L’artificialismo totale e il ritorno della libera – 1
di Gian Piero Motti
(pubblicato in Storia dell’Alpinismo) (GPM-SdA-34)
Più ancora che sulle Alpi Occidentali, sulle Dolomiti la diffusione dei mezzi artificiali fu assai rapida e si portò a dei livelli di saturazione che sulle Alpi Occidentali, per ovvi motivi, ancora non sono stati raggiunti. Per ovvi motivi, si è detto: infatti le dure condizioni ambientali delle Alpi Occidentali non permettono certo una permanenza in parete di dieci o quindici giorni, necessari per aprire una via a furia di buchi praticati nella roccia, come è successo appunto in Dolomiti. E poi è la stessa struttura della roccia dolomitica che invita a seguire questa tendenza. Piuttosto si è in errore quando si afferma che si giunse all’artificialismo totale sulle Dolomiti perché non vi erano più problemi da risolvere in arrampicata libera. Questo è falso, infatti il contrario sarà dimostrato dalla corrente purista, rappresentata da Reinhold Messner, da Heini Holzer, da Sepp Mayerl e da Enzo Cozzolino, i quali invece apriranno in esclusiva arrampicata libera (o con scarsissimo impiego di mezzi artificiali) vie splendide ed estremamente impegnative su pareti dolomitiche dove con troppa fretta si era detto che ormai non restava più nulla da fare.
Ma, come molte volte abbiamo detto durante questa trattazione, vi è chi vede e chi non vede… Piuttosto, ed anche questo è già stato discusso, diciamo che il cammino della conoscenza e della storia deve seguire il suo sentiero segnato, e quindi, come comunemente si dice, è necessario «toccare il fondo». Solo passando attraverso le aberrazioni e le perversioni e solo accettandole e vivendole in totalità, si può giungere finalmente alla chiarezza tanto agognata. Quindi è inutile stupirsi e scandalizzarsi, lacerandosi le vesti e strappandosi i capelli, di fronte all’abuso di mezzi artificiali e di fronte all’arido ed esasperato tecnicismo di un certo alpinismo di questi ultimi anni. Probabilmente, anzi certamente, ciò doveva accadere ed ha una precisa ragion d’essere nel cammino dell’evoluzione. Non è certo una condizione finale. È senz’altro una fase di passaggio. Se per alcuni è stato necessario giungere a questi livelli, se qualcuno si è divertito a fare ciò, se qualcuno vi ha anche trovato avventura, benissimo, nulla vi è da obiettare. L’esperienza si è rivelata utile e costruttiva, infatti subito come argine e come opposizione si è levata la corrente purista, la quale, proprio attraverso l’esperienza dell’artificialità totale, è riuscita ad esaltare ancor più i valori della scalata libera ed ha raggiunto espressioni tecniche e psichiche che prima erano ancora sconosciute.
Comunque, a scanso di equivoci, va ancora una volta sottolineato che anche nell’ambito dell’artificialità totale vedremo uomini che in un certo senso si dimostreranno fortemente inibiti, in quanto ricorreranno al chiodo ad espansione solo in casi di estrema necessità e provandone quasi rimorso e vergogna (quale colpa aver penetrato la «Grande Madre»…!). Altri invece ne faranno un uso veramente spudorato, forando la roccia anche dove questo non era assolutamente necessario.
Bisogna inoltre ricordare che su roccia calcarea e dolomitica, naturalmente per i primi salitori e non certo per i ripetitori, i quali usufruiscono dei chiodi rimasti in parete e degli evidenti “segni” di chiodatura rimasti sulla roccia, il lavoro di chiodatura arriva a dei livelli decisamente artistici, richiedendo grandissimo intuito nello scoprire i buchi nascosti e le fessurette superficiali. Molti arrampicatori di questo periodo hanno veramente creato dei capolavori lungo le strapiombanti pareti dolomitiche: con i soli mezzi normali (chiodi e cunei di legno), senza mai forare la roccia, sono riusciti a passare dove moltissimi altri probabilmente (anche oggi) avrebbero dovuto bucare. In questo senso l’arrampicata artificiale ha tutta una sua dimensione altamente creativa, capace di dare grandi soddisfazioni all’arrampicatore impegnato nell’apertura di una nuova via. Anzi, è possibile trovare tutta l’avventura che esiste sui grandi percorsi in libera e tutte le incognite di queste vie. Naturalmente l’intervento del chiodo ad espansione modifica assai questo rapporto. Comunque non è detto che l’avere con sé il perforatore ed i chiodi ad espansione durante l’apertura di un itinerario in artificiale, elimini l’avventura.
Ciò dipende esclusivamente dalla volontà di chi arrampica, dal fermo proposito di tentare tutto quel che si può tentare prima di bucare la roccia. Ma c’è anche chi dice che l’avere la “sicurezza” del perforatore nel sacco ammorbidisce la volontà e diminuisce l’ingegno. Insomma, ci si metta un po’ d’accordo…!
Il francese Georges Livanos apre sulle Dolomiti la “Nuova Era”
Nei primi anni che seguono il conflitto bellico, anche sulle Dolomiti vi è una certa stasi. Va comunque segnalata l’attività di alcuni Scoiattoli di Cortina, il simpatico gruppo di guide e alpinisti cortinesi, i quali diverranno assai specializzati nell’arrampicata artificiale, ma sempre comunque restii all’uso dei chiodi ad espansione. Alcune delle loro vie risulteranno dei veri capolavori di “arte chiodatoria” (con mille scuse per il brutto neologismo, che però espime bene il concetto). In questo periodo va anche ricordata l’attività di alcuni sudtirolesi, come Erich Abram e Otto Eisenstecken, i quali tracciano alcuni itinerari di difficoltà piuttosto sostenuta, dove però l’intervento artificiale è ancora secondario. Dei cortinesi va ricordata la difficile ed elegante via aperta da Ettore Costantini e Renato Apollonio sul tozzo Pilastro di Rozes nel 1944, una via degna di porsi al fianco della Soldà alla Marmolada o della Cassin sulla Ovest di Lavaredo.
Ma per giungere veramente a qualcosa di nuovo o di più difficile, dobbiamo arrivare al 1951. Ed è proprio un alpinista francese a portare la novità! Ma ciò non deve sorprendere. Si tratta del marsigliese o meglio dei marsigliesi Georges Livanos e Robert Gabriel. Ci si chiede come possano dei marsigliesi essere avvezzi all’arrampicata su roccia calcarea al punto tale da rivelarsi superiori agli stessi dolomitisti… È la stessa storia di Fontainebleau e dei parigini ironizzati da Charlet. Livanos e Gabriel, come Rébuffat, che però ha poi scelto le Alpi Occidentali, senza tuttavia disdegnare le Dolomiti, sono un prodotto della più vasta (e più bella) palestra di roccia europea, le Calanques, le fantastiche scogliere di bianco calcare, che precipitano sul mare formando pareti alte fino a 300 metri.
Livanos (1923-2004) è un innamorato delle sue Calanques, che conosce metro a metro e dove ha aperto forse 400 vie nuove! Ed è anche un amante della scalata pura su roccia, un difensore dell’arte per l’arte. Infatti detesta le Alpi Occidentali, le fatiche bestiali, i bivacchi glaciali, le bufere, i pendii di ghiaccio battuti dai sassi. Per lui arrampicare è gioia di vivere, scoperta, creazione. Ama arrampicare sul bianco calcare, dominare il vuoto con gesti eleganti, sentire il sole che brucia la pelle nuda della schiena e la risacca del mare che batte sulle rocce. Ma con lo stesso amore egli frequenta le Dolomiti, dove il gioco è forse ancora più bello e raffinato. Nelle Calanques lui ed il suo compagno Gabriel hanno raggiunto un punto assai
alto nella capacità tecnica dell’arrampicata libera ed artificiale, dove praticamente hanno scoperto tutte le raffinatezze possibili nella chiodatura. Inoltre sulle pareti del Vercors, alte 400 metri e più «severe» delle Calanques, essi hanno aperto numerose vie nuove che nulla hanno da invidiare alle celebri vie dolomitiche dell’anteguerra.
Una prima campagna in Dolomiti li mette a diretta conoscenza con le reali difficoltà: restano abbastanza impressionati da vie come la Cassin alla Lavaredo e la Carlesso alla Torre di Valgrande, ma non troppo. In ogni caso affinano ancor più il loro allenamento, in vista di un problema che essi vogliono risolvere. Nella grande muraglia nord-ovest del Civetta nessuna via era ancora stata aperta dopo la guerra ed anche le vie aperte dai maestri Emilio Comici, Raffaele Carlesso e Alvise Andrich contavano ben poche ripetizioni. La Cima Su Alto si erge come un gigantesco castello e verso il bel lago di Alleghe presenta una superba parete gialla e grigia, alta almeno 500 metri, che domina uno zoccolo rotto e sbriciolato che le fa da sostegno per circa 300 metri. A destra di uno spigolo grandioso (vinto poi molti anni dopo), all’incontro con la grande parete gialla e grigia (dove Vittorio Ratti tracciò una via assai difficile ed elegante), si origina un immenso diedro, uno dei più lunghi e grandiosi delle Alpi, sbarrato da grandi tetti e strapiombi giallastri. Il diedro aveva già visto molti tentativi da parte di alpinisti locali, ma tutti si erano arrestati all’inizio del diedro vero e proprio, dove la roccia molto friabile ed i grandi tetti posti più in alto sembravano scoraggiare ogni tentativo. Livanos e Gabriel riusciranno a vincere il diedro non solo perché sono più allenati, ma perché è la convinzione di riuscire che li pone sul piano della vittoria. Essi nelle Calanques hanno superato passaggi anche più difficili di quelli che troveranno lungo il diedro, sono abituati ad arrampicare sul marcio, già sin dal basso sanno valutare la difficoltà dei tratti che incontreranno ed i chiodi che dovranno portare con loro.
Infatti vincono il diedro ed aprono una via che certamente è più difficile di quelle dell’anteguerra, non tanto per i singoli passaggi in arrampicata libera, ma soprattutto per la continuità e la sostenutezza dei passaggi stessi, per la mancanza dei punti di riposo, per la friabilità della roccia e per la difficoltà superiore dei tratti in artificiale, su cui il fattore materiale (leggi chiodi più perfezionati, cunei di legno, staffe a gradini) gioca un ruolo essenziale. Come la Est del Capucin sulle Alpi Occidentali, la Livanos alla Su Alto assume un profondo significato disinibitorio ed apre il cammino alle imitazioni, dove l’intervento artificiale si farà sempre più determinante.
Ecco infatti che nel 1952 gli Scoiattoli di Cortina Lino Lacedelli, Luigi Ghedina e Guido Lorenzi, vincono la difficilissima e compatta parete sud-ovest della Cima Scotoni nel Gruppo di Fanis, che per molto tempo sarà giudicata come la più difficile scalata delle Dolomiti. I ripetitori di oggi hanno un po’ ridimensionato questo giudizio, comunque l’impresa va valutata al tempo della prima salita e soprattutto «come» essa fu compiuta. Più volte i tre arrampicatori cortinesi, per superare tratti assai problematici con il materiale che era a loro disposizione, dovettero ricorrere ad acrobazie inconsuete e un po’ allucinanti, come una piramide umana a tre fatta su staffe! La Scotoni, comunque, segnava una netta supremazia dell’arrampicata libera su quella artificiale: ma questo fu scoperto dopo. Per i primi salitori, invece, le massime difficoltà superate erano state di ordine artificiale…!
A metà tra libera e artificiale
Prima di giungere ad imprese dove l’artificialità si fa totale, vi è un periodo in cui l’equilibrio tra arrampicata libera ed artificiale sarà ben mantenuto. Vi è tutta una serie di realizzazioni compiute da fortissimi arrampicatori dolomitici, i quali tengono l’arrampicata libera ad un luogo di assoluto primo piano e si concedono all’artificiale solo nei casi di reale necessità. In sostanza essi cercano ancora delle pareti e dei tracciati dove si può individuare la “via naturale», suggerita dalla logica e dalla struttura stessa della roccia. Quindi ancora si sale lungo diedri, fessure, camini. Vi è lo strapiombo, il tetto, il tratto di parete aperta: ma sono casi isolati e sporadici. Lo strapiombo chiude la fessura dove si era saliti in libera, il tetto sbarra il diedro arrampicabile, il tratto di parete aperta da attraversare permette di raggiungere un nuovo sistema di fessure arrampicabili. È il tempo delle vie aperte da Andrea Oggioni, che sia ben chiaro non fu solo una spalla di Bonatti, da Armando Aste, da Toni Egger, da Hermann Buhl. Oggioni come arrampicatore su roccia da molti viene giudicato superiore allo stesso Bonatti, ma l’essere accanto ad una personalità come quella del monzese non gli ha certo consentito di primeggiare e di valorizzarsi nella sua giusta luce. Comunque, con l’amico Josve Aiazzi aprì sul gran diedro della Brenta Alta una magnifica via, caratterizzata da quell’arrampicata «mista» di cui prima si è parlato.
Armando Aste, di Rovereto, è certamente uno dei massimi esponenti dell’alpinismo italiano del dopoguerra. Arrampicatore di straordinaria eleganza, sulle Dolomiti ha aperto moltissime vie di estrema difficoltà, veri e propri capolavori di intuito e di intelligenza alpinistica. Aste comunque è soprattutto un uomo della libera, anche se il ricorso all’artificiale nei suoi itinerari è ingente ed assai frequente. Famose le sue vie aperte sulla parete sud della Marmolada, soprattutto quella detta dell’Ideale giudicata da Messner come una delle più difficili scalate delle Alpi.
Aste è un personaggio singolare, un uomo assolutamente convinto del cammino che egli segue lungo l’alpinismo. Dotato di una fede religiosa incrollabile, Aste avvicina le montagne con animo mistico e proprio forte di questa fede riesce a superare difficoltà che potrebbero anche apparire insuperabili. Non per nulla si è cimentato in alcune prime solitàrie di un’audacia incredibile. Egli è anche stato il primo a portare il grande alpinismo invernale nel Gruppo del Civetta, realizzando la prima salita invernale della via Carlesso alla Torre Trieste (1957). Famosa anche una sua via aperta sulla parete della Punta Civetta (1954), lungo la fessura parallela a quella percorsa dalla via Andrich. La via Aste conserva gli stessi caratteri di purezza e di eleganza della via del grande agordino, anzi in alcuni tratti si rivela più difficile (ma bisogna sempre tener conto del fattore proporzionale dato dalla storia!).
Va detto ancora una volta che tutte queste imprese sono caratterizzate da una scrupolosa ricerca dell’arrampicata libera. E se questi alpinisti ricorrono all’artificiale, lo sanno fare magistralmente, con grande eleganza e con purezza di stile.
Hermann Buhl, l’uomo dell’avventura
Parlare di Hermann Buhl richiederebbe molto più spazio di quanto ci sia concesso. Egli è uno di quei personaggi che ormai fanno parte della leggenda. Poverissimo, fin da ragazzino aveva scelto l’arrampicata e l’alpinismo come modo di vivere e rapidamente si era imposto negli ambienti alpinistici austriaci come uno dei migliori arrampicatori. Fisicamente non molto dotato, ma forte di una volontà degna di un Anderl Heckmair, Buhl seppe dar prova durante la sua carriera alpinistica di una tenacia, di una coerenza, di una fede e di una determinazione che lo pongono ad essere considerato come uno dei personaggi più significativi di tutta la storia dell’alpinismo. Egli non fu mai un professionista e nemmeno usò le sue imprese a fini commerciali. Piuttosto fu sempre una specie di “bohémien”, sempre in bolletta, sempre alla ricerca di qualche lavoro provvisorio con cui tirare avanti. La figura di Buhl ha tutta una sua carica umana, che a volte rasenta la commozione.
Buhl (1924-1957) fu alpinista completo: amava tanto l’arrampicata su roccia quanto quella su ghiaccio, tanto le ascensioni invernali, quanto quelle solitarie. Infatti praticamente effettuò la ripetizione di tutte le grandi vie aperte sulle Dolomiti e sulle Alpi Occidentali prima e dopo la guerra. Il suo stile fantastico gli permetteva di passare in tempi incredibilmente veloci e di salire a volte in arrampicata libera dove altri erano passati in artificiale! Non era contrario ai mezzi artificiali, ma dava però all’arrampicata libera il ruolo preponderante e si sforzava di ridurre al minimo l’uso dei chiodi. Buhl era l’uomo dell’avventura. Con ingenuità quasi infantile seguì sempre il filone dell’avventura e sempre si tenne lontano da tutti gli armeggi volti a legare l’alpinismo agli interessi commerciali.
È il Buhl che se ne parte da Landeck in sella alla sua bicicletta e pedala fino a Bondo, dopo aver doppiato il Passo del Maloja! Poi se ne sale tutto solo fin sotto la parete nord-est del Pizzo Badile e tutto solo in cinque ore compie la salita della via Cassin destando l’incredulità e l’entusiasmo di alcuni alpinisti italiani incontrati sulla vetta. Questi lo vogliono trasportare a Lecco, quasi in trionfo, per festeggiarlo. Ma lui non può, per motivi di lavoro. Allora tutto solo se ne discende per lo spigolo nord, poi ancora a Bondo, dove riprende la bicicletta e ricomincia a pedalare per raggiungere Landeck, in Tirolo, e per ritrovarsi a bagno nelle acque dell’Inn, vinto dal sonno e dalla fatica. È il Buhl, che come rapito da un raggio mistico, se ne parte ancora tutto solo dall’ultimo campo posto sulle pendici del Nanga Parbat e, tutto solo, seguendo un cammino di luce, come trascinato da un’energia invisibile, sale fino alla vetta della «Montagna nuda», senza bombole d’ossigeno, senza alcun aiuto, con un’attrezzatura da bivacco del tutto sommaria. Ed eccolo nella discesa vagare, allucinato e sfinito, lungo le immense distese bianche, ancor vivo, uno dei pochi a cui la grande madre himalayana abbia concesso tanto. È il Buhl che con le dita dei piedi amputate ritorna ad arrampicare con lo stesso entusiasmo di prima, è il Buhl che passa vittorioso da solo ed in cordata su tutte le grandi pareti alpine.
È il Buhl che, precorrendo i tempi e la storia, con tre soli amici se ne parte su un camion alla volta del Karakorum per salire in stile alpino un altro Ottomila, il Broad Peak. È il Buhl che ancora una volta da solo si incammina alla volta della vetta, già raggiunta dagli amici, che stupefatti e commossi lo incontrano lungo la discesa. Ma dotato di una forza incrollabile, eccolo salire ancora alla vetta, con al fianco l’amico Kurt Diemberger, il quale colpito da tanta fede e tanta tenacia, decide egli stesso di ritornare in vetta per essergli accanto.
Ma poco dopo, ancora con l’amico Kurt che lo segue a pochi metri slegato, Buhl a causa del crollo di una cornice, scompare per sempre sulle pendici del Chogolisa.
Il valore di Buhl va ben oltre la prestazione tecnica delle sue realizzazioni, ma testimonia la capacità umana di lottare, di soffrire, di fronteggiare ogni tipo di ostacolo, a cominciare dalle difficoltà morali e psicologiche, sempre conservando umiltà e modestia.
Il suo nome, anche sulle Dolomiti, è legato ad imprese di polso: la prima invernale della via Soldà sulla Marmolada, la solitaria sulla parete della Cima d’Ambiez, la magnifica via aperta sulla Cima Canali nelle Pale di San Martino, capolavoro di eleganza in arrampicata libera.
I tedeschi della Scuola Sassone aprono la strada all’artificialismo totale
Inevitabilmente si doveva giungere ad un’impresa che scegliesse una parete dove si poteva salire solo in arrampicata artificiale. E questa parete fu la Nord della Cima Grande di Lavaredo. A sinistra della via Comici, la parete presenta un settore formidabile, giallastro e rigorosamente strapiombante, chiuso al termine da un’arcata di tetti impressionanti. All’attacco della parete, nell’estate 1958 giungono i tedeschi Lothar Brandler e Dietrich Hasse, originari della Sassonia, arrampicatori estremamente dotati sia in libera che in artificiale. A loro si uniscono anche Jörg Lehne e Siegi Löw, che certo non sono da meno.
Per parecchi giorni si inerpicano lungo la muraglia giallastra, cercando di strappare ogni metro in arrampicata libera prima di chiodare. Ma inevitabilmente l’impiego dei chiodi si rende necessario e, in alcuni tratti, devono anche forare la roccia. Nella prima parte della parete la libera fa ancora capolino qua e là, con tratti di difficoltà estrema su un vuoto che stringe le budella, ma poi il superamento dei tetti richiede ben quattro lunghezze di corda dove si sale da chiodo a chiodo, sul vuoto assoluto, in un gioco intricato e complesso di chiodi, cunei, staffe e cordini. È nata l’altra dimensione, quella dell’artificiale. Fino ad allora mai nulla di simile era stato fatto e neanche immaginato, né dai francesi né dagli Scoiattoli. La salita suscitò critiche a non finire, ma erano ingiustificate. L’impresa era stata eccezionale, i quattro tedeschi avevano fatto un uso fantastico dell’artificiale ed anche molto pulito: dovunque era possibile, rischiando il tutto per tutto (e se ne renderanno poi conto i ripetitori…), cercarono di passare in libera. E se forarono la roccia, lo fecero dove era realmente indispensabile. Ma nell’ideare un tracciato del genere e nel superare gli strapiombi, tagliandosi ogni possibilità di ritirata, dettero prova di un coraggio non comune e certamente furono nella strada dell’avventura. Che poi le molte ripetizioni abbiano svalutato quest’impresa e che molti chiodi si siano aggiunti nei tratti vinti in libera dai primi salitori, questo è un altro discorso. Qui si parla della prima salita come fatto a sé stante e come tale viene giudicata. Ma, anche questa volta, un’altra porzione di inibizione era saltata, e ciò permetteva ad altri di guardare con occhio diverso a pareti che fino ad allora erano state definite impossibili.
Infatti, gli stessi Brandler e Hasse, nel settembre dello stesso anno, realizzano un’altra impresa sensazionale e «scandalosa»; vincono infatti, con gli stessi mezzi e le stesse tecniche, la famigerata Parete Rossa della Roda di Vael (Catinaccio), giudicata fino ad allora impossibile. Tecnicamente la via è più facile di quella della Cima Grande, ma anche in questo caso i due fortissimi arrampicatori tedeschi non hanno barato. Dove era possibile hanno “tirato” l’arrampicata libera al massimo, ed anche nei tratti artificiali hanno realizzato dei capolavori di chiodatura, prima di bucare la roccia. Purtroppo coloro che in seguito li imiteranno, in molti casi non sapranno essere così eleganti.
L’esempio infatti è contagioso. Nel luglio 1959 la parete nord della Ovest di Lavaredo è teatro di alcune imprese «tecnologiche». Ancora più della Nord della Grande, la Nord della Cima Ovest si presenta impossibile in arrampicata libera. Più o meno negli stessi giorni, all’inizio di luglio, ben due vie vengono aperte sulla parete. Nel settore destro si impegnano, in concorrenza piuttosto antipatica, due gruppi, uno formato da scalatori svizzeri (Hugo Weber e Albin Schelbert) e l’altro da Scoiattoli di Cortina (Candido Bellodis e Beniamino Franceschi). Qualche parola a questo punto va spesa sugli scalatori svizzeri. Dopo Raymond Lambert, la scuola ginevrina aveva trovato sulle rocce calcaree del Salève una splendida palestra di roccia, dove ben presto si erano affermati arrampicatori di classe internazionale, capaci tanto sul terreno occidentale, quanto su quello orientale.
Dobbiamo citare nomi come Marcel Bron, Claude Asper, Eric Gauchat, Marc Ebneter, Christian Dalphin, Robert Wohlschlag, Erika Stagni, gli stessi Weber e Schelbert ed infine il fortissimo Michel Vaucher, uno dei grandi protagonisti dell’alpinismo del dopoguerra, affiancato dalla valorosa moglie Yvette, che più volte lo ha seguito in imprese di rinomanza internazionale.
Non sorprenda quindi il fatto di incontrare i due svizzeri sulla Nord della Cima Ovest. Comunque, in vetta giunsero prima gli Scoiattoli e, stupidamente, si parlò di prima ripetizione a proposito degli svizzeri che giunsero in vetta poco dopo. In realtà gli svizzeri avevano chiodato gran parte della parete, e gli Scoiattoli usufruirono del materiale lasciato in loco. Sono in ogni caso storie che valgono un soldo bucato. Ciò che conta è che la via fu aperta e che riuscì a superare gli strapiombi. Ma qui l’artificialità era decisamente superiore a quella della Nord della Grande: comunque, anche se su questa via, almeno fino alla cengia sotto il colatoio della Cassin, non vi era un solo passaggio in arrampicata libera, l’impiego dell’artificiale fu ancora pulito ed elegante e, sia gli svizzeri che gli Scoiattoli, seppero dar prova di grande maestria nella chiodatura. Tra gli Scoiattoli emergono i nomi di Lino Lacedelli e di Lorenzo Lorenzi, arrampicatori veramente formidabili su roccia dolomitica.
L’altra via fu aperta dai francesi René Desmaison, Pierre Mazeaud, Pierre Kohlmann e Bernard Lagesse nel settore sinistro della parete, il più impressionante ed anche quello che presenta i più marcati strapiombi. Questa via fu il capolavoro di Desmaison: anche i nemici più accaniti dell’artificiale devono pur ammettere che si tratta di un’impresa stupefacente, soprattutto se si pensa che la ritirata è impossibile già ad alcune lunghezze di corda dalla base. E qui veramente si può parlare di artificialità totale: fino al settore grigio che inizia dopo il grande tetto posto al termine della parete giallastra e strapiombante, non vi è un solo passo in arrampicata libera. Per vincere la parete furono piantati qualcosa come 350 chiodi, di cui 30 ad espansione. Eppure, tutti quelli che hanno ripetuto questa via, riconoscono a Desmaison il merito di aver cercato in ogni tratto la via naturale, data dalle fessure e dai buchi superficiali della roccia. Non vi è un solo chiodo di troppo e nemmeno i chiodi ad espansione potrebbero essere eliminati. Desmaison ha forato la roccia solo dove ogni risorsa si era rivelata insufficiente. Altrove ha spinto la tecnica artificiale a raffinatezze incredibili (almeno fino al punto che il bagaglio tecnico gli concedeva nel 1959), prima di bucare. La via fu dedicata a Jean Couzy.
Anche in questo caso la differenza tra prima salita e successive ripetizioni è enorme. Chiunque può comprendere che la ripetizione non dona più alcuna avventura, ma si riduce ad un monotono e faticoso innalzarsi su chiodi, un vero e proprio lavoro, che sovente risulta assai noioso. Vi può forse essere il piacere di trovarsi in un ambiente veramente grandioso ed impressionante.
12Scopri di più da GognaBlog
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.
Beh…qui si ritorna al meglio all’essenza,al meglio cui aspirare,altri mondi,altre personalità,qui merita riflettere,un punto di riflessione di espressione alpinistica,dovrebbe ruotare su questi argomenti,poi vi sono molte miserie in giro ,che sono solo perdite di tempo