Lavorare meno, lavorare diversamente, non lavorare affatto
di Gloria Germani
(pubblicato su ariannaeditrice.it il 21 novembre 2023)
Serge Latouche, Lavorare meno, lavorare diversamente, non lavorare affatto, Bollati Boringhieri, 2023
Libro breve, ma densissimo di profondi stimoli che sicuramente saranno decisivi per il futuro. Il padre della “rivoluzione culturale” della decrescita (p. 88) affronta un tema decisivo per sottrarsi dal quadro mentale della società della crescita: quello del lavoro moderno, cioè del lavoro salariato.
“Lavorare meno” può suonare come uno slogan di moda – ed è stato subito recepito dal mensile italiano di Il Fatto quotidiano “Millennium” che gli ha dedicato il numero di novembre 2023 con una intervista a Serge Latouche e lunghi approfondimenti sul tema. Tuttavia la riflessione dell’economista e filosofo francese è molto articolata e difficilmente si fa ingabbiare dai media la cui funzione sostanziale è quella di vendere il binomio pubblicità–progresso (a conferma di ciò, poche pagine dopo, si veda l’intervista alla titolare della cattedra di “Etica dell’Intelligenza Artificiale”, una contraddizione in termini o un ossimoro, per dirla con Latouche, tanto quanto quello di “sviluppo sostenibile” o di “crescita verde”).
Oggi – sottolinea il nostro – ci troviamo nel mondo delle assurdità: alcuni lavorano anche 15 ore al giorno, mentre ci sono milioni di disoccupati (p. 36). Lavorare meno è dunque necessario per lavorare tutti, ma occorre soprattutto uscire dal paradigma del capitalismo o produttivismo che ci ha formato da uno o due secoli. E’ stato un particolare clima storico (ben colto da Max Weber nel suo Etica protestante e lo spirito del capitalismo o da Karl Polanyi, in La grande trasformazione), costruito da una scia di pensatori del XVIII e XIX secolo come John Locke, David Hume, Adam Smith o David Ricardo, che hanno inventato la ricchezza e la proprietà come frutto del lavoro. Non hanno considerato la mercificazione e la disumanizzazione del quotidiano che oggi abbiamo davanti agli occhi, già denunciata magistralmente da Simone Weil o Hannah Arendt. Si tratta di un paradigma molto strutturato: la Repubblica Italiana, per esempio, è stata fondata sul lavoro (art.1 Costituzione). Però – sottolinea Latouche – “il lavoro, come l’economia, sono invenzioni della modernità (p. 3)” e possiamo, come abbiamo già fatto, vivere senza di loro. La decrescita ha proprio questo scopo: quello di un cambiamento radicale di paradigma, e se consideriamo che questa rivoluzione culturale ha solo 20 anni, possiamo essere ottimisti sul suo futuro. Intervenendo in tale maniera anche nel dibattito sulla decrescita a livello spagnolo, inglese, italiano, francese e generalmente internazionale, il fondatore chiarisce senza ombra di dubbio che la decrescita consiste niente meno che nell’uscire dall’economia moderna, cioè nell’abbandonare la religione della crescita che costituisce il suo principio essenziale.
L’esperienza della pandemia Covid e il recente movimento francese contro la riforma delle pensioni hanno mostrato d’altronde che si può sopravvivere senza un consumo eccessivo oppure che ci si può battere per un’idea diversa di lavoro e per una sua migliore qualità. Se i maggiori critici dell’economia moderna, come Karl Marx, sono rimasti chiusi all’interno dell’ideologia dello sviluppo, i padri della decrescita come Ivan Illich, André Gorz o Jean Baudrillard, hanno condotto una critica serrata al produttivismo ed è a loro che dobbiamo riferirci oggi se vogliamo uscire dalle contraddizioni del mondo attuale, per prima quella del collasso climatico. D’altronde, sottolinea Latouche, “non si risolverà il problema sociale senza far fronte alla crisi ecologica” e viceversa, mentre “la vera ecologia è punitiva solo per il capitale e i suoi rappresentanti, per le imprese multinazionali, il Gafam o i fondi pensioni (p. 22)”.
Per realizzare una vera transizione ecologica attraverso la società della decrescita, occorre avviare tre misure principali: la rilocalizzazione sistemica delle attività utili già in atto tramite i fenomeni dei neo-agricoltori, neo-rurali, neo-artigiani; una riconversione progressiva delle attività parassitarie come la pubblicità o nocive come il nucleare e l’industria delle armi; e una riduzione programmata e significativa del tempo di lavoro. Il socialismo ecologico e democratico si può realizzare solo attraverso il localismo, come già sapevano Aristotele, Gandhi oppure Leopold Kohr o Murray Bookchin (p. 29). Riconvertire le attività produttive come l’agricoltura industriale (fonte di cancro, intossicazioni e inquinamento) in agricoltura biologica e di prossimità è un passo fondamentale per una vita sana e conviviale. Mentre la riconversione della pubblicità permetterebbe di uscire da quella vendita dei desideri che è il vero motore del consumismo, con l’eliminazione di bisogni inutili (turismo, moda, trasporti, industria automobilistica, aereonautica, dell’agribusiness, delle biotecnologie). Per ridurre infine il tempo di lavoro, occorre, in una fase intermedia, imbrigliare l’economia attuale ed eliminare due tabù (protezionismo e inflazione). Per Latouche per vivere meglio occorre fare meglio con meno, eliminando le fonti di spreco (gli imballaggi a perdere, il cattivo isolamento termico, la preminenza dei trasporti su strada) e aumentare la durata dei prodotti. Ciò che è essenziale è però ripensare la natura del lavoro che è consustanziale con l’Occidente moderno e ai suoi miti: razionalità e calcolo economico, culto dei risultati, individualismo e soprattutto la concezione meccanica ed artificiale del tempo a cui Latouche dedica una acutissima riflessione (p. 57 e 84). Se non lo facciamo, si andrà verso la catastrofe sociale ed ecologica, già in agguato (p. 46).
Nell’ultimo capitolo, l’economista francese chiarisce che il progetto della decrescita prevede un ulteriore passo: l’abolizione del lavoro. Questa può realizzarsi solo con la scomparsa della sua specificità servile e la fuoriuscita dall’economia.
Al contrario, la scomparsa del lavoro come effetto del progresso tecnologico (autonomazione/robotizzazione/AI ) viene da lui considerata un mero mito e ridicoli appaiono i grandi maghi come Jeremy Rifkin con la sua fede tecno-scientista per cui si salveranno contemporaneamente il capitalismo, il socialismo e il pianeta (p. 72). Il lavoro smart da casa, le innovazioni digitali di Uber, Airbnb e Delivero fomentano la strumentalizzazione lavorativa più scandalosa che ricade nel pantano del mondo-merce. “Quello che viene definito il management senza contatto diventa totale e completa sottomissione agli algoritmi” […] Anzi, “le nuove tecnologie offrono al capitalismo nuovi mezzi per rafforzare il proprio dominio sui lavoratori, evocando contemporaneamente la minaccia della loro inutilità (p. 73)”.
Come le altre rivoluzioni tecnologiche che si sono succedute a partire dal XVIII secolo e che sono fallite nella promessa di liberarci dal lavoro, anche la cosiddetta “quarta rivoluzione”, decantata dai guru del transumanesimo, non produrrà alcun miglioramento, piuttosto “una dittatura degli algoritmi” (p. 78). Latouche è del tutto negativo sull’utopia digitale che non fa che proseguire il medesimo paradigma che ha creato il lavoro salariato e gli enormi problemi attuali.
Il lavoratore infatti è colui che accetta una attività subita, che si spossessa delle proprie capacità manuali ed intellettuali per immetterle in un progetto che appartiene ad altri. Non ci può essere uscita dal capitalismo senza abolizione del lavoro salariato o anche dalla nozione stessa di lavoro (Jérome Baschet, p. 65). Non è affatto un caso che i lavori attuali siano bullshit jobs perché comunque privi di senso.
Ciò che il progetto della decrescita chiede è immaginare e realizzare una uscita della società del lavoro verso una società in cui le attività senza fine economico, pubbliche e private, sociali e personali, saranno prevalenti (p. 77). Non si tratta come alcuni detrattori insinuano di tornare ad un mitico passato perduto, ma di “inventare una tradizione rinnovata (p. 78)”. In questo contesto, vorrei aggiungere, le relazioni empatiche tra uomini e tra uomini e natura devono tornare centrali. Il ruolo del femminile, invece che spronato alla rincorsa della competizione lavorativa e appiattito sul modello maschile – attualmente esaltato con l’ossessione sulla questione del genere – deve acquisire un valore primario. Come stanno dimostrando infatti i fondamentali lavori nel campo della psichiatria e delle neuroscienze (John Bowlby, Donald Winnicott, Iain McGilChrist), le relazioni affettive e ”la base sicura” nel rapporto genitoriale sono le condizioni indispensabili (ancor più del cibo) per la sopravvivenza del bambino e quindi per lo sviluppo sano ed equilibrato delle persone e della società. Solo il recupero della cura, dell’ascolto, dell’affetto e dell’intuizione tipiche dell’emisfero celebrale destro-femminile possono condurci alla “piena realizzazione armonica dell’umanità” all’interno dell’ecosfera, che è l’obiettivo di fondo del progetto della decrescita.
6
Crovella ha la forma mentis dell’ultra conservatore, esalta spesso il “valore” del “chiudersi a riccio”, del limitarsi, del disciplinarsi, e del difendersi. Ed è questo che fa quando si trova ad avere a che fare con la complessità, con opinioni diverse dalle sue: si ritrae, si mette sulla difensiva. Dice: nel mio ambiente vincono le mie idee, non le vostre (e allora?).
È chiaro dunque che qui c’è un malinteso, nato dall’incapacità di affrontare qualcosa di diverso senza mettersi sulla difensiva, senza chiudersi a riccio: almeno, per quanto riguarda il lavoro, nessuno credo sostenga, qui, che sia sbagliato affermare che “il lavoro nobilita” (lavoro inteso come abilità, o esperienza), mentre è decisamente più discutibile affermare che “il senso del dovere nobilita”.
Ancor più discutibile è il richiamo, a supporto della propria affermazione, ad un autore come Primo Levi. In effetti i neo-fascisti fanno sempre così: in vita li perseguitano, dopo la morte manipolano vergognosamente le loro parole (si veda per esempio Pasolini, un caso eclatante). Crovella è neo-fascista o per meglio dire geronto-fascista e si conferma sempre tale.
a crove’, che fai… prendi d’acido? :o)
Ti rispondo con Placido Mastronzo ((che non sono io, prima che ti affretti ad insinuarlo), che ha perfettamente centrato il punto: “Scusa, Crovella, su quale pianeta avverrebbe questo?
Sul pianeta dove mi trovo, quando sul GognaBlog leggo qualcosa su cui sono in disaccordo (non “che mi infastidisce”), allora, se mi va, se ne ho voglia, se penso ne valga la pena, ecc. ecc. replico a chi l’ha scritto.”
Se scrivi in un luogo publico ti esponi, mica ho detto che non devi scrivere o intendo conculcare la tua libertà di espressione, quello che scrivi qualifica te non me (e neanche il gognablog, anche se talvolta lo rende particolarmente greve, temo suo malgrado).
ma talvolta, se ne ho voglia, se non ho di meglio da fare, se mi va, se lo ritengo utile, doveroso, piacevole o divertente dico la mia, specie su temi che mi sono cari.
Si chiama dialettica, confronto, riflessione, discussione, non fra le persone (di cui qui nulla si sa anche se tu abbondi in giudizi e incasellamenti, sempre a schiovere) ma fra le idee (e quindi non sempre ciò che si scrive è diretto all’altro), specie in una arena virtuale: comprendo siano per te concetti esoterici ma così va il mondo, all’esterno degli elitari circoli sabaudi.
Un merito però l’hai avuto, mi sono riletto ieri sera la chiave a stella. Stammi bene.
52 – Stavo scrivendo senza occhiali e con il trapano dei muratori nelle orecchie… Chiedo venia
L’intervento numero 53 di Crovella rivela ancor di più di che pasta sia fatto. E ribadisce che scrive solo per se stesso, non per “discutere” con gli altri. Chissà, magari riempiendo pagine e pagine di vocali e consonanti si sente tanto tanto importante… E comunque, ha perso il suo (finto) aplomb sabaudo ed è scaduto nell’insulto diretto. Che, probabilmente, è la sua vera e più profonda natura che deve però nascondere per l’apparenza… Ma a volte, ops, scappa…
“anche se le cose che espongo fossero oggettivamente sbagliate, me ne sbatterei e le scriverei lo stesso (tra l’latro ai sensi del’art 21 della Costituzione che tu tanto ami)… con te capita sempre così: che cazzo te ne frega se scrivo cose “oggettivamente” fondate oppure sbagliate?”
Beh, Crovella, non so bene a chi ti riferisci, ma mi pare che tu te la prenda un po’ troppo…
Se l’art. 21 vale per te, deve valere anche per gli altri e se qualcuno ritiene che quello che scrivi è sbagliato, falso o fuorviante o semplicemente da correggere non puoi sindacare!
“Non mi passa per la mente di scrivere per attaccar briga. Le polemiche che si innescano sono alimentate dagli interlocutori”
Per esempio questa affermazione non mi pare proprio vera.
Accipicchia, sei davvero di coccio: non arrivi a capire che non mi interessi per niente? io scrivo quello che mi passa per la mente, ovviamente sono arcisicuro che le cose che espongo abbiano fondamento e difatti nella mia usuale quotidianità trovano applicazione e suscitano condivisione se non approvazione. ma anche se le cose che espongo fossero oggettivamente sbagliate, me ne sbatterei e le scriverei lo stesso (tra l’latro ai sensi del’art 21 della Costituzione che tu tanto ami). Non mi passa per la mente di scrivere per attaccar briga. Le polemiche che si innescano sono alimentate dagli interlocutori. con te capita sempre così: che cazzo te ne frega se scrivo cose “oggettivamente” fondate oppure sbagliate? la prendi come se fosse un’offesa personale nei tuoi confronti (quando tu manco “esisti” per me) oppure un qualcosa che “sporca” il GognaBlog (cosa di cui, la limite, dovrebbe preoccuparsi gogna e non tu). Esponi la tua posizione, per carità, ma senza voler innescare sistematicamente una polemica ad personam. Ti ho già detto che è stra-evidente che apparteniamo a due “universi” che non hanno nulla in comune (tra l’altro Carmagnola non è la Torino che indico io). Inoltre abbiamo tragitti esistenziali completamente diversi e obbiettivi diametralmente opposti, se non addiritgtura conflittuali: tu “hawaiano” (?!?) e io profondamente istituzional-occidentalista (inevitabilmente “imperialista”). Ma come puoi pensare che ci “capiamo”? Non possiamo neppure capirci, figurati se arriveremo ma ad apprezzarci l’un l’altro. io non sono scandalizzato di ciò, personalmente non me ne importa un fico secco. per cui lascia perdere, tanto non m i convincerai mai, perché uno che ragiona come te, nel mio paradigma, è del definizione sempre dalla parte del torto (a 360 gradi). Quindi evita tutte ‘ste esternazioni da zitella inacidita e procedi per la tua vita. Che, qui, significa: scrivi le tue riflessioni (che io considero delle cazzate emerite) e lascia che io scriva le mie riflessioni, anche se tu le consideri delle cazzate emerite.
Per tale motivo, non solo non mi interfaccerò più con te, ma non perderò neppure un nanosecondo a legger cosa scrivi.
Grazie, MG, per lo spunto letterario!
Ho tanti libri in coda, ma troverà il suo posto e il suo tempo anche “Il sistema periodico”!
Oltretutto, Primo Levi si esprimeva con “parole diritte e chiare”.
Virtú rara.
@grazia beh almeno un merito lo abbiamo avuto ????
leggi anche il sistema periodico, se gia non lo hai letto. Levi è un autore straordinario
Avete accesso la mia curiosità a proposito de “La chiave a stella” e andrò a cercarlo in libreria!
Caro Luciano, i modelli proposti dall’articolo e da moltissimi autori e caldeggiati da milioni di umani come me, non prevedono la vita delle metropoli.
Quello offerto dalle città ti pare un modello ragionevole e prossimo alla vita?
vedi Crivella
che tu voglia sempre aver ragione è un problema tuo
che tu debba sempre fare capriole con tripli avvitamenti per piegare fatti parole e circostanze a tuo uso e consumo, anche dinanzi all’evidenza di lapalissiane verità che talvolta di vengono contestate è un altro problema tuo
che tu nondebba mai tirae mai fuori un argomento dialettico, rifacendoti sempre ai tuoi quaderni segreti, o ai circoli viziosi sabaudi dove vi capite solo fra di voi e tu se la Guest star, oppure alle materie di cui dimostri di non conoscere una acca ma che hai appreso per osmosi da tua figlia che le studia (il diritto, mi pare) o per contaminazione ambientale dai marciapiedi e i panifici che hanno frequentato tuoi vicini illustri (la letteratura), è un problema, francamente un pò ridicolo, ancora tuo.
Resta il fatto che la chiave a stella non è un libro sul lavoro che nobilita l’uomo nel senso che intendi tu, poiché il senso dell’articolo pubblicato sul blog è contro il sistema capitalistico e le sue forme di lavoro abbruttenti e schiavizzanti, che secondo Illich e dintorni andrebbero ri-umanizzate come tempi e modi e che affondano le radici proprio nelle fabbriche di cui la chiave a stella non da certo una visione positiva.
il libro di Levi va nella stessa direzione, vieppiù essendo stato scritto in un periodo in cui il lavoro in fabbrica era in piena espansione e in cui il protagonista preferisce un lavoro magari più faticoso e lontano ma di maggior soddisfazione e autonomia.
Questo se si vuol contestualizzare l’analisi rispetto all’articolo che si commenta. Se poi la tesi è “io dico quel che mi pare, che è giusto perché lo dico io e siete voi che non lo capite”, allora va bene il metodo Crovella.
Certamente norme, libri e quant’altro possono essere interpretati con molte sfumature ma il fornire invece un dato non corrispondente al vero significa invece non interprete ma semplicemente mostrare, come tu fai con frequenza impressionate, di non conoscere ciò di cui si sta parlando e di possedere una sicumera e una arroganza rare.
peraltro la stessa frase che tu citi, va in direzione opposta alla valenza nobilitante del lavoro come impegno etico tout court: “Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono”
a me pare un grido che si leva contro un lavoro abbruttente e da catena di montaggio, esaltando le esperienze di vita di FAussone che si nobilita attraverso il piacere di un lavoro che ama e che lo porta a vivere mille esperienze, scelto e vissuto con piena consapevolezza e autonomia (che non è distante dal tema dell’articolo).
Se non ti basta qui ci sono altre riflessioni nel stesso senso (ma magari non hanno annusato i vostri stessi farinacei, eh).
https://www.primolevi.it/it/chiave-stella
quindi sostenere che tutto si può interpretare e leggere come si vuole è semplice qualunquismo becero, quello che da anni spargi a piene mani in questo blog insieme alla tua stucchevole autorefenzialità.
Non si se possa interessare, ma giusto per chiudere la querelle su “La chiave a stella”, ieri sera sono andato a spulciare i miei quaderni di appunti del liceo (quaderni che conservo religiosamente) e, con riferimento a un seminario su Primo Levi, ho ritrovato proprio i concetti che qui ho esposto nel commento n. 15. Si vede al che D’Azeglio, specie sugli autori “di casa”, si elaborano interpretazioni molto personalizzate. Una querelle analoga, sempre con lo stesso commentatore, capitò tempo fa su Cesare Pavese, uno degli altri dazeglini illustri…
Non deve stupire l’esistenza di doppie interpretazioni su scrittori o addirittura su singoli testi. Infatti interpretazioni doppie, triple, quadruple ecc esistono per ogni risvolto della vita, dal voto alle canzoni di Sanremo ai testi sacri delle varie religioni fino alle leggi, che dovrebbero essere “oggettive” e invece sono soggette all’interpretazione dei giudici…
A prescindere da tutto ciò, che Torino sia la città del “rusco” non ci piove. almeno questo speriamo che non sia oggetto di “interpretazioni”…
41. Grazia, non ho o forse nemmeno esiste una soluzione a questo e altri problemi, soprattutto, ripeto per l’ennesima volta, in un pianeta popolato da 8 miliardi di individui, ognuno con le sue aspirazioni e necessità. È facile parlare di agricoltura biologica e di prossimità, ma prossima a cosa? Se il mondo fosse tutto come la mia Regione sarebbe già così, ma come fornisci cibo x i 30 milioni di abitanti delle metropoli citate senza un’agricoltura di tipo industriale o allevamenti intensivi?
Leggere testi che idealizzano un mondo utopico quando non riusciamo ancora a smarcarci dalla necessità di interloquire a mezzo carri armati e bombardamenti aerei, mi fa supporre quanto già scritto nel mio intervento precedente, cioè trattasi di fuffa.
Se non riusciamo a fare questo, figurati il resto, Grazia, parole al vento.
Mi chiedo se ci sia un modo per limitare il numero di battute di ogni commento…
E’ vero: mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa! trattasi di verbo latino e non greco. Qui scrivo con la mano sinistra, mentre faccio mille cose, qualche imprecisione scappa fisiologicamente.
Ma che vi frega se scrivo cazzate? Ovviamente io non le considera tali (anzi sono le cose che dico abitualmente nella mia vita), ma provocatoriamente partiamo da quel presupposto. le cose che scrivo sono cazzate. Lene: lasciate che ciascuno scriva le sue. A me le vostre, spesso, mi paiono delle minchiate da sottosviluppati… (non faccio riferimento su questo specifica sequenza di interventi, ma in generale), a tal punto che stento a credere che al mondo esistano soggetti adulti che pensavo cose del genere. Se invece mi guardo in giro fra i miei usuali conoscenti e amici, più o meno pensiamo tutti le cose che penso io (e che ripropongo qui). Si vede che, nel mondo in cui vivo io, all’incirca le cose le pensiamo nello stesso modo. Spesso i mie conoscenti, che, se appassionati di montagna, leggono abbastanza regolarmente gli articoli del GognaBlog, mi prendono in giro per il tempo che, secondo loro, “spreco” a scambi di idee con persone che tanto non comprendono, perché questi ultimi vivono in un’impostazione diametralmente opposta. “E’ come dare il bucun ai crin”, mi dicono sempre…
E’ ormai assodato, come ho già detto, che apparteniamo a modelli completamente opposti. Il nostro rispettivo paradigma, come oggi si chiama, prevede modalità di ragionamento che sono incompatibili. E’ inutile spaccare il capello in quattro, questo è il tutto.
Per fortuna che sta prendendo piede il gruppo (informale) di lavoro che, con alcuni amici, abbiamo creato per “divertirci” a ragionare su come si potrebbe riscrivere la Costituzione, aggiornandola ai tempi e soprattutto inserendoci quei principi che in cui noi ci riconosciamo. Il “lavoro” che stiamo facendo (per interesse culturale) è molto divertente, mi prende molto e questo mi distoglierà dal perdere tempo con interlocutori che ragionano secondo modalità incompatibili con il “mondo” cui appartengo.
Caro Luciano, le colture estensive che hai menzionato non sono certo a sostegno delle famiglie che vi lavorano. Forse sarebbe utile andare a vedere in che condizioni vivono, visto che il raccolto va al comparto dell’industria (anche allevamenti intensivi).
Grazie a MG per aver ricordato i temi della conversazione: mi sono distratta un attimo e, addirittura, si discute il curriculum scolastico di Crovella? (Qui ci vorrebbero le faccina con gli occhi sgranati e quella che ride con le lacrime!)
“[…] ben prima di saper coniugare il verbo greco ‘fero, fers, tuli, latum, ferre’.”
Carlo, scusa la mia ignoranza (non ho studiato nel tuo prestigioso liceo), ma quel verbo non è latino?
P.S. E qui – mannaggia! – mi servirebbero le faccine sghignazzanti.
Come disse quel tale imperatore romano (piú o meno; in latino e non in greco): “Sandro, Sandro! Rendimi le mie faccine!”.
” Siate però coerenti. Se ognuno può esprimere le proprie idee, lasciate spazio a idee per noi incomprensibili.”
immagino appartenga al genus delle idee incomprensibili anche la tesi che il verbo ferre sia greco, che i termini ebreo e fascista siano entità omogenee e comparabili, che la chiave a stella parli del lavoro che nobilita l’uomo (idea analoga potrebbe essere sostenere che il gattopardo narri le gesta di un velista atlantico solitario), che i primi dodici articoli della costituzione contengano norme giuridiche e non principi fondamentali, e via discorrendo …
dalla stessa via di segnalo che Marco Belpoliti e Carole Angier che hanno scritto due bellissimi libri su primo levi sono l’uno di reggio emilia, e l’altra londinese, temo non abbiano mai frequentato il fono di rpimo levi e neanche annusato lo stesso humus. come diavolo avranno fatto?
fra una pietra a l’altra magari argomentaci in maniera altrettanto oggettiva queste tue tesi anomale, che così impariamo qualcosa.
devo dire che talvolta sfoci nell’umorismo 😀
“se vengono anche dette delle cose oggettivamente errate (che siano su Primo Levi, sulla Costituzione, sull’anarchia ecc ecc ecc), ma che cappero ve ne importa a voi?”
Credo che solo il pensare questa domanda squalifichi chi la pone e la sua mentalità.
“ben prima di saper coniugare il verbo greco “fero, fers, tuli, latum, ferre””
Certo che tu al d’Azeglio dovevi essere tra i primi…
e comunque, more solito, sei riuscito ammantare in malora anche la discussione su un tema interessante.
Si parlava di Illich, LAtouche e Bauman.
Per coloro che fanno commenti sarcastici, un consiglio: leggeteli.
Si può non essere d’accordo, ma la loro visione non è eprevnmire ad una utopia dove tutti si campi felici senza lavorare, ma uscire da una logica disp.att. cod.civ. sfruttamento e di lavoro sfigurante per buona parte dell’umanità, ridotta a produrre per consumare e arricchire pochi, tagliata e slegata dalle radici, condizionata a vivere secondo modelli innaturale. disumani destinati a implodere
Su quello sarebbe utile confrontarsi. Non sulla panetteria di primo levi.
Il recupero di modalità più a misura d’uomo e sintonia con il territorio che si sono dimostrate sostenibili per millenni potrebbe essere una punto di riflessione iniziale.
Aborigeni, indiani, hawaiani (ovvero tutte quelle realtà extra rpofiutto che hanno vissuto in pace con se stessi e con la terra per secoli) ma forse anche contadini tirolesi o sardi insegnano…
Scusa, Crovella, su quale pianeta avverrebbe questo?
Sul pianeta dove mi trovo, quando sul GognaBlog leggo qualcosa su cui sono in disaccordo (non “che mi infastidisce”), allora, se mi va, se ne ho voglia, se penso ne valga la pena, ecc. ecc. replico a chi l’ha scritto.
Cosa c’entra Gogna?!?
Vedi Crovella, lo scrivo un’altra volta per divertimento, poi goditi pure le tue filippiche che, credo, siano il miglior biglietto da visita di te stesso.
io ho studiato nella stessa università di CAlamandrei e ho abitato per un decennio a 100 metri dal primo presidente della cassazione e ho comprato il pane nello stesso forno di Satta, con ciò non credo di aver assorbito per osmosi ne la loro visione del diritto, né di comprendere meglio di altri la loro opera solo perché frequentavamo lo stesso panettiere o calpestavamo lo stesso marciapiede.
E’ imbarazzante anche doverlo scrivere.
Secondo. non sono affatto di sinistra, ne sono intransigente, ne me ne frega nulla della pulizia o sporcizia del gogna blog.
Costituisce tuttavia normale dialettica, semel in anno, perché scrivi una messe di cazzate assolutiste (della serie io sono io e non siete un …. è il marchese del grillo, poco sabaudo ma talvolta straordinariamente crovelliano) e totalitarie che uno dovrebbe perdere due ore al giorno per ribattere, ma in ciò seguo le teorie di Eco.
Terzo, ho vissuto e ho legami con Torino più di quello che tu immagini, leggo e studio primo levi da oltre 40 anni e mi ha semplicemente dato fastidio trovarlo citato a schiovere (un bel libro di erri di luca, che non ti consiglio) e ho puntualizzato.
Non è il problema di veicolare idee diverse, quello è l’essenza del confronto.
Il problema è veicolare le proprie come le uniche fondate e ad ogni confronto porsi sul piedistallo dando degli idioti agli altri e autoproclamandosi eletto, è il dividere la discussione in io e Voi, è il prosi sempre delegittimando l’interlocutore con l’appartenza a mondi diversi.
Lo scrivo per la cronaca, eh: che immagino sia concetto che ti rimanga oscuro o che appartenga a noi sinistri o ai poveri oriundi che non calpestano marciapiedi nobili, mangiano pane non torinese e o non studiano nello stesso liceo di pavese levi agnelli e ginzburg.
Ma talvolta, per caso, hai mai sentito parlare di sprezzo del ridicolo? :o)
Breve excursus metodologico, opportuno perché il dibattito è andato in questa direzione, anche se le sottostanti considerazioni non sono attinenti al teme “lavoro” cui è riferito l’articolo in questione.
Ribadisco che molti commentatori sono convinti di realtà “oggettive” che invece non lo sono in quanto tali, o forse lo sono in un “loro” modello esistenziale. Ma quando arrivano contributi da soggetti che appartengono ad altri modelli, tali commentatori si inalberano e partono con accuse di ignoranza, grettezza e imbecillità, senza nemmeno prosi il problema se le loro (dei suddetti commentatori) convinzioni siano davvero “oggettive” in assoluto, come loro credono, magari anche in buona fede.
Non mi metto a smontare pezzo per pezzo certe argomentazioni. Non avrei timore a farlo, ma sarebbe solo una perdita di tempo. Mi limito a segnalare che, per casualità della vita (=competenza territoriale dell’istituto scolastico) ho frequentato lo stesso liceo di Primo Levi (il D’Azeglio). Ovviamente apparteniamo a due generazioni molto diverse sul piano anagrafico, ma il D’Azeglio vanta un palmares di ex allievi di tutto rispetto, da Cesare Pavese a Norberto Bobbio, da Massimo Mila (poi accademico del CAI) a un giovane Gianni Agnelli (noto per le sue birichinate giovanili, non certo per meriti cultural-letterari). Mi fermo qui, ma potrei riempire pagine e pagine con l’elenco di tale personaggi (tra l’altro, annotazione collaterale, molti di questi personaggi di rilievo sono ebrei, cito per esempio Leone Ginzburg, il che spiega anche un certa familiarità con la relativa cultura anche per quegli studenti che non sono di sangue ebraico…).
Quando entri al D’Azeglio, come studente, ti martellano in testa, fin dal primo giorno, sui predetti personaggi, attraverso seminari, eventi, approfondimenti, assegnazione di tesine e, a volte, perfino organizzazione di rappresentazioni teatrali, con gli studenti come registi/attori/sceneggiatori (modalità molto utile per imparare in profondità i testi su cui stai lavorando). Insomma, al D’Azeglio, impari su Primo Levi, Cesare Pavese ecc ecc ecc ben prima di saper coniugare il verbo greco “fero, fers, tuli, latum, ferre”. Il che è tutto dire. Tutto ciò ad opera di insegnanti che, o nei decenni scorsi (quando frequentavo io) o anche al giorno d’oggi, sono molto quotati nel campo culturale ed editoriale. Per cui le cose che so su questi personaggi, in particolare sugli scrittori, al D’Azeglio vengono dispensate a piene mani nella quotidianità della vita scolastica e sono assorbite da tutti gli studenti che frequentano tale liceo. O i nostri insegnanti sono tutti dei cretini ignoranti o, forse, certe altre idee, forgiate ben lontane dal suddetto contesto, non sono adeguatamente fondate. Mi ricordo bene che ci fu (con lo stesso commentatore) un analogo episodio, cioè di divergenze su temi editoriali, quella volta inerente a Cesare Pavese (anch’egli, come detto, dazeglino di rilievo), quindi non è casuale questa visione antitetica. Io la faccio derivare dal fatto che apparteniamo a due universi completamente diversi, forse addirittura opposti e conflittuali.
Lo stesso, per estensione, potrebbe coinvolgere tutto il resto dei punti. Per esempio, sempre per la casualità della vita, ho abitato per decenni a pochi isolati da Primo Levi (inoltre, aggiungo che i suoi figli hanno frequentato il citato liceo più o meno nei miei anni). Non sto sostenendo che incontrarlo per strada o in panetteria fosse un elemento per conoscere più profondamente le sue opere, ma certamente è molto più probabile che, con tale vicinanza anche nella spicciola quotidianità, tutti noi apparteniamo allo stesso humus culturale e letterario (evidentemente su livelli letterali ben diversi). Mi riesce strano credere ciecamente che possa “conoscere” uno qualsiasi di tali personaggi chi è vissuto (per la casualità della vita, non per “colpa” sua) lontano da tale con testo, mentre non capisca proprio nulla di tutto ciò chi (sempre per casualità della vita e quindi non per “merito” suo) è nato e cresciuto immerso nello stesso contesto ideologico-culturale dei personaggi di spicco. abbiamo respirato la stessa aria: i codici di ragionamento sono molto simili, per non dire uguali, pur appartenendo a fasce generazionali molto diverse o addirittura a etnie diverse (a Torino questo particolare conta poco: negli ebrei sabaudi, per come li conosco io – e ne conosco abbastanza, sia per lavoro che per gite in montagna – emerge più la sabaudità che i connotati culturali ebraici, forse perché la sabaudità è, di per sé, molto intrisa di elementi ebraici, chissà…)
Ma il punto metodologico è ancora un altro e coinvolge diversi lettori, al di là dei tecnicismi in ballo oggi. A me capita di leggere, nei più diversi commenti, certe “cazzate” che resto esterrefatto a immaginare che individui adulti possano pensare cose così. A volte segnalo queste infondatezze, certo, ma il più delle volte lascio correre, in nome della pluralità di espressione. Tuttavia mi accorgo, in questo sito web come in molti altri contesti della vita, che i più intransigenti censori delle idee altrui sono normalmente personaggi che rientrano nella grande famiglia ideologica della sinistra, quella che fa del “pluralismo” e della massima “libertà di espressione individuale” uno dei suoi cardini ideologici. In pratica quando una affermazione non piace, si parte all’attacco delle sue fondamenta, cercando di dimostrarne l’errata natura e dando dell’ignorante a chi la sostiene. Ecco perché si attacca il dissenso con accuse di ignoranza e imbecillità. Non che mi faccia un baffo tutto ciò. Ho sfidato le pietre in faccia, sia in piazza (anni ’70) che in montagna, non me la faccio sotto solo per alcune “cazzate” che leggo qua e là. Siate però coerenti. Se ognuno può esprimere le proprie idee, lasciate spazio a idee per noi incomprensibili.
Infine: se vengono anche dette delle cose oggettivamente errate (che siano su Primo Levi, sulla Costituzione, sull’anarchia ecc ecc ecc), ma che cappero ve ne importa a voi? Vi inalberate come se questi (peraltro PRESUNTI) errori sporcassero il GognaBlog, ma non siete voi le “vestali” preposte a ciò. E’ in questa vostra pretesa che si annida l’errore saliente di tutta questa situazione e anche il risvolto che irrita maggiormente. Alla tutela del GognaBlog, ci pensa Alessandro che sta ben attento a come si evolve il dibattito e quando è in dissenso con me, sappiate che non esita a intervenire, sia con tagli che attraverso un dialogo fra noi, conseguente a una certa confidenza che si è costruita negli anni. Per il resto, limitatevi a esporre le vostre idee e siate pure convinti della fondatezza delle vostre idee, ma non dimenticate che esse appartengono ad un “modello” socio-culturale che non è l’unico esistente. Per cui esponenti di “altri” modelli hanno idee e convinzioni diverse, se non addirittura opposte e conflittuali. E’ questo che irrita fortemente molti di voi, cioè che abbiano dignità di esposizione anche le idee che voi combattete magari da tutta una vita. Vi infastidisce che il GognaBlog possa ospitare prese di posizioni molto diverse dalla presunta linea editoriale che, secondo alcuni di voi (non pochi però), dovrebbe avere questo Blog sul piano ideologico. su questo punto, dovete chiarirvi una volta per tutte con Gogna, altrimenti fra qualche mese questo identico problema risalterà fuori.
La mia sensazione è che questi guru siano ben consci che le loro proposte sono irrealizzabili, ma fa figo parlarne ed essere al centro dell’attenzione. Chi dà da mangiare e da bere tutti i giorni a 8 miliardi di individui?
Un suggerimento per loro ce l’avrei anch’io: si facessero un giro in qualche città tipo Shanghai, Chongqing o Dehli a spiegare che dobbiamo “Riconvertire le attività produttive come l’agricoltura industriale (fonte di cancro, intossicazioni e inquinamento) in agricoltura biologica e di prossimità”
o altre teorie utili solo per sterili discussioni sui blog.
Leggendo altre amenità tipo
“con l’eliminazione di bisogni inutili (turismo, moda, trasporti, industria automobilistica, aereonautica, dell’agribusiness, delle biotecnologie”
oppure
“una società in cui le attività senza fine economico, pubbliche e private, sociali e personali, saranno prevalenti”
mi viene il sospetto che questi profeti vivano nella bambagia e non siano mai “usciti” nel mondo reale. Ormai siamo fuori tempo massimo per queste proposte e soprattutto siamo in troppi (e saremo sempre di più) per pensare di invertire l’andazzo.
Sono d’accordo con Guido.
Sorvolo sulle idee di Crovella.
Il lavoro, in quanto fioritura dei propri talenti, certamente nobilita gli umani, lo sfruttamento no ed è proprio uno dei fondamenti della società attuale.
Nella mia giornata ci sono normalmente molte ore di lavoro, che vanno dal governo della casa a quello della legna, da quello di tutte le essenze esistenti tra giardino e bosco e quelle piantate, il tempo trascorso secondo la formula del mutuo aiuto (oggi lavoro per te, un’altra volta tu per me), quello facendo qualcosa in cambio di qualcos’altro, le escursioni in montagna con gli ospiti, quelle per i sopralluoghi o per scrivere articoli, le serate di divulgazione della guida pubblicata o il tempo dedicato alla formazione o la lettura degli articoli del blog. E la lista non è ancor conclusa!
Ma in nessuna di queste attività io sento d’essere sfruttata ed è ciò che mi ero ripromessa quando ho lasciato la vita milanese.
@29
nel mio precedente commento ho già’ risposto. Un conto è’ lavorare il giusto e così dare lavoro anche ad altri. Questo è’ un tema concreto di cui discutere. Un altro conto è’ teorizzare la decrescita incontrollata con obiettivo eliminare il lavoro. E mi sembra che questo sia il tono dell’articolo.
@27: certo che il lavoro c’è sempre stato (“ti guadagnerai il pane con il sudore della fronte…”). Solo, si stima che nelle società preistoriche si lavorasse 15 ore alla settimana, adesso c’è chi lavora 15 ore al giorno! (oppure 40-50 alla settimana, tre volte tanto). Siamo nati per questo? È nella nostra fisiologia? È questa la domanda.
grazie
M
Devo dire che sono arrivato in fondo all’articolo con fatica. “ il lavoro come l’economia sono invenzioni della modernità’”: ma dove?
Il lavoro esiste da millenni, come gli strumenti e i modi di scambio ( moneta, baratto). Quindi l’uomo è’ stato così cretino da millenni ( quindi non da quando è’ iniziato il capitalismo) per non capire che aveva a portata di mano la possibilità’ di non lavorare ( ed al contempo di avere però’ tutto quello che serve per una vita dignitosa e serena) e se l’è’ lasciata sfuggire! Che sciocco….. meno male che adesso dopo millenni arrivano questi filosofi sociologi ed economisti che ci spiegano come fare.
Lavorare meno per fare lavorare anche altri e’ un conto. Significa avere per un imprenditore il senso del guadagno e della redistribuzione e questo, purtroppo o per fortuna, non si decide per legge. Anche se lo stato certo può indurre comportamenti virtuosi (detassazione di determinate voci retributive, detassazione di nuove assunzioni ecc.).
Per quanto all’ambito traguardo di NON lavorare, quando ci saremo arrivati, molto probabilmente avremo più tempo libero ma forse non ci saranno più le corde, i moschettoni, le ecografie, gli occhiali da vista. Vai tu a scalare se non ci vedi bene….
#24 per MG, aggiornamento. In effetti c’era in sospeso un tuo commento. L’ho visto solo adesso e l’ho passato. Questo è successo perché nel commento erano presenti due link che evidentemente non piacevano al sistema. Succede.
#24 mg. Nessun commento relativo questo articolo è stato cancellato. Anzi nessun commento è stato cancellato nella giornata odierna.
Interessante che commenti che non hanno nulla di offensivo e contengono critiche argomentate vengano sistematicamente cancellati e invece gli sproloqui quotidiani di taluni restino intonsi
Il concetto di anarchia è oggettivo (basta cercare su eikipedia)
il contenuto de “la chiave a stella” è oggettivo, basta leggerlo
la portata dell’opera di primo levi è oggettiva, basta leggerla e, se si vuol approfondire, un po di critica (fra i tanti https://www.ibs.it/primo-levi-di-fronte-di-libro-marco-belpoliti/e/9788860884459?lgw_code=1122-B9788860884459&gad_source=1&gclid=CjwKCAiAq4KuBhA6EiwArMAw1PbDJpuMZIKAzWhwFfbSct7Axw0_zcxSiBkdG10-VJr4aAUiwyAVkhoCiW0QAvD_BwE)
l’eterogenita dei termini fascista ed ebreo è oggettiva.
troppo comodo scrivere file di sciocchezze e piegare tutto a uso e consumo dimostrando profonda ignoranza dei temi affrontati e poi cavarsela con nel mondo che io frequento piaccio.
direi puerile.
peraltro nessuno censura, semplicemente talvolta si sottolinea- per sport, perche il soggetto è talmente naif che non lo meriterebbe – la assoluta vacuita delle affermazioni di uno che si propone sempre come un tuttologo
Già, chissà perché…
Evidentemente viviamo in due mondi completamente diversi.
Sono decenni che dico le cose che scrivo e suscito solo approvazione. Mi sa che sei tu che vivi “fuori”. Ma è irrilevante chiarirlo. In ogni caso, si vede che io sono banale, gretto e meschino e quindi i concetti in cui mi dibatto sono banali, gretti e meschini. Ognuno esprime ciò che ha dentro. Si vede che quella è la mia realtà e trova approvazione solo nel contesto da cui provengo (compresi i convegni letterari su Primo Levi!).
Chissà perché sono proprio i sostenitori a spada tratta della assoluta libertà di espressione che, spesso, si rivelano dei censori integerrimi…
citare “la chiave a stella” come libro che veicola il lavoro quale mezzo nobilitante significa o non averlo letto o non averlo capito, è un libro sull’uomo e sul riscatto dal lavoro opprimente veicolato – per l’appunto – dalla società capitalista.
Definire levi un ebreo e dunque non un fascista significa non essere in grado di governare ne i concetti ne le parole.
Arruelare primo levi (pensatore e scrittore di rara sensibilità, sottigliezza e poeticità) nelle schiere dei sabuidi operosi e tutti di un pezzo significa compiere un arbitrio, prima ancora che non conoscerne l’opera e la vita (o semplicemente non averle comprese.
Continuano con le banalizzazioni, a carrettate.
I primi articoli della costituzione non contengono norme giuridiche ma principci generali, significa anche qui, non aver mai sfogliato non dico un volume di costituzionale ma neanche uno di educazione civica.
Sostenere poi che i popoli nordici hanno o anglosassoni hanno il senso del dovere innato e dunque non hanno necessità di testi mentre i caproni latini si, significa ignorare radicalmente la differenza fra sistemi di common law e il nostro (e sulla eticità di quei popoli potremmo discuterne a lungo).
in ultimo, anarchia=ognuno fa quel che vuole è vulgata da barber shop, in filosofia è l’esatto contrario.
Avanti così che, di banalizzazione in castroneria, arriverà sera…
Almeno primo levi, però, lasciamolo stare.
@18: sul fatto che le donne salveranno il mondo ho molti dubbi. Quando arrivano al potere (sgomitando il doppio per superare gap e pregiudizi) non sono poi molto diverse (vedi Thatcher o tante sindache…)
Il fine ultimo dell’uomo è sempre stato il superamento della morte, la sopravvivenza a questa suo limite e paura ancestrale. La morte è una sottrazione del tempo e purtroppo, per poter vivere al meglio la sua vita e darle un senso, si è “rinchiuso” in un processo di lavoro-gratificazione. Indi per cui, nel bene e nel male (come si sta analizzando in alcuni commenti), il lavoro si pone come un ulteriore sottrattore di tempo, libertà e felicità. Ora, tutto ciò che lo smuove -dalla rivoluzione industriale in poi- è una sostituzione delle proprie fatiche, delegando il più possibile ad altro/i le proprie fatiche. In realtà ancora prima della rivoluzione industriale se inseriamo nello stesso parametro anche la schiavitù.
Nel momento in cui riuscirà in questa sua impresa potrà tornare a filosofeggiare sui massimi sistemi del mondo, come si sta facendo già qui ritagliandoci dei minuti di tempo libero per argomentare. A che prezzo è la domanda, ma la risposta tutto sommato ha sempre giustificato i mezzi. Probabilmente, anche per strade diverse, si arriverà alla decrescita analizzata e all’abolizione del lavoro.
Il femminile poi sostituirà il maschile riprendendo in mano un mondo alla deriva e portandolo verso una direzione più giusta? Possibile, me lo auguro anche, ma ho il sospetto che lo farà solo a lavoro chiuso e ultimato. Forse troppo tardi, forse no (si spera).
Il nostro giudizio rimarrà comunque sempre troppo stretto nella finestra di osservazione temporale personale, che non coprirà mai la vita evolutiva e dei grandi cambiamenti. Nella nostra limitazione quindi sarebbe meglio giudicare meno e fare di più?
@15: sul tema, suggerisco “Scarcity. Perché avere poco significa tanto” di Sendhil Mullainathan – Eldar Shafir (Saggiatore), che mostra bene il rapporto fra la scarsezza di lavoro e di risorse e la sudditanza
@15: certo, la società capitalista gioca invece sul binomio potere/irrilevanza: il lavoro è assente o precario non perché non ci sia, ma per toglierti la dignità e quindi il potere. Non è quindi una questione etica, ma politica
Di fatti, ho già detto che il senso del dovere e la conseguente necessità o meno di un quadro scritto (=Costituzione) che regoli i comportamenti fra cittadini costituiscono una questione di educazione socio-culturale e non di tecnicismo giuridico. Però, sta di fatto che, nella tradizione italiana, questa caratteristica è molto flebile se non addirittura assente e allora occorre supplire con un testo giuridico.
Per quanto riguarda il principio dell’etica del lavoro, richiamo l’interessante romanzo “La chiave a stella” (1978) di Primo Levi, che, in quanto ebreo non è stato sicuramente un fascista, ma altrettanto sicuramente era un profondo “sabaudo” e ha ben interpretato questo “valore” (=l’etica del lavoro) che, qui da noi, è trasversale agli schieramenti politici.
Da commenti al romanzo ,traggo una sola frase, utile sul tema del giorno: “Il lavoro in questo romanzo è un attributo positivo per l’uomo: l’uomo che fa, che agisce, realizza se stesso ed è con il lavoro che si nobilita anche nella sua parte spirituale. Faussone (il protagonista, NdR), uomo del fare, dimostra, raccontando al narratore, una profonda conoscenza degli uomini e una grande intelligenza riflessiva.”
Così scrive Levi nel romanzo: «Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono.»
Per cui confermo che sarebbe meglio far lavorare TUTTI, non per far guadagnare tutti, ma per far affinare in tutti, tramite l’etica del lavoro, il senso del dovere, cioè il senso di responsabilità individuale (che in Italia è purtroppo quasi assente, almeno rispetto all’Europa del nord e al mondo anglosassone).
@1: ricordo in proposito l’ opinione di Carlo Cattaneo sui costituzionalisti (allora di gran moda): l’ importante non è quello che scrivi nella costituzione, l’ importante sono i rapporti e le azioni delle forze sociali (la costituzione reale insomma, non la costituzione formale). Il senso del dovere anglosassone non proviene dalla loro costituzione (che non hanno) ma dalla loro storia, dalla cultura, dalla società.
Sulla decrescita: anche negli anni ’70 se ne parlava (e quindi da almeno cinquant’anni, ma ricordo anche un Diritto all’ ozio del genero di Marx…). Eppure siamo andati in direzione opposta. E continueremo a farlo, mi sa…
“L’idea che hai tu della democrazia (=ognuno fa quello che gli pare), io la considero anarchia. “
D’altra parte essendo tu strutturalmente incapace di ascoltare e comprendere idee e opinioni che differiscono dalle tue quello che tu consideri è semplicemnte sbagliato.
@9
Crovella, mi dispiace dirtelo, ma la tua idea di anarchia (“=ognuno fa quello che gli pare“), che coincide con quella della vulgata, è affatto errata.
Questo non è vero. Perché le minoranze hanno di diritto di essere rispettate, e hanno il diritto/dovere di denunciare le malefatte della maggioranza. Altrimenti non si potrebbe parlare di democrazia.
Non parlare sempre da fascista.
Ho letto un articolo interessante, pieno di ottimi spunti di riflessione portati da grandi pensatori e sociologi a cavallo di questi due secoli, per poi ritrovarmi nei commenti la solita piccola Italia dei convintissimi saccenti con i paraocchi. La solita Italia unita sulla carta, ferma nei secoli dei secoli. Amen.
L’idea che hai tu della democrazia (=ognuno fa quello che gli pare), io la considero anarchia. La democrazia è un’altra cosa: è un insieme di regole che consentono alle decisioni maggiormente condivise di affermarsi (significa che c’è una maggioranza che vince e, dall’altra, una minoranza che perde e subisce la volontà della maggioranza, non che ciascuno fa quello che ritiene più adeguato).
In ogni caso se i cittadini fossero tutti responsabili, maturi e consapevoli, non ci sarebbe bisogno di imposizioni: saprebbero autoregolarsi da soli. Così capita nelle democrazie evolute che sono quelle nordiche e anglosassoni 8ovviamente mele marce ci sono ovunque). Il guaio è che, nelle società cattoliche dell’Europa meridionale, il senso di autoregolazione individuale praticamente non esiste e questo porta a considerare “democrazia” ciò che è invece “anarchia”. Tutto ciò, paradossalmente, alimenta il rischio (in certe condizioni) di inasprimenti impositivi e, al limite, di dittature e non viceversa.
Carlo, evidentemente abbiamo concezioni differenti della democrazia, dei diritti, della libertà.
Per esempio – volendo considerare un caso recente – giudico di stampo totalitario il fatto che un presidente del Consiglio dei Ministri, col permesso del presidente della Repubblica (garante della Costituzione!), abbia governato tramite DPCM (Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri), che NON sono contemplati dalla Costituzione! Uno di questi serví addirittura per sospendere dal lavoro e dalla vita sociale i cittadini non vaccinati.
A me ha ricordato il modo di operare del regime fascista, quando nel 1926 deliberò la decadenza dei parlamentari dell’Aventino.
… … …
Evidentemente il concetto di democrazia è mobile, qual piuma al vento.
D’altra parte, anche i totalitarismi comunisti hanno sempre avuto l’incredibile impudenza di dichiararsi “democrazie popolari”. E i gonzi abboccano. E gli ignoranti abboccano.
Cosí va il mondo.
Un conto è “ordinare”, un altro concretizzare delle politiche tali da convogliare la società in certe direzioni. Gli anglosassoni usano l’espressione “moral suasion”.
Cmq i mie ragionamenti stanno ancora a monte delle mosse dei governanti.
E’ una questione di educazione ricevuta. Torino è la città del rusco (ruschè=lavorare con fatica) perché ti forgiano così fin dalla culla. Lavorare per costruire e poi affinare il senso del dovere individuale. A prescindere dalla tipologia di lavoro che fai (fabbrica/scrivania) e soprattutto dal guadagno che porti a casa. Ovviamente sto parlando della Torino a cui appartengo, quella che io chiamo, per convenzione, la Torino sabauda. Non a caso c’è un fondo di calvinismo nella tradizione sabauda. E neanche tanto un piccolo, questo fondo di calvinismo: Ginevra, città di Calvino, faceva parte del Ducato di Savoia, quindi c’era molta osmosi di idee… I valdesi, che non scherzano sul tema, sono stanziati nelle valli torinesi e in città, a pochi isolati da me, c’è il loro tempio, con un’alacre comunità. Per cui anche i sabaudi formalmente cattolici, come il sottoscritto, hanno in realtà una forma mentis da protestanti. Da noi il concetto, tipicamente cattolico, del “pecco e poi mi perdono” non esiste proprio. Devi imparare a non sbagliare, attraverso la dirittura morale, che affini in mille modi, di cui certamente l’applicazione quotidiana al lavoro è il più rilevante. Ecco perché tale mentalità farebbe bene agli italiani che, normalmente, sono abituati che… “tanto c’è il perdono che monda tutto…”
Probabilmente se non nasci in un contesto del genere, i concetti appaiono incomprensibili.
@1 ci auguriamo tutti con grande preoccupazione che la Costituzione resti come è e che, in caso contrario, le modifiche non spettino a sabaudi che evidentemente ignorano i principi base sulle formulazioni delle norme e i principi giuridici e culturali sottesi.
quanto al commento, more solito, si usa la qualunque per veicolare le proprie “idee” che, nel 99% dei casi, non c’entrano nulla con ciò che è espresso nel pezzo.
Latouche e illich non si riferiscono affatto ad una vita più spartana, ma ad una società fondata su parametri filosofici diversi da quelli del capitalismo che recuperi l’uomo quale centro e non quale produttore/consumatore.
La teoria poi della redistribuzione del lavoro è straordinaria. Una scemenza di categoria colossale (che ignora il meccanismo perverso su cui si fonda tutta la società capitalistica) e uno slogan banalotto.
Se questi sono i nuovi padri costituenti… forse è meglio essere orfani.
E’ evidente che vi è un problema di ego e protagonismo imbarazzanti e inversamente proporzionali agli argomenti che si hanno a disposizione e alla capacità di spenderli, ma che si debba anche negli articoli più interessanti leggere sempre le solite tre tiritere banalizzanti è veramente avvilente.
“Chi lavora mangia. Chi non lavora non mangia.”
Questa era la regola in Unione Sovietica e negli altri Paesi comunisti; beninteso, regola da applicarsi solo alla popolazione e non alla nomenklatura.
… … …
L’etica è una cosa, il diritto è un’altra.
Anch’io sarei tentato di obbligare al lavoro, in un campo di rieducazione, moltitudini di figuri spregevoli che avvelenano la società. Ma non posso.
Non posso proprio perché viviamo in democrazia, non in Cina ai tempi di Mao.
Tutta la civiltà industriale è condannata perché è incompatibile con il funzionamento (o la Vita) del Sistema Biologico Terrestre di cui comunque fa parte. Con la sua fine, dovrà andarsene anche l’attuale idea di “lavoro”. Quindi Latouche e Gloria Germani hanno perfettamente ragione. I popoli nativi non “lavoravano” certamente più di 3-4 ore al giorno e sono vissuti per molte migliaia di anni nella Natura. Naturalmente non possiamo dimenticare che 8 miliardi di esemplari di un Primate di 70 Kg che pretende anche di mangiare carne non possono stare sulla Terra, se non per tempi brevissimi, e disarticolando i cicli vitali del Complesso.
Per quanto riguarda il primo articolo della Costituzione, non sarebbe male “L’Italia è una Repubblica fondata sul Mondo Naturale”.
Sbagliato. E’ addirittura vero il contrario.
Innanzi tutto chiarisco che per “senso del dovere” NON intendo una cieca ubbidienza a ordini superiori, ma autodisciplina di soggetti maturi, responsabili e consapevoli. E’ il senso di responsabilità individuale tipico dei luterani e degli anglo sassoni.
Individui con tali caratteristiche sono cittadini molto più consapevoli e maturi dei frignoni che reclamano i diritti. Proprio per questo motivo garantiscono maggior tasso di democrazia alla società, rispetto alla platea di sbagasciati (= cannibali) che oggi purtroppo registriamo, non sono in occidente, ma nel mondo intero.
Non è il lavoro l’unico modo per acquisire e coltivare quotidianamente il senso di autodisciplina, ma certo è uno dei canali principali a tal scopo. Fare “bene” il proprio lavoro non per guadagno ma per senso del dovere, ti forgia come poche altre cose nella vita. Ecco perché il lavoro e il conseguente senso del dovere sono la base di una democrazia sana e solida.
Articolo 1 della Costituzione: “L’Italia è una repubblica democratica”. E basta.
Qui c’è già il discrimine tra democrazia e totalitarismo, ed è ciò che conta prima di tutto.
P.S. In una democrazia il cittadino può lavorare oppure, se ne ha le possibilità economiche, passare la vita a grattarsi la pancia.
Come tutti sanno, io sono un acceso sostenitore della decrescita felice, intesa come smussamento degli eccessi capitalistico-consumistici degli ultimi decenni. Consumare meno significa vivere in modo più spartano. Questo corollario, però, non piace allo stesso modo dell’affermazione principale, ma ne è una componente incancellabile. Sul tema lavoro, sono convinto sia necessaria una redistribuzione del dovere del lavoro, cioè chi lavora 15 ore al g dovrebbe venir limitato redistribuendo il carico di lavoro fra altri che, oggi come oggi, lavorano meno o addirittura non lavorano. Ma il lavoro come valore esistenziale deve continuare ad esistere, altrimenti la vita umana si svuota di valore: in parole molto semplici sono contrario al reddito di cittadinanza e sono favorevole a politiche che coinvolgano tutti gli individui nel tema lavoro. Il lavoro, infatti, è il campo principale dove si forgia il concetto di “dovere” così tanto inviso agli “sdraiati” che la società opulenta ha generato e continua a generare a flusso continuo. Gli sdraiati non sono solo i percettori del RdC, ma anche i figli di papà, i parassiti sociali, e poi anche che va in ufficio “svogliato”, chi frigna per la pausa caffè, pausa pipì, pausa sigaretta… Insomma la gran massa dei diritti, elargiti in modo sconsiderato nei decenni scorsi, ha attenuato (per non dire annullato) il conetto di “dovere” in molti concittadini. Questo è il vero impoverimento sociale cui ci troviamo di fronte, oggi, Quindi lavorare meno per lavorare tutti, ma finalizzato a ri-trovare tutti il “senso del dovere”.
Nella mia convinzione dell’opportunità di riscrivere la Costituzione fin dalla prima riga, il tema lavoro è il primo che si affronta, banalmente perché è citato nella prima riga. Io, questa prima riga, penso di riscriverla così: “l’Italia è una repubblica democratica fondata sul senso del dovere che si impara attraverso il lavoro”.