A Milano, domani lunedì 22 ottobre 2018, alle ore 20.30, presso l’Auditorium della Fondazione Cariplo in Largo G. Mahler/C.so San Gottardo, Reinhold Messner presenterà L’assassinio dell’impossibile, la video-conferenza spettacolo con cui torna a Milano dopo anni di assenza. Presentato da Alessandro Filippini, con l’organizzazione a cura dello studio Aldo Falerie OSCA-Osservatorio degli Sport e Culture Alpine, il Re degli Ottomila con l’aiuto di eccezionali immagini delle più famose montagne della Terra ripercorrerà la storia dell’alpinismo, nella quale “ogni nuova generazione ha cercato di rendere possibile ciò che quella precedente definiva impossibile”.
Tutto ciò per presentare al pubblico il suo nuovissimo libro L’assassinio dell’impossibile, edito da Rizzoli e curato da Alessandro Filippini e Luca Calvi. Nel 1968 ha luogo un cambiamento epocale nei valori che guidano l’alpinismo su roccia: Reinhold Messner riesce nella sua prima ascensione più difficile, quella al Pilastro di Mezzo sul Sass dla Crusc nelle Dolomiti, il tutto mentre Royal Robbins lancia dalla Yosemite Valley l’appello per il clean climbing. Dieci anni prima era diventata di moda l’arrampicata artificiale, ma nell’anno della rivoluzione studentesca, Reinhold Messner con il suo articolo L’assassinio dell’impossibile lancia l’appello per la rinuncia agli aiuti tecnologici nelle scalate. Ha così inizio il movimento dell’arrampicata libera. In questo volume i curatori hanno raccolto i contributi dei migliori climber e alpinisti del mondo che hanno voluto esprimersi sullo sviluppo e sullo stato attuale dell’arrampicata tradizionale e di quella libera. Chiude il volume Ciò che resta dell’impossibile di Reinhold Messner, che fa il punto sullo stato attuale dell’alpinismo dichiarando “L’alpinismo, esattamente come prima, è sogno”.
Qui sotto riportiamo il contributo al libro di Alessandro Gogna.
L’assassinio della fantasia
(50 anni di assassinio dell’impossibile)
Lettura: spessore-weight(3), impegno-effort(2), disimpegno-entertainment(2)
Se a distanza di cinquant’anni dall’esplosiva uscita de L’assassinio dell’impossibile ci si chiede se nel frattempo le imprese alpinistiche siano finite o abbiano mostrato segni di stanchezza creativa o, ancora, abbiano rivelato minor eroismo e minori capacità tecniche, la risposta è no, su tutta la linea. Anzi, si è verificato il contrario: moltiplicazione di realizzazioni, progettualità intensa, dal fantasioso-creativo al visionario, grandi eroismi e grandi performance. Sono stati raggiunti limiti che Messner, assieme ai suoi contemporanei, non sognava neppure
Dunque è generalmente riconosciuto che l’impossibile è non solo sopravvissuto ma pure gode di ottima salute.
Nel maggio 1968 di quello che succedeva nelle università non mi interessavo, a Genova poi ogni cosa giungeva ovattata, epurata di ogni carica dirompente. Anche il maggio francese non colpì molto l’ateneo ligure, così seppi qualcosa soltanto leggendo i giornali oppure parlando con gli amici di Milano e Torino. Compagni come Paolo Armando o Ettore Pagani, entrambi studenti di architettura, erano, al contrario di me, ben impegnati in quel movimento che sembrava allora travolgere tutto l’ordine costituito per dare spazio alla libertà.
Una libertà collettiva in contrapposizione a un ordine collettivo… ma in quel momento mi sentivo troppo libero dentro per curarmi della libertà collettiva.
In una mia conferenza, l’anno successivo, rispondendo a una precisa domanda, ricordo che rivolsi al pubblico l’esclamazione «noi il Sessantotto l’abbiamo fatto sulle montagne», provocando un mezzo delirio di applausi frenetici. La frase era un po’ a effetto, ma era indubbiamente vera e liberatoria: volevo solo dire di essere completamente estraneo alle lotte di piazza o di aula.
Nel frattempo, L’assassinio dell’impossibile aveva messo il dito su una piaga che si stava scoprendo. Messner è riuscito a formulare un pensiero con grande chiarezza nel terreno assai fertile di migliaia di alpinisti che gradualmente si stavano accorgendo che c’era qualcosa che non andava.
Molto dell’alpinismo di punta di allora si basava sui vecchi concetti di conquista che prediligevano appunto la vittoria senza badare ai mezzi utilizzati per conseguirla. Negli anni Sessanta l’espressione by fair means non si era dimenticata, semplicemente si era alzata, senza più alcun controllo, la soglia del significato di quel fair. Su questo aggettivo, che viaggia tra il significato di “leale” a quello di “giusto”, nei decenni si era sempre più posto l’accento sul “giusto”, trascurando cioè la lealtà dei mezzi in una tenzone equa con la montagna e sottolineando invece con forza quanto i mezzi fossero “giustamente” tanti (ma mai sentiti “eccessivi”) quando la montagna la si affronta nei suoi aspetti più “tanti” (grandiosità, difficoltà).
Al nocciolo, Messner ricordava che a quel ritmo ogni difficoltà sarebbe stata distrutta, uccisa, e non “vinta”. Un richiamo forte dunque alla lealtà, e dunque al rispetto di alcuni limiti. Limiti che siamo noi a dover individuare, paletti che sono alla fine i pilastri della nostra libertà di scelta. Fondamentalmente cinquant’anni fa Messner ci ha detto: “senza limiti è la fine del nostro gioco e se vogliamo essere liberi di giocare allora dobbiamo, con scelte responsabili, rispettare dei limiti”. Con queste affermazioni è andato ben oltre al Sessantotto!
Messner, parlando di assassinio dell’impossibile, si riferiva soprattutto all’arrampicata artificiale, in particolare a quella che prevedeva l’utilizzo di chiodi a pressione e perforatore. Oggi l’artificiale ha preso una sua direzione estrema, molto “alpinistica”, che nulla ha a che fare con l’assassinio di cui stiamo parlando.
All’artificiale si è sostituita l’arrampicata sportiva: la bella e divertente illusione di spingerci sempre di più al limite: un limite sportivo però, ben diverso dal limite di cui si parlava e si parla in alpinismo.
Tramontato il Nuovo Mattino, la scissione fra alpinismo e arrampicata sportiva verificatasi negli anni dimostra la lontananza del collettivo dal modo di sentire alpinistico. Oggi più che mai l’alpinismo e il free climbing si trovano ad anni luce dalla realtà di tutti i giorni. Neppure i giornali parlano più delle imprese che i giovani continuano a produrre in varie parti del mondo. Solo su internet se ne ha traccia, salvo poi stupirsi per la quantità e qualità delle nomination al Piolet d’Or.
L’arrampicata sportiva invece si è incanalata nelle vie più domestiche dell’attrezzatura a regola d’arte o della competizione, in generale in una deresponsabilizzazione del singolo che invade l’insegnamento, la proposta turistica e le delibere comunali. L’arrampicata sportiva e le spedizioni commerciali sono dominate dal collettivo, hanno perso quella fantasia che, anche se non è mai stata al potere come avrebbero voluto Daniel Cohn-Bendit e gli studenti di Parigi, era bene che comunque albergasse nelle nostre azioni.
Ciò che individua un’opera d’arte come elemento-base è una grande carica trasgressiva, una forte carica di energia che soverchia quanto prima si pensava si potesse fare, oltre il quale non ci si azzardava. Quindi è un elemento di rottura, un’affermazione di libertà.
Il Sessantotto invece si rivelò un grande e potenziale pericolo per l’individuo, colpendo al cuore proprio la sua responsabilità e agitandogli davanti piacevoli fantasmi edonistici di un’organizzazione che pensa per lui, lo coccola e lo illude (con la “montagna sicura”) di aver eliminato ogni pericolo mortale o di sofferenza. L’assassinio dell’impossibile si poneva contro e molti alpinisti lo hanno capito, anzi lo sospettavano già.
In quel momento si è avuta la creazione, la scarica di energia, la carica trasgressiva che dicevo prima. Oggi tutti gli alpinisti sostengono che deve esserci un dislivello sensibile tra l’uomo e la montagna, montagna più alta e uomo più basso, affinché si possa permettere proprio la famosa scarica che dicevamo prima, il fulmine che deve scoccare, la scintilla; allora veramente esplode la grandezza di un’impresa alpinistica, ma anche di altri tipi di imprese. Ritengo che questo dislivello sia dato soprattutto dalla fantasia che l’individuo ha; forse sto privilegiando quello che è il rapporto personale, quello dell’individuo con la montagna, il suo rapporto di amore con la parete. Chiamiamolo pure rapporto romantico se volete, oggi minacciato più che mai.
L’alimentazione evidentemente ha permesso tante nuove cose, l’allenamento specifico per le diverse discipline è diventato scientifico; le previsioni meteorologiche sono ormai quasi infallibili; il soccorso alpino è efficiente, almeno sulle Alpi; i materiali sono estremamente studiati e provati.
Se era facile eliminare il chiodo cinquant’anni fa, portandone meno con sé, è molto più difficile oggi rinunciare alla tecnica sempre più invasiva. E ancora è più difficile rinunciare alla tecnologia, che è una moltiplicatrice di facilitazione e che favorisce la competizione, manifesta o meno.
Penso che occorra avere il coraggio delle proprie intuizioni, poiché esse sono la cosa che manda avanti l’alpinismo; l’esibizione pura e semplice dei muscoli mi ha sempre lasciato abbastanza freddino. In più la competizione da sola fa perdere anche il senso personale dell’andare in montagna; basta pensare che finché c’è vittoria e pubblico on line c’è la motivazione per andare avanti, a volte anche quando ci si dovrebbe fermare.
Quando non c’è più la vittoria, e questa può non esserci sempre, spesso la passione può diminuire e quindi ecco succedere quello che è il fenomeno odierno, la svalutazione della montagna.
La montagna viene svalutata proprio perché c’è questo passaggio, la passione che diminuisce, che tende quasi a zero se è dominata soltanto dalla competizione. Non vedo altra fonte che l’amore, il rapporto individuale per avere creatività e avere fantasia; bisognerebbe forse scrivere, oggi, un articolo non più sull’assassinio dell’impossibile, ma sull’assassinio della fantasia, perché mi sembra che da molte parti questa venga presa a bastonate (dai regolamenti di gara, dai tablet e smartphone che con l’esibizione e lo show si sono sostituiti alla realtà, dall’onnipresente ossessione di sicurezza e dalla bestemmia del “no limits”.
La produzione di alpinismo/opera d’arte avverrà in quel silenzio e in quella solitudine che, volendo, possono essere salvate anche in piena era satellitare. Se lo si vuole, si va oltre gli sponsor, si va oltre le esibizioni, oltre il collettivo.
L’assassinio della fantasia è ancora più virale di quello dell’impossibile. E oggi siamo in piena pestilenza.
Alessandro Gogna, 13 gennaio 2018
3
Comunque è sempre un bel problema uscire dalla massa e realizzare qualcosa di personale con le proprie mani e non con aiuti garantiti dalla società.
L’uomo gregge difende sempre il suo gregge e non ammette che si esca, non penso sia una questione di invidia.
Il gregge bruca e fornisce carne e lana, non coltiva e non sa difendersi dai lupi.
Mah, Rubbia, le sue centrali elettriche a calore solare erano state osteggiate da gente politica e in Italia non se ne sono costruite, però si son spesi 100 miliardi di euro per pochi megawatt di pannelli solari: follia dell’ignoranza del gregge, ma quella becera.
diaciamo un bell’opportunista. Oltre al 68 in montagna, s’ è fatto anche il castello.
E adesso le colate di cemento armato dei musei.
Ho scritto una provocazione per vedere se qualcuno leggeva e commentava. In effetti R.M. ha approfittato molto del Sistema Italia. Deputato per cinque anni con un lauto stipendio ed ora con il vitalizio. Non ricordo assolutamente nulla di importante che abbia fatto nel parlamento Italiano e se lo abbia frequentato.
LUIGI
Reinhold Messner si è sempre occupato del “sociale”? Ma quando mai?Forse stiamo parlando di un omonimo…
Il Messner di cui ho sempre letto sui giornali da quaranta anni è una persona che ha sempre agito – e ha sempre detto di agire – per il proprio favore. Beninteso, non è affatto una colpa.
Però vorrei soltanto evitarne la santificazione.
Cosa é stato il sessantotto, Guido Rossa ucciso dalle BR ed io lo abbiamo vissuto sulla nostra pelle, lo ricordo bene. Prima c’era in Italia una società autoritaria erede del Fascismo. Le lotte operaie e studentesche portarono nelle scuole e nelle fabbriche un poco di democrazia. Con l’avvento dei consigli di fabbrica si creo’ un poco di libertà e democrazia nei posti di lavoro. Ricordo che alla Fiat Valletta se ne era appena andato sostituito dallo stesso Gianni Agnelli. In quel periodo il movimento operaio e studentesco diede origine a Potere Operaio dove trovarono albergo Toni Negri e Piperno e Lotta Continua nel quale si formarono Adriano Sofri, Gianpiero Mughini, Gad Lerner. Di qui ebbero poi origine le lotte dei radicali per portare nella società i diritti civili di cui avevamo tanto bisogno. Un’altro filone diede origine alle B.R. questa é un’altra storia.Tempi duri quelli per chi era rimasto in città, lo ricordo bene.
LUIGI
Ricordo che Repubblica oggi riporta un commento fatto da R. Messner sulle elezioni a Trento e Bolzano, inoltre l’uomo é stato anche deputato nelle liste dei Verdi dal 1999 al 2004, di conseguenza grazie a questo percepisce anche un vitalizio. Questo per dire che l’uomo ha i piedi ben piantati per terra, e le fantasie gli servono per conquistarsi un bel posto al sole. Lui il sessantotto lo ha fatto in montagna, ma ha sempre guardato a cosa succedeva in città. Un grande alpinista e un grande professionista che si e sempre occupato del sociale e quindi di politica.
LUIGI
Condivido molte delle cose che sono state dette da Gogna e anche da Benassi e rifletto sulla situazione dell’alpinismo che vedo intorno a me: forse abbiamo imboccato un ramo secco del processo evolutivo, caratterizzato dalla estinzione di molte “specie” e la sopravvivenza, casuale, di solo qualche “fossile vivente”!
CERTO!
per quanto mi riguarda non sono mai andato dietro la ricerca della pura e sola difficoltà ma puttosto ad una frequentazione della montagna e di quello che può offrire a 36o gradi meno lo sci per il quale confesso sono negato.
Questo non vuol dire che non abbia cercato di fare cose per me assai difficili o al mio limite. Ma le più grandi soddisfazioni non le ho tratte solo da queste. Ci sono state salite tecnicamente facili, ma su pareti o montagne molto interessanti o poste in luoghi particolari, o che avevano storie interessanti da raccontare che mi hanno dato altrettante soddisfazioni. Non parlo solamente di ripetizioni ma anche di aperture.
Ma certo che se uno ha ambizione è legittimato a indirizzare la sua fantasia verso le alte difficolta’!
Questa è il vero meccanismo che innesca l’evoluzione dell’alpinismo.
Però nel cammino evolutivo di ogni individuo ci può essere anche un’esplorazione che prescinde dalle elevate difficoltà. Non che sia un alpinismo meno impegnativo, per esempio nei raid in sci integrali (cioè senza appoggio a rifugi gestiti) si é isolati come in una parete di elevata difficoltà.
Cordiali saluti
Per me è un fatto del tutto personale. Dipende dalla sensibilità di ognuno di noi. Da quello che cerchiamo e vogliamo. E’ chiaro che per fare cose difficili , oltre al talento, bisogna impegnarsi molto, allenarsi, concentrasi. Ma questo non vuole dire che colui che cerca di alzare sempre i propri limiti, il grado, non abbia il senso dell’esplorazione, dell’avventura. Non abbia il gusto di guardarsi intorno, di osservare un fiore. Di apprezzare un ciuffo d’erba come parte essenziale di una via e di non vederlo solo come un fastidio per l’arrampicata. Non vuol dire che la sua attività sia essenzialmente sportiva piuttosto che montanara. Ripeto, dipende dalla sensibilità che si mette nel fare le cose. Questa cambia lo stile.
Secondo me gente del calibro di un Riccardo Bee, Renato Casarotto, di Lorenzo Massarotto. Erano alpinisti e montanari a 360 gradi. Facevano cose estreme ma con il gusto della montagna non solo della pura difficoltà, della pura gestualità.
Bee era capace di buttarsi da solo su grandi pareti di roccia marcia. Perchè era masochista? Non credo. Lo faceva perchè aveva il gusto della grande avventura, dell’incognito, dell’esplorazione. Penso che per Lorenzo Massarotto il gusto dell’incognita della grande parete, lo affascinasse di più che quello per il grado.
concordo con Crovella. Alpinismo come fantasia, libertà, stupore,creatività, ricerca…ognuno a suo modo nel rispetto di ambiente e cultura
C’è ovviamente posto per tutti (ci mancherebbe altro) basta non accampare la classica scusa: “vado piano così mi godo il panorama” perché non si è in grado di andare più velocemente. Anche di corsa il panorama si può godere.
L’importante è divertirsi, secondo me.
Mi sento abbastanza vicino al pensiero di Crovella a titolo personale, ma ritengo anche che la percezione della ricerca creativa sia fortemente influenzata da aspetti come età, capacità tecniche, condizione atletica e non per ultimo, anche capacità intellettuale. Ho avuto modo di appurare più di una volta che per essere bravi alpinisti non è purtroppo necessario essere anche intelligenti.
Gian Piero Motti creò in Sea un mondo fantastico, entrato nell’immaginario collettivo, senza averci mai arrampicato.
Io, all’acquisto di 100 nuovi mattini mi misi alla rincorsa ripetendo le vie descritte con lo stile del pappagallo, senza comprendere il reale messaggio del libro e con l’occhio solo al grado.
Posso dire però di essere guarito! 😉
Con riferimento ai commento 4-5-7, preciso che io (commento 2) mi sono limitato a raccontare la mia esperienza personale. Ovvero: a un certo punto (direi una trentina di anni fa) mi sono accorto che non riuscivo più a “salire” di grado e gli eventuali miglioramenti (peraltro marginali) derivavano solo da allenamenti maniacali, attivita’ forsennata, etc.
In pratica nel mio piccolo stavo uccidendo la fantasia del mio andar in montagna, lo stavo trasformando in uno sport, avevo dei target come un centometrista che “deve” fare certi tempi etc.
Un esempio? Non sceglievo piu’ le vie di roccia (o di ghiaccio o le gite in sci) in funzione della curiosità, ma della mia tabella di crescita progressiva delle difficoltà: la via che stavo andando a fare doveva essere sempre un po’ piu’ difficile della precedente, senza preoccuparmi del contesto in cui tale via si inseriva (cima, Vallone , rifugi, ghiacciai etc).. e questo mi aveva chiuso on una prigione ideologica.
Ad un certo punto sono esploso e sono riuscito ad evadere da questa prigione ideologica, accettando di scendere di difficoltà, ma rimettendo in prima linea la fantasia e la curiosità. In questo modo il mio andar in montagna non ha più rischiato di essere un semplice sport, ma è tornato ad essere uno stile di vita, come piace a me.
Ora questa è un esperienza accaduta ad un alpinista medio e non escludo affatto che chi ha i numeri per continuare su livelli al top possa ricercare “lassù” la fantasia…
Si Lui credo ci stia provando. Vedi ultima sua realizzazione in solitaria alla Cima Scotoni dove non ha forato!
Siamo alpinisti/arrampicatori ?
Oppure siamo turisti?
Il turista non ha bisogno di fantasia. Deve solo divertirsi e consumare. Chiaramente senza rischiare.
Ho sorriso nel leggere il titolo di questo articolo, lo stesso titolo di una riflessione che inviai all’inizio degli anni ’80 a “Lo Scarpone”. Allora ero un neo istruttore di alpinismo, alpinista “medio” e senza nemmeno troppa esperienza in montagna (ho iniziato ad arrampicare nel 1975). Mi riferivo all’arrampicata sportiva e al suo stare sostituendo le regole dell’alpinismo classico con nuove regole diverse ma ugualmente rigide, restrittive e forse peggiori (dal mio punto di vista). Il risultato per me sarebbe stato proprio “l’assassinio della fantasia”, come conclude Alessandro Gogna nel suo articolo. Nel mio piccolo avevo avuto un’intuizione? Magari confusa e non ben esplicitata? … forse lo era e l’articolo concludeva così: “Ritroviamo la strada perduta prima di macchiarci di un nuovo assassinio (quello della fantasia N.d.A.) che si ritorcerà inesorabilmente e definitivamente su noi stessi”.
Nota: Siccome allora si scriveva con la macchina da scrivere e non ho file disponibili, invio fotocopia dell’articolo, pubblicato sullo Scarpone, a GognaBlog. I
Vedo sempre più che le attività sportive stanno innalzando i livelli delle prestazioni in montagna. Secondo me questo è stato reso possibile solamente dai miglioramenti tecnici nei materiali.
Anche l’arrampicata su roccia ha visto innalzarsi il grado raggiungibile grazie ad un meticoloso lavoro tecnico di allenamento e di foratura della roccia e su ghiaccio non si è molto più lontani.
Le “imprese” della metà degli anni 80 non sono più state ripetute, o forse si comincia da poco (Gietl? & C.).
La “mente”, l’allenamento mentale, è passato in secondo piano o è stato ridimensionato a fatto tecnico e le realizzazioni attuali decantate come creative sanno a dir poco di già visto tante volte, talvolta persino già vissuto decenni prima.
E se la mente scompare, per me la fantasia, l’avventura, le sorprese (come dice bene Flavio) e tutto il bello dell’alpinismo sono come degli sconosciuti nelle nuove generazioni.
Loro vedono l’aspetto tecnico e lo pubblicizzano come unica (sterile) dimostrazione delle proprie (limitate) capacità come uomini, non sanno vedere tutto il resto, ma non solo i giovani direi.
E penso anche che il fanatismo mediatico (io lo chiamo dei brocchi) per la sicurezza, porti a credere tutti solamente alla tecnica e agli aspetti tecnici e mai a quelli mentali.
Forse, come il chiodo a pressione in passato, ora lo spit sta distruggendo i “neuroni”, solo che il pressione si toglieva facilmente mentre lo spit no e lo mettevano quando non erano capaci di passare, non per sentirsi protetti.
E’ un problema sociale e bisognerà aspettare, io non vedrò più una qualche riscoperta come accadde negli anni 70.
Alessandro, forse mi sono espresso male, ma io mi riferivo a questo commento nell’intervento di Carlo Crovella.
Non credo che sia la ricerca di maggiori difficoltà o prestazioni più spinte che uccidono la fantasia. Se fatte in un certo stile, anche queste sono esplorazioni: del terreno che può essere interpretato in tanti modi diversi e, non da meno esplorazione di noi stessi.
Non ho mai sopportato l’intrusione della politica nell’alpinismo e nell’arrampicata. Comunque la si pensi ho sempre mal digerito commistioni.
Alberto, detto come lo dici tu sembra che io sostenga che “per alimentare la fantasia in montagna bisogna riunciare alle maggiori difficoltà, alle prestazioni tecnico-atletiche, alle performance”.
Questo io non dico. E naturalmente concordo con quanto dici dopo.
Non credo che per alimentare la fantasia in montagna bisogna riunciare alle maggiori difficoltà, alle prestazioni tecnico-atletiche, alle performance.
L’uomo alpinista ha bisogno di andare oltre le colonne d’ Ercole per vedere cosa c’è.
Quello che fa la differenza è COME lo si fa. E’ trasformare l’avventura in sport che fa la differenza. E’ standardizzare e appiattire il tutto , è rendere già preparata la minestra.
Io invece il Sessantotto l’ho condiviso nelle piazze e in montagna, non vedo un contrasto tra collettivo e personale. Quel movimento mi ha ispirato nel modo di fare escursionismo e di riproporre la naturalità e la libertà delle vie normali, oggi sempre più attrezzate.
Per quanto riguarda l’arrampicata, penso che sia poi mancata una figura autorevole come quella di Messner che sapesse anche orientare culturalmente.
Per rivitalizzare l’aspetto della “fantasia” io (nel mio piccolo) gia’ da molti anni io ho seguito il seguente percorso: ho volutamente rinunciato alla ricerca di performance tecniche e atletiche (sia su roccia/ghiaccio che in sci) e privilegio l’ aspetto esplorativo. Mi da’ di più “andare a vedere cosa c’è dietro l’angolo” piuttosto che “strappare” un passaggio in arrampicata o un ripido pendio in sci.
Stiamo parlando, ovviamente, di un “assassinio” artigianale e realizzato a dimensione di alpinista normale, non sto certo suggerendo questo escamotage ai top climber… ma chissà forse potrebbe valere anche per loro… chissa’…
Bellissimo e condivisibile….Non solo per l’ambito montagna, ma direi per tanti aspetti della vita di oggi! Grazie e….a domani!