarà risveglio, e che questa sofferenza dovrò viverla per il resto dell’esistenza.
Il bivacco di fortuna nell’ospedale in costruzione
26 aprile
Viene l’alba e c’è nebbia. Non appena si dirada, mi incammino zoppicante verso la stalla, pensando a cosa troverò. Me lo sono domandato spesso nella notte. Nanni aveva problemi all’addome e non è possibile escludere che fosse un’emorragia interna, un lento stillicidio fatale; mentre Oskar aveva un trauma cranico certo e, forse una frattura della base cranica. Spero che almeno uno dei due sia ancora vivo. Almeno uno. E quando l’ultimo passo mi porta nella stalla, non ho quasi il coraggio di rompere quel silenzio. Ma trovo la forza di farlo… e mi risponde Nanni. Sono sollevato. Poi chiedo di Oskar. “È morto stanotte, ha rallentato il respiro e poi se n’è andato”. Nanni piange. E vorrei liberarmi anch’io del macigno che pesa sulla mia anima, ma non riesco a farlo. Lo rassicuro, informandolo che c’è un punto di raccolta sulla collina, proprio dov’è stato completato in pochi mesi un piccolo ospedale. Tutti gli escursionisti della valle stanno scendendo verso Langtang, convinti di trovarvi rifugio; ma, quando si affacciano dall’alto, non si azzardano neppure a scendere: sono terrorizzati dalla visione spettrale del luogo. Nel frattempo la nebbia si alza e, poco dopo, avverto il rumore di un elicottero lontano che sale la valle: forse non ci hanno abbandonato. Poco dopo sbarca un gruppo di militari e penso che ce ne andremo tutti, per questo, mi affretto a costruire una barella di fortuna con due travi e una corda, che a fatica ho strappato dalle macerie; ma sono senza forze, e ogni nodo per gli incroci di corda richiede almeno un paio di minuti. Poco più tardi scende un militare, al quale richiedo aiuto. Mezz’ora dopo un gruppo di nepalesi sistema Nanni su una lettiga militare, molto meglio della mia barella di fortuna, e inizia il trasporto verso l’ospedale… comincio a intravvedere una spiraglio.
Foto: Guy Zakh
Ma prima di salire mi affaccio nella stalla, dove Oskar giace avvolto dal telo. Poi, torno da Giglio. È sempre lì, non ho le forze per liberarla dalle macerie: un trave sembra trattenerla per la gamba e non so come fare… non c’è nessuno che possa darmi una mano. La abbraccio, piango, la bacio. Poi la copro per non lasciarla esposta allo scempio degli avvoltoi che volano alti.
Raggiungo a fatica la collina dell’ospedale. Ci saranno circa 120 persone, in prevalenza europei. Nanni viene trasferito dalla lettiga a una porta, quella dell’ospedale, che sarà il suo letto, quindi viene sistemato tra le mura in cemento che sono ancora in piedi. Lo spostamento d’aria ha fatto esplodere ogni cosa, il tetto per primo. Ma tra le mura almeno saremo riparati dal vento. Più tardi arriva un altro elicottero che tuttavia può imbarcare solo sei persone. In ogni caso, quel volo è destinato ad altri. Scende la nebbia e per il resto della giornata nessun elicottero ci raggiungerà più. E arriva un’altra notte, fredda e umida. Si accendono i fuochi tra le stanze spettrali dell’ospedale, mai finito e senza tetto. Lo scenario è apocalittico, post atomico. Vago tra una stanza e l’altra, passando ogni tanto per quella di Nanni, coperto dai sacchi letto. Infine vengo invitato a sedermi attorno al fuoco, acceso dai ragazzi neozelandesi e da un italiano, al quale posso finalmente raccontare questa storia, liberandomi un po’ di questo peso. Siamo tutti addossati l’uno all’altro, ognuno proveniente da terre diverse… ma l’istinto gregario prevale sulle differenze. E così, mentre la fiamma tremula langue sempre più, la ragazza che mi offre la spalla come cuscino, mi prende per mano, sotto il saccoletto, e inizia a carezzarmela, ma in un modo che già conoscevo… quello di Giglio. Non sto vaneggiando, né sognando. Penso solo che lei sia li, vicino a me, e non abbia altro modo per farmi sentire la sua vicinanza, se non per mano di un’altra. E, mentre le carezze continuano, le lacrime, le poche rimaste, bastano appena a lucidarmi gli occhi.
Foto: Guy Zakh
27 aprile
6 del mattino e c’è sempre nebbia. Mi sollevo anchilosato, ormai anche l’adrenalina non ha più effetto: l’ho semplicemente finita e il corpo ne è drogato. Mi accorgo così del profondo taglio alla gamba sinistra, da cui vedo bene di che colore è la carne, come mai mi era capitato. Ora so perché zoppicavo. Sento che oggi scenderemo e così, prima di andarmene, devo rivedere Giglio. Devo farlo per Andrea ed Eva, i figli di Giglio. Scendo di nuovo a Langtang impiegando un tempo assurdo, scopro Giglio e le parlo, sapendo che quel corpo non è più Lei, anche se il suo sguardo, ne sono certo, è su di me. Dopo un ultimo bacio le scopro il collo, togliendole le due catenine che era solita portare. Poi, piangendo, risalgo il pendio, superando i corpi intatti di alcune persone e di animali. La valanga si è presa le vite di molti, semplicemente facendone esplodere i polmoni. Chissà perché è toccato a me vivere, me lo domando spesso. Penso solo che, di fronte a quello che è accaduto, l’unica spiegazione è che, evidentemente, ho un compito da portare a termine in questa vita. Un giorno scoprirò esattamente cosa.
Raggiunti di nuovo i ruderi dell’ospedale, esce un raggio di sole e l’aria si scalda. Forse oggi gli elicotteri voleranno. Non ho più forze e mi sdraio al suolo, lasciandomi penetrare dal calore del sole. Chiedo di nuovo all’ufficiale di dare precedenza a Nanni nell’imbarco, essendo il più grave. Ma, sinceramente, non sono sicuro che andrà così, perché già alla prima rotazione si palesa la miseria umana. L’elicottero viene letteralmente assalito da decine di persone, che spingono per entrare, ancora in fase di atterraggio, rischiando di finire nel rotore. Una ragazza americana, illesa e con il proprio bagaglio, una che non ha perso davvero nulla, finge persino di svenire per avere la precedenza al recupero su feriti gravi. E infatti noi rimaniamo lì, in attesa del secondo volo. Al ritorno dell’elicottero, nonostante l’assalto, i militari finalmente ci hanno caricato. Dall’alto ho potuto vedere le proporzioni del disastro immane, la nicchia di distacco della seraccata… la valanga risalita sul versante opposto. E poi, man mano che scendevamo la valle, le frane, i crolli. Osservo le strade di fondovalle, interrotte da decine di frane… i paesi ridotti a spettri e l’esodo della popolazione verso Kathmandu. Infine, sbarchiamo a Trisuli, nello spazio antistante l’ospedale, ormai in rovina, dove insieme a decine di persone, nel sangue in comune, tra le mosche e il caldo, ci offrono la prima assistenza, poco più che infermieristica, in condizioni così precarie che posso davvero essere fiero dei miei anticorpi. Tra la folla, vedo Pasan e sua figlia. Piange ancora al ricordo della moglie, lasciata sotto le macerie, ma anche per suo figlio, che proprio la mattina del 25 aprile era sceso nella valle per tornare a scuola (disperso, sarà poi ritrovato sano e salvo).
Kathmandu
Ora, che Kathmandu è più vicina, devo ancora fare una cosa importante: farmi vivo per ridare speranza alle persone in Italia, le quali, con poche eccezioni, daranno per scontato che siamo scomparsi per sempre. Ma come fare? Chiedo a Pasan che, per fortuna, ottiene il cellulare da uno sconosciuto. Compongo un numero, ma le comunicazioni sono difficili e discontinue. Poi, finalmente, Paola risponde, ma cade la linea. Ma non può andare sempre male, ed è così che rivedo la donna olandese con cui sono sceso in elicottero. Le domando se posso usare il suo cellulare per una telefonata e lei acconsente. Non riesco a farmi sentire, ora che vorrei, a causa delle comunicazioni aleatorie; ma, proprio quando tutto sembra impossibile, la ragazza olandese mi porge di nuovo il telefono… è dall’Italia. La voce è quella di Luisa che, sentendo la mia, immagina che siamo tutti insieme, sani e salvi. Sapevo che sarebbe arrivato questo momento. Mi domanda di Oskar… segue il mio silenzio, interminabile. E poi le dico ciò che mai avrei voluto dire. In quel momento le ho scaricato addosso il peso di un dolore che non si sopporta. L’ho sentita gridare e, le sue lacrime, anche così lontane, mi hanno bagnato profondamente, come nessuna pioggia potrà mai fare. Infine, questa donna forte conclude la conversazione tra lacrime amare dicendomi: “Arrivate a Kathmandu e poi vi porteremo fuori da lì…”
Kathmandu
Raggiungiamo Kathmandu con un’auto a noleggio, insieme all’olandese, e saremo ospiti della Swiss Family Home, diretta da uno svizzero, Stephan, che si prende cura di noi come un padre. Due giorni dopo Nanni riesce a prendere un’aeroambulanza che lo porta a Parigi, dove viene operato. Nonostante le gravi lesioni riportate a bacino e colonna, ha ripreso la vita di prima. Anche lui evidentemente ha ancora una missione da concludere in questa vita.
Quanto a me, il 29 aprile, vestito in pigiama e sandali, senza soldi né telefono, raggiungo l’aeroporto di Kathmandu. E così, dopo aver spiegato bene a Pigi Rosati, pilota di elicotteri e amico di Oskar, in Nepal per lavoro, come trovare Giglio e Oskar, quella sera stessa sono decollato con un C130 dell’aeronautica militare. Sono tornato a casa. E non c’è davvero più nulla da raccontare. La verità è che quel giorno a Langtang siamo morti tutti, ognuno a modo suo.
Ma sono ancora in questo mondo e voglio continuare a vivere, anche per ricordare due persone così grandi. Giglio e Oskar ora sono un’idea, quella che la passione e la volontà, pulite da qualsiasi altro interesse, possono più di ogni altra cosa. E se il CNSAS ha ancora un futuro, lo si deve in buona parte a persone come loro che sapevamo guardare avanti. Oskar, amico, ora che voli più alto del tuo elicottero, veglia su di noi. E non c’è giorno che abbia inizio e fine senza il tuo volto, Giglio. Voglio credere che Tu sia qui, vicino a noi. Tienimi per mano e continua a guardare il mondo attraverso i miei occhi.
Foto: Guy Zakh
In memoria di Oskar e Gigliola
L’associazione Oskar for Langtang si propone di svolgere attività di assistenza sanitaria e alimentare, nonché di contribuire alla ricostruzione di strutture mediche e logistiche nella valle del Langtang, con particolare attenzione a utilizzare i fondi direttamente sul territorio nepalese. Informazioni dettagliate e resoconti sul sito: http://www.oskarforlangtang.it/
Per donazioni, bonifico su IBAN IT 78 S 08316 34661 000008453839.
Gigliola con noi è l’associazione costituita per ricordare Gigliola Mancinelli. Le finalità sono fornire una borsa di studio a uno studente privo di mezzi, proprio come la sua condizione durante gli studi universitari. Inoltre, in linea con il suo pensiero, il progetto prevede il finanziamento, attraverso il CNSAS, della formazione sanitaria per i tecnici dei servizi regionali del Centro Sud.
Per donazioni, bonifico su IBAN IT 85 C 06055 02600 000000008909.
L’autore, Giuseppe Antonini
1
Scopri di più da GognaBlog
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.