L’avvento del Sesto Grado – 1

L’avvento del Sesto Grado – 1
di Gian Piero Motti
(pubblicato in La storia dell’alpinismo) (GPM-SdA-21)

(continua da https://gognablog.sherpa-gate.com/lintroduzione-dei-mezzi-artificiali-2/)

L’alpinismo dolomitico dopo la Prima guerra mondiale
Un evento come la Prima guerra mondiale non poteva non avere conseguenze dirette anche nel campo dell’alpinismo.

Al termine di un conflitto, infatti, a parte i gravissimi problemi di ordine economico, si determina sempre una situazione molto difficile e complessa durante la quale la volontà di ripresa delle nazioni, siano esse vincenti o perdenti, si manifesta in misure assai differenti. Vi furono infatti nazioni perdenti come l’Austria e la Germania dove, proprio nell’immediato dopoguerra, l’alpinismo avrà un impulso straordinario, con chiari caratteri nazionalistici di rivincita e di affermazione; d’altro canto vi furono nazioni vincenti e soddisfatte, come la Francia, che nel dopoguerra si affacciarono prepotentemente alla ribalta sulle Alpi Occidentali, con quel carattere di certa simpatica superiorità e di distacco che ha sempre distinto l’alpinismo francese. Ancora, vi furono nazioni vincenti ma insoddisfatte della vittoria ottenuta, come l’Italia, e proprio l’Italia alpinisticamente dovrà subire l’iniziativa tedesca sulle Alpi Orientali e quella francese sulle Alpi Occidentali prima di entrare in competizione e, nell’ambito dell’atmosfera culturale fascista, dare un colore spiccatamente nazionalistico e polemico alle proprie imprese alpinistiche, quasi a rivendicare una presunta superiorità che, forse, almeno a giudizio di una corrente culturale e politica imperante, ancora non era stata sufficientemente dimostrata con la vittoria in guerra. Ad ogni modo, sia dalla parte dei vincitori che dei vinti, la guerra aveva lasciato il segno e la ripresa si poteva far strada solo al prezzo della rivoluzione industriale. È il momento in cui l’alpinismo viene accolto con grande favore proprio dalle classi meno agiate, come mezzo di affermazione e di riscatto in un mondo esistenziale sempre più frustrante ed alienato.

La dida originale è sbagliata: questa cordata è stata la prima a salire la parete nord dell’Agner, non lo spigolo nord.

Naturalmente i tedeschi, forse proprio perché sconfitti, esaspereranno ancor più il loro carattere romantico e nietzschiano in alpinismo, raggiungendo limiti veri e propri di fanatismo collettivo, incoraggiati anche dal regime hitleriano che propagandava la superiorità della razza germanica. In alcune occasioni, come all’Eiger, assisteremo ad una vera e propria corsa alla morte. Gli italiani si sentiranno toccati sul vivo dall’atteggiamento germanico e soprattutto saranno infastiditi dall’iniziativa tedesca sulle Dolomiti, dove i problemi alpinistici erano risolti da cordate di quei Paesi. Quindi, anche perché il regime fascista, forse imitando in modo grottesco il regime hitleriano, proclamerà il ritorno dei fasti di Roma Imperiale e in una farsa assurda e ridicola, ma anche tragica e amara, rivendicherà la superiorità della razza latina, l’iniziativa italiana intorno al 1930 sarà fortissima e risolverà i più grandi problemi alpinistici allora risolvibili.

I francesi, invece, senza suonare tante fanfare, soprattutto nelle Alpi Occidentali daranno inizio a quello che sarà il loro splendido periodo, ma in modo serio e ragionato, anche se tinto inevitabilmente da colori patriottici e senza raggiungere l’isterismo tedesco ed italiano. Gli inglesi invece si dimostreranno veramente infastiditi e faranno da spettatori, assumendo un atteggiamento di ironica superiorità che d’altronde era ampiamente giustificato dai fatti.

Comunque, proprio sulle Dolomiti, la tecnica del chiodo e del moschettone permetterà agli scalatori della «Scuola di Monaco» la realizzazione di imprese veramente eccezionali, dove l’arrampicata libera fa ancora la parte dominante e dove il chiodo interviene solo eccezionalmente per risolvere un tratto altrimenti insuperabile. Intorno al 1920, dunque, e subito negli anni successivi, alcune imprese segnano un netto distacco rispetto alle difficoltà superate precedentemente: non si tratta di un uomo solo e nemmeno di una sola impresa. Si tratta invece di un piccolo gruppo di alpinisti e di un numero esiguo di imprese che da essi furono compiute. Solitamente, si dice che queste imprese segnarono l’avvento del «Sesto Grado».

Quasi in contraddizione con quanto si è detto, la prima grande impresa del dopoguerra compiuta sulle Dolomiti è opera di una cordata italiana composta dalla guida Francesco Jori, che già nell’anteguerra aveva svolto un’attività considerevole, da Andreoletti e da Zanutti, due nomi che abbiamo incontrato precedentemente.

Nel 1921 essi scalano in prima ascensione la gigantesca parete nord dell’Agner, realizzando un’impresa di assoluto valore, non certo inferiore a quelle compiute in seguito dagli austriaci al Pelmo e al Civetta. Lasciamo la parola a Piero Rossi: «In Italia e sulle Dolomiti, a quel tempo, era stata compiuta una grande impresa, a non grande distacco, come livello tecnico, da quelle di Simon e Solleder: la conquista dei grandiosi appicchi dell’Agner, nelle stesse Dolomiti Agordine… Questa scalata superava notevolmente quella del Civetta in altezza (1600 metri), non era troppo inferiore come difficoltà, presentando lunghi tratti di quinto grado e, nell’insieme, considerata la severità dell’ambiente, poteva essere considerata della stessa classe. Ciò non apparve tanto evidente allora, quanto più tardi e precisamente in questi ultimi anni, in base al giudizio di agguerritissimi ripetitori. La superba scalata dell’Agner aveva però un difetto intrinseco: essa fu opera non già di giovani caposcuola, bensì di tre anziani, giunti al termine di altrettante brillantissime carriere… Fu quindi un exploit straordinario, ma destinato a restare un episodio isolato (Piero Rossi in La Grande Civetta di Alfonso Bernardi, Zanichelli, 1971)».

Un episodio isolato ma che, comunque, classifica questa impresa come la più grande realizzazione italiana sulle Dolomiti fino al 1929. Di quest’impresa, come di quelle successive degli austriaci, fu scritto pochissimo e a volte nulla sulla Rivista Mensile del CAI, forse per quella sottovalutazione che si faceva allora delle Dolomiti negli ambienti occidentali e forse perché la redazione della Rivista era nelle mani degli stessi ambienti filo-occidentali.

Saranno poi gli studi dei fratelli Giovanni e Valentino Angelini e di Domenico Rudatis a mettere in chiaro le cose e a dare il giusto valore a queste imprese.

La prima grande realizzazione dolomitica della «Scuola di Monaco» è invece la scalata della parete nord del Pelmo, alta più di 850 metri, compiuta l’11 e 12 agosto 1924 da Roland Rossi di Innsbruck e Felix Simon. Anche di questa via all’epoca si seppe pochissimo e solo in seguito a ripetizioni posteriori essa acquistò il suo esatto valore: una scalata di V e VI grado in arrampicata libera con pochissimo impiego di mezzi artificiali. Ciò non sorprende in quanto Rossi era uno dei migliori arrampicatori del Kaiser, avvezzo anche alla tecnica del chiodo e alle manovre di corda: ancora oggi le sue vie rappresentano delle grandi «classiche» di elevata difficoltà per gli arrampicatori moderni più agguerriti.

Emil Solleder, un alpinista di classe superiore
Le imprese che abbiamo citato erano sicuramente di un livello superiore, dal punto di vista della difficoltà pura e non certo da quello della prestazione umana, a quelle realizzate sulle Dolomiti da Preuss e da Dülfer. Eppure Emil Solleder seppe alzare ancora questo livello di difficoltà ed è per questo che generalmente egli è considerato come l’iniziatore del sesto grado. Solleder aveva un passato avventuroso e difficile; era stato persino in Alaska a cercare l’oro…! poi si era adattato a qualunque mestiere nella lontana America, dal facchino al minatore. Era poco più che un ragazzo quando fece ritorno alle sue montagne bavaresi. Non sappiamo perché cominciò ad arrampicare, e neppure ci interessa capirlo, comunque sappiamo che Solleder incarnava alla perfezione la tipologia dell’alpinista tedesco di quell’epoca: romantico, solitario, individualista, probabilmente nell’alpinismo trovava un mondo mistico tutto suo, una grandezza ed una fuga dalle miserie che affliggevano la Germania del dopoguerra. Comunque sia, dell’alpinismo era profondamente convinto e all’alpinismo si volse dedicando tutto se stesso: «Si rimprovera spesso all’alpinista temerario di spingere troppo in là il suo gioco. Ma un uomo estraneo a tale gioco, può forse comprendere ciò che esso significa per l’alpinista?». Le parole di Solleder ci ricordano quelle di Mummery ed anche quelle di un grandissimo poeta che solo nella fantasia scalò la montagna… del Purgatorio: «Intendere non può chi non lo prova».

Come tutti i bavaresi aveva cominciato ad arrampicare sulle pareti calcaree del Nord, soprattutto nel Karwendel, nel Kaiser e nel Wetterstein, dove in breve acquisì una tecnica perfetta.

Ma i suoi grandi successi ci portano alle Dolomiti. Giungendo sulla scia dei compagni Simon e Rossi, il 1° agosto 1925 con Fritz Wiessner supera la magnifica parete nord della Furchetta, la più alta cima delle Odle che domina i verdissimi pascoli e le cupe foreste della silenziosa e pittoresca Val di Funes. Su questa parete già Dülfer aveva tentato invano: giunto ad un terrazzino (il «pulpito» Dülfer) sotto la parete terminale, forse aveva trovato il suo limite – difatti solo il grande Vinatzer riuscirà a salire direttamente, con difficoltà assolutamente estreme, molti anni dopo – di fronte alla gialla e friabile parete terminale o forse non intuì la traversata che permise a Solleder di proseguire fino in vetta. Una bella impresa, ma che ancora non supera quelle compiute da Jori e da Rossi.

La muraglia nord-ovest del Civetta è alta 1200 metri ed è una parete che non ha rivali su tutta la catena alpina. Ed è su questa parete che Solleder compie il suo capolavoro, realizzando un’impresa storica, non solo per le difficoltà superate, ma anche per lo stile elegante con cui la scalata viene condotta.

«… Sapevo che laggiù nel Sud si innalza un erto castello di roccia, la Civetta. Non l’avevo mai vista, ma ne avevo spesso udito parlare. Su quella parete, si diceva, non bisogna mettere le mani. Una muraglia smisurata, scariche terribili di pietre, molto ghiaccio. Tutta una schiera di celebri alpinisti l’aveva tentata invano… Ecco, i raggi del sole al tramonto hanno il sopravvento, accarezzano il ghiacciaio della Marmolada facendolo scintillare, baciano la cima del Sella striata di neve fresca ed allungano smisuratamente l’ombra del mio corpo sulla cima pianeggiante del Col di Lana. Verso sud emerge dalla nebbia una montagna superba. È uno spettacolo reale? Mai avevo visto sulle Alpi una parete come questa. Ben presto, la gigantesca muraglia, volta a nord-ovest, è battuta in pieno dalla luce del tramonto e si spiega allo sguardo nella sua ampiezza regale, coperta fino alla base di neve fresca, veramente degna del tempo e degli sforzi, che già i migliori hanno spesi, per conquistarne la verginale bellezza. Forse questa montagna esercita un fascino magnetico? Eccomi camminare curvo sotto un pesante sacco per la strada che sale dallo splendido lago di Alleghe al rifugio Coldai… ».

Le sensazioni di Solleder sono eguali a quelle di ogni altro alpinista che per la prima volta si sia trovato a tu per tu con la grande muraglia del Civetta.

Pochi giorni dopo la vittoria sulla Furchetta, Solleder realizza la sua impresa, in modo magistrale, percorrendo un itinerario diretto e di estrema logicità, che in seguito sarà superato in difficoltà ma non certo in eleganza del tracciato: ancora oggi, malgrado i tentativi di aprire una via diretta sulla stessa parete, la Solleder resta ancora la linea ideale di salita. Questo il commento di un altro grande, Giusto Gervasutti, detto «il Fortissimo»: «… Solleder affronta la parete dove l’altezza è massima, dove la linea di ascensione è esteticamente perfetta, nella sua verticalità dalla base alla vetta, dove la costruzione si presenta più ardita e più ardua. Con Gustav Lettenbauer e Franz Göbel viene respinto una prima volta dopo trenta ore di lotta. Ma tre giorni dopo, lasciato Göbel al rifugio, perché ferito e menomato, raggiunge vittorioso la vetta. È così compiuta la più grande salita delle Alpi Orientali… (Giusto Gervasutti, Scalate nelle Alpi, SEI, 1961)».

Indubbiamente la Solleder era più difficile delle altre vie aperte in precedenza, per molti fattori: innanzi tutto per il livello tecnico vero e proprio dei passaggi, difficili e molto continui, superati in assoluta arrampicata libera con l’uso di soli 15 chiodi di assicurazione, e poi per l’ambiente estremamente severo della parete, che ne fa più una salita occidentale che dolomitica. Tutta l’arrampicata si svolge quasi sempre in camini bagnati e ghiacciati, sovente sotto il tiro delle pietre o sotto cascate d’acqua. Ancora Piero Rossi dice: «Una valutazione della grandiosa impresa di Solleder e Lettenbauer non può prescindere dalla severità dell’ambiente della “direttissima” alla Civetta, un ambiente che, per le dimensioni ed i pericoli obbiettivi, l’esposizione a nord, la frequente presenza di rocce bagnate o vetrate e di cadute di pietre, l’innevamento che si protrae fino a stagione avanzata e si rinnova anche nel cuore dell’estate, ad ogni bufera di una qualche intensità, la linea di ascensione obbligata, lungo una interminabile serie di gole e camini, è prettamente “alpino” (Piero Rossi in La Grande Civetta di Alfonso Bernardi, Zanichelli, 1971)».

Oggi questa via è divenuta una grande classica dolomitica e purtroppo a volte non conserva il suo primitivo valore a causa di eccessive chiodature da parte di alpinisti non preparati alle difficoltà. Ma se i passaggi sono affrontati nelle condizioni della prima ascensione, alcuni tratti sono certamente di sesto grado in arrampicata libera, mentre gran parte della via si mantiene su un quinto grado continuo e molto impegnativo dal punto di vista tecnico.

Il trittico di Solleder in Dolomiti viene completato nel 1926 dalla magnifica via aperta con Franz Kummer sulla imponente parete est del Sass Maor (Pale di San Martino), dove per evitare due fasce strapiombanti Solleder compì due «traversate» espostissime in arrampicata libera, di un livello tecnico decisamente eccezionale per quei tempi. Ma nelle stesse Dolomiti aveva realizzato altre scalate di assoluto prestigio, come la parete nord della Pala di San Martino, il fianco ovest della parete nord del Catinaccio e la Torre Gialla della Cima Canali.

Come lo sventurato Emil Zsigmondy, perse la vita in un tragico incidente sulle creste della Meije, mentre guidava una cliente lungo la traversata di quella montagna (30 giugno 1931). Solleder era guida, ma realizzò tutte le sue imprese con lo spirito e la passione del dilettante. Anche se egli appartiene alla «Scuola di Monaco» e fece quindi uso di chiodi, le sue imprese restano comunque dei modelli di arrampicata libera condotta con stile elegante e pulito.

Emil Solleder (a sinistra) e Gustav Lettenbauer

La supremazia della Scuola di Monaco
Le imprese realizzate da Solleder sulle Dolomiti e soprattutto la salita diretta della parete nord-ovest del Civetta erano la palese dimostrazione di una superiorità acquisita dagli arrampicatori austriaci e tedeschi. Questa superiorità non derivava unicamente dalla conoscenza delle tecniche del chiodo e della corda (il carattere di queste realizzazioni è di assoluta arrampicata libera con scarsissimo impiego di mezzi artificiali), ma soprattutto da una condizione psicologica differente e più disinibita che permette di affrontare pareti che prima parevano impossibili. Certo non è da sottovalutare l’importanza del chiodo e la garanzia che esso da di poter passare anche dove in arrampicata libera non si passa più. Gli esponenti della «Scuola di Monaco» erano giunti a questa condizione psico-fisica dedicandosi sistematicamente all’arrampicata su roccia ed introducendo l’allenamento mediante la pratica della «palestra» di roccia. Solo quando gli italiani verranno a conoscenza delle tecniche d’arrampicata e poi comprenderanno l’importanza di allenarsi sistematicamente in palestra, allora sapranno portarsi al livello degli alpinisti tedeschi.

A questo tempo la concezione dell’alpinismo della «Scuola di Monaco» in certi ambienti era considerata quasi sacrilega e profanatoria e si definiva il loro alpinismo come esercizio volgare da acrobati e da funamboli. Inoltre si diceva che gli orientalisti non avessero alcuna capacità di compiere salite sulle Alpi Occidentali e quindi ad alta quota, sul terreno misto e sul ghiaccio. Invece i fatti dimostreranno proprio il contrario e dovranno essere gli occidentalisti a convincersene e a praticare poi gli stessi sistemi d’allenamento per raggiungere risultati equivalenti a quelli ottenuti da Peters, da Welzenbach, da Gervasutti e da Cassin sulle Alpi Occidentali.

In quanto alla via di Solleder al Civetta, evidentemente nessuna cordata italiana era ancora all’altezza di ripetere quella salita, anche se vi furono dei tentativi tra i quali quello di Emilio Comici. Tutte le prime ripetizioni furono di cordate austriache e tedesche, tanto che fiorì una storia, che non si sa fino a che punto fosse vera: pare che si fosse trovato un cartello, alla base della parete, su cui vi era scritto: «Questa parete non è pane per gli italiani…».

Una frase che contribuì a creare quel fortissimo spirito di accesa rivalità nazionalistica che distinse l’alpinismo dolomitico negli anni Trenta.

Tra i rappresentanti più significativi della «Scuola di Monaco» che operano nel decennio tra il 1920 e il 1930 dobbiamo segnalare Ernst Krebs, Willy Welzenbach e Fritz Wiessner.

Ernst Krebs è soprattutto ricordato per aver aperto una via di estrema difficoltà sulla Lalidererwand, nel 1929 con Toni Schmid, una fantastica parete alta più di 800 metri, di roccia piuttosto friabile, dove già il grande Dibona aveva lasciato una traccia del suo valore.

Fritz Wiessner, compagno di Solleder nella prima salita della Furchetta, era originario della Sassonia e fu uno dei primi a scoprire quella formidabile palestra formata da torri e paretine d’arenaria che si trova nei pressi di Dresda. Aprì molte vie sui monti del Tirolo e anche in Dolomiti svolse un’attività considerevole. Da segnalare una via aperta nel 1925 con Roland Rossi sulla parete sud-est del Fleischbank, dove il ricorso ai mezzi artificiali fu piuttosto importante, rispetto alle altre imprese precedentemente compiute sui monti del Tirolo e in Dolomiti.

Come già si è detto precedentemente, d’ora in poi da parte degli alpinisti, e soprattutto dei giornalisti come Vittorio Varale, si cadrà nel malvezzo di considerare di sesto grado, e poi di sesto grado superiore, soltanto quelle imprese dove si sia fatto ricorso ai chiodi, fino a giungere ad un caso limite in cui si ragionerà in questi termini: più chiodi si sono usati e più giorni si è rimasti in parete, più la scalata sarà stata difficile. Quindi, nel giudizio di queste imprese, è sempre bene distinguere tra corrente liberista e corrente artificialista, basandosi soprattutto sul giudizio dei ripetitori odierni per avere una esatta valutazione delle difficoltà.

Willy (o Willo) Welzenbach, che già abbiamo citato parlando della scala delle difficoltà da lui proposta, sebbene rocciatore di altissimo livello, è soprattutto ricordato come il più grande ghiacciatore di tutti i tempi. Egli fu il primo a portare le tecniche e la mentalità della «Scuola di Monaco» sulle pareti di ghiaccio e di misto delle Alpi Occidentali, Centrali e Orientali, raggiungendo dei risultati veramente stupefacenti. Le difficoltà che Welzenbach riuscì a superare sul ghiaccio erano nettamente superiori a quelle fino ad allora vinte su quel terreno. Anche se oggi la tecnica moderna e soprattutto i materiali altamente specializzati hanno permesso di vincere pendenze ancora superiori, tuttavia le imprese di Welzenbach sono rispettabilissime e costituiscono un severo banco di prova per gli appassionati delle «pareti nord». Imprese come la Nord del Grosses Wiesbachhorn, del 1923, dove addirittura fu superato uno strapiombo di ghiaccio con l’uso di doppia corda e chiodi da ghiaccio, come la Nord della Dent d’Hérens, nel 1925, forse la più grande impresa di Welzenbach e oggi una delle più dure salite di ghiaccio di tutte le Alpi tanto che conta pochissime ripetizioni, come la Nord del Grosshorn e la Nord-ovest del Gletscherhorn o come la Nord dei Grands Charmoz, una delle pareti più tetre ed insidiose di tutta la catena alpina, testimoniano ancora oggi l’audacia ed il livello tecnico raggiunto da Welzenbach in quegli anni. Il suo formidabile contributo dato all’evoluzione dell’alpinismo occidentale permise in seguito di poter realizzare e concepire imprese come la Nord delle Grandes Jorasses e la Nord dell’Eiger.

La difficoltà di queste imprese oltre che ad essere tecnica è anche e soprattutto psicologica. Le «pareti nord», a differenza delle arrampicate su roccia che sovente sono attraenti e solari, sono fredde, tetre e repulsive. I pericoli di scariche di ghiaccio e di sassi sono sempre presenti e determinano una grande tensione emotiva. Non vi è forse il vuoto della roccia, ma la pendenza, fortissima ed uniforme, degli scivoli di ghiaccio è forse ancor più impressionante.

L’alpinista su questi terreni deve essere veramente completo in tutti i sensi e deve contare su un’esperienza provata che gli permetta di intuire il cammino tra le molte possibilità che la parete gli offre.

Inoltre procedere per ore equilibrandosi sulle sole punte dei ramponi su pendii di ghiaccio inclinati a 50 e 60 gradi richiede all’alpinista una sicurezza interiore ed una calma a tutta prova, in quanto l’assicurazione su questi terreni è piuttosto aleatoria e più che altro deve valere la sicurezza interiore.

Ancora oggi, quando si guarda una «parete nord» salita da Welzenbach, si resta ammirati dell’audacia che gli permise soltanto di concepire, prima di realizzare, la salita di quei versanti glaciali. Nella storia dell’alpinismo di tutti i tempi egli resta dunque uno dei più grandi, uno degli innovatori che seppero portare il discorso ad un livello nettamente superiore, aprendo poi il cammino ad imprese che al tempo parevano irrealizzabili. Ciò che Dülfer e Solleder seppero fare sulla roccia, Welzenbach fece sul ghiaccio e sul misto: per molto tempo il suo coraggio e la sua tecnica non poterono che essere imitati prima di poter essere superati.

Welzenbach (1900-1934), come il grande Mummery, scomparve sulle pendici del Nanga Parbat, una montagna che per i tedeschi si rivelerà funesta e disastrosa, teatro di terribili sciagure alpinistiche in cui perirono molti tra i migliori rappresentanti dell’alpinismo germanico.

Willo Welzenbach

Domenico Rudatis, il «profeta» del sesto grado
La storia ci insegna che in ogni rivoluzione è fondamentale l’opera di un nucleo intellettuale che porti a conoscenza delle masse gli strumenti stessi per poi passare all’azione. Se noi analizziamo la situazione dell’alpinismo italiano dopo il 1920, ci accorgiamo che c’è una situazione stagnante, una specie di vuoto ed anche, come già abbiamo detto, una sorta di complesso di inferiorità nei confronti della scuola tedesca.

Le imprese di Solleder segnano forse il punto di massima crisi e il momento in cui si tocca il fondo della sfiducia, ma nello stesso tempo, per reazione, si comincia a trovare tutta l’energia necessaria per risorgere. Vi fu dunque tutto un fermento da parte di giovani arrampicatori italiani, i quali sicuramente non si sentivano affatto inferiori ai tedeschi; ma, alla prova dei fatti, per mancanza di conoscenza e di aggiornamento tecnico, la loro inferiorità si manifestava senza alcuna scusante.

In questo senso l’opera che seppe svolgere Domenico Rudatis (Venezia, 1898-1994) fu veramente fondamentale per il futuro sviluppo dell’alpinismo dolomitico italiano. Chiunque si avvicini a Rudatis attraverso gli scritti, ne scopre un personaggio iperbolico e straordinario. Rudatis era un profondo studioso delle filosofie orientali ed era anche un seguace della filosofia nietzschiana. A poco a poco formulò una propria ideologia, in cui l’alpinismo e soprattutto l’arrampicata estrema erano il mezzo ideale per superare se stessi, per uscire dalla vile condizione soggetta al destino e per scoprire una dimensione di libertà in cui ci si riuniva a tutte le forze del cosmo. Egli fece una sintesi originalissima, interessante e magistrale della dottrina taoista e del credo di Nietzsche, portando negli ambienti alpinistici una ventata rivoluzionaria e sconvolgente che destò le reazioni più contraddittorie e vivaci.

Perfetto conoscitore dell’alpinismo tedesco e delle tecniche della Scuola di Monaco, in una serie di brillantissimi articoli illustrò e diffuse anche in Italia i sistemi e le idee che avevano permesso le grandi realizzazioni dei tedeschi sulle Dolomiti. Studioso profondo e accuratissimo, svolse una acuta analisi di tutto l’alpinismo dolomitico, rivalutando uomini ed imprese che ingiustamente erano rimaste nell’ombra. Per questo più volte fu accusato di essere «tedescofilo», oppure di essere un fanatico ed esaltato cultore di filosofie trascendentali.

«Bisogna ritrovare nella montagna l’essenza indomita e primordiale della natura e della vita. Bisogna saper ricavare dall’arrampicamento ben più del record sportivo, tendere a compierlo solo come sforzo, come interiore violentamento dei propri limiti, come mediazione di un atto puro di potenza, per trascenderlo, per purgare l’azione dalla brama, dall’emozione, dalla passione e risuscitarla come arbitrio, come giuoco. Allora tecnica e progresso materiale si riconoscono come strumentalità e cessano di imporsi come valori.

Perciò ambizioni, sentimenti e pensieri che formano la corrente del vivere sociale non ci seguirono dall’attacco alla tregua della vetta violata al tramonto e fino alla sosta finale tra i massi, dopo aver violentato l’abisso e le tenebre.

L’arrampicata deve essere un cominciamento per muoversi liberamente in questa corrente, per staccarsi dal tappeto del destino nel cui centro la danza degli eventi folleggia ipnotizzante sui piedi del caso. Ogni movente nobile od ignobile è pur sempre obbedienza, la causalità è una catena che sulla montagna si apprende a scuotere e poi a rompere. Echi nostalgici di assolute libertà risveglia il mondo delle rupi. “Come sono belle, come sono pure queste libere forze non ancora macchiate di spirito!”, ebbe a scrivere Nietzsche in gioventù, dopo esser ritornato dalla montagna in tempesta; intendendo però come spirito i sentimenti e le passioni umane.

Se involutamente è detto nei Pancatantra che la vita è un viaggio nella notte, è perché non c’è più risveglio nel giorno, perché solo nella notte vivente si può svegliarsi e liberarsi, altrimenti non si vive ma si dorme un sonno lèteo, mortale. Che importa in sé un’arrampicata? Forse poco. Ciò che importa è la potenza che sappiamo destare in noi, giocando col pericolo, quando la volontà si vuole per intero. Ma senza libertà il giucco non avrebbe più significato.

Immensa è la gioia di arrampicare e di godere cosmicamente le rupi, il sole, gli elementi perché soltanto in questa intimità di rapporti c’è il respiro delle altezze, l’estensione dei sensi, la libertà. Ma più l’uomo si rinchiude e si muove come automa tra la spinta di questo o di quell’oggetto, e più si rende schiavo dei suoi stessi oggetti e strumenti. Se le voci abissali della natura, l’azione detersa e spassionata, il gioco rovente del pericolo, convergono intensamente spezzando il senso limitato della vita, varcano le soglie dell’animo con sensazioni sottili vibranti in stranissimi ritmi di musica sovrumana e, come trapassando dall'”eterno ritorno” nietzschiano, come scorgendo il centro del cerchio infinito della ruota del divenire, come svolgendo le prime spire del velo dei Maya, la coscienza esperimenta l’illusione e la vanità delle cose, riconosce l’assoluta inesistenza di mete, di ragioni, di speranze, di etiche, sfiora la sua essenziale solitudine, e un agire e un esistere e un consistere nel supremo arbitrio della nuda potenza si nasconde e si affaccia al suo orizzonte come l’uragano imminente nella notte nera ed impenetrabile: è l’Io, il Tutto che lampeggia innanzi all’immagine della sua maschera!».

È facile immaginare la reazione che le parole di Rudatis seppero destare negli ambienti alpinistici italiani dell’epoca. Vi fu naturalmente chi assunse un atteggiamento critico e severo nei suoi confronti, ma vi fu anche chi si lasciò trascinare dal vortice impetuoso, e furono molti coloro che nella dottrina di Rudatis trovarono una spinta, una molla e quasi un riscatto che li spinse a realizzare imprese eccezionali, sovente in contraddizione anche allo spirito stesso espresso dal Rudatis, in quanto fu cercata la rivalità, la «performance» e la competizione. Purtroppo, e lo si è già detto molte volte, il messaggio intellettuale non viene esattamente compreso e l’azione successiva, pur raggiungendo risultati di valore, giunge a snaturare il significato più intrinseco e genuino del messaggio stesso. D’altronde comprendere fino in fondo il significato della dottrina di Rudatis non era semplice e presupponeva una cultura profonda che non tutti evidentemente potevano possedere. È piuttosto interessante vedere come nell’odierno alpinismo californiano si ritrovino gli stessi contenuti che si leggono tra le righe di Rudatis. Senza voler anticipare i tempi, è interessante il raffronto con le parole espresse dall’americano Doug Robinson in un articolo assai discusso comparso intorno al 1970 e dal titolo Lo scalatore come visionario:

 «Cominciai a considerare per la prima volta queste idee nell’estate del 1965 a Yosemite con Chris Fredericks. Avvertendo una somiglianza di esperienza, o un analogo accostamento ad essa, ne discutemmo parecchie sere fuori dalla tenda e passammo alcuni giorni collaudando le nostre parole nella luce cinestetica del sole. Chris si interessava di Buddismo zen; quando mi parlò di questa religione orientale rimasi stupito di non aver mai sentito prima notizie di un sistema che era in armonia con i fatti della realtà esteriore come li vedevo senza alcuna spinta o sforzo. Non accennammo mai, se ben ricordo, all’esperienza visionaria come tale, pur sfiorandone la sostanza. Entrammo in uno di quegli stupendi parallelismi e non saprei proprio dire quali fossero i pensieri dell’uno e dell’altro. Cominciammo a considerare alcuni aspetti dell’alpinismo come equivalenti occidentali delle pratiche orientali: i movimenti regolari di chi si assicura per riposarsi, il passo normale della marcia attraverso i boschi, persine i movimenti ritmici dell’ascensione su terreno facile o familiare, ogni accostamento alla funzione di meditazione e controllo respiratorio. Tanto le fasi di fatica quanto quelle di visione della scalata sembravano adattarsi alla liberazione dell’individuo dalla sua concezione dell’io, l’una sopraffacendo le sue aspirazioni, l’altra mostrando l’individuo come una piccola parte soltanto di un universo sottilmente integrato. Guardavamo la visione affiorare nell’uno e nell’altro, con un misto di gioia e di serenità, e scendendo da una scalata ci sentivamo spesso come fanciullini nel Giardino dell’Eden, facendo gesti con le mani e col capo, ridendo. Indagavamo momenti eterni e ci stupivamo della sospensione della coscienza normale mentre la facoltà visionaria era attiva. Ci accadeva allora di non ricordare se eravamo veramente felici o sereni; più tardi tutto ciò che potevamo dire di tali momenti è che erano esistiti ed erano veramente belli; i particolari abituali della memoria erano scomparsi (Rivista Mensile del CAI, 1973)».

Domenico Rudatis

La montagna di Rudatis è il Civetta e sembra che egli non veda altre montagne al di fuori di quella. Nelle sue strutture, nelle sue pareti, nelle sue torri, Rudatis vede ciò che mai nessuno vi ha visto: trascinato dal vento dell’irrazionale, libera tutta la sua fantasia, tutta la sua energia creativa in immagini che a volte sfiorano e raggiungono il delirio. «… Formidabile, acutissima, affilata lama di roccia… che rivolge al ciclo l’impeto più protervo e minaccioso dell’intera coorte; pare lo scatto prorompente irrefrenabile da una ribellione eternamente repressa, la ribellione dell’immota fermezza delle rupi incatenate nel giogo delle forme contro l’eterea infinità degli spazi che avvolgono la montagna e vi sfoga le sue ire ed i suoi capricci…».

Oppure in una parete vi scorge come una lapide di proporzioni smisurate, una lapide «immane cui sarebbe forse iscrizione adeguata solo la più vasta epopea dell’intera umanità, tutti i duecentomila versi del Mahābhārata!».

A prescindere da ogni altro giudizio, l’opera di Rudatis fu comunque essenziale per l’evoluzione dell’alpinismo dolomitico in Italia. Non va dimenticata la sua collaborazione alla Guida delle Dolomiti Orientali del Berti ed anche i già citati scritti apparsi sulla Rivista Mensile del CAI dove presentò agli italiani il massiccio del Civetta e poi illustrò da par suo il problema del sesto grado e l’analisi della difficoltà alpinistica a livello soggettivo ed oggettivo.

Prima di unirsi al gruppo dei bellunesi, con cui realizzerà imprese quasi leggendarie, Rudatis approfondì la sua conoscenza del Civetta con il trentino Renzo Videsott – futuro direttore del Parco Nazionale del Gran Paradiso – col quale nel 1928 conquistò il Pan di Zucchero, con una scalata nei limiti del quinto grado. Nel 1929 salì la Torre di Babele, ancora con Videsott e Leo Rittler, per giungere, sempre nel 1929, a compiere la salita al Civetta lungo l’intera cresta nord, una magnifica arrampicata che fu realizzata con Videsott e con il trentino Giorgio Graffer, uno dei migliori arrampicatori che agirono nelle Dolomiti intorno agli anni Trenta.

Ma Rudatis cercava un’impresa pari alla Solleder al Civetta e la trovò salendo il fantastico spigolo della Busazza, posto sull’altro versante del Civetta: alto 1200 metri, di roccia levigata e compatta, costituiva veramente un problema all’altezza delle salite realizzate dai tedeschi sulle Dolomiti. Dopo un tentativo di Rudatis e Videsott, la salita fu compiuta insieme al forte alpinista tedesco Leo Rittler, che già aveva ripetuto per la prima volta la Solleder, aprendosi una variante diretta assai difficile e rischiosa. Lo stesso Rittler giudicò alcuni passaggi più difficili della fessura iniziale della Solleder e ritenne le due vie pressoché equivalenti. Ma Rudatis affermò sempre che nell’insieme la Solleder vantava una certa superiorità, dettata anche dai fattori ambientali. È superfluo dire che anche in quest’impresa l’uso dei chiodi fu limitatissima, però quei pochi chiodi (cinque in tutto), permisero di superare passaggi (come il tetto iniziale) insuperabili in arrampicata libera. In ogni caso si era eguagliato Solleder, ma non lo si era ancora superato.

Sempre nel 1929 fa eco un’altra impresa dolomitica che subito viene definita di sesto grado: la salita della parete nord-ovest della Sorella di Mezzo (Tre Sorelle-Sorapiss) compiuta dal triestino Emilio Comici, che poi sarebbe divenuto famosissimo, e da Giordano Bruno Fabjan. A differenza di altre imprese della medesima difficoltà compiute in quel periodo, la salita di Comici fu piuttosto pubblicizzata e per molto tempo la si considerò come il primo «sesto grado» italiano. La parete, alta 600 metri, in effetti offre alcuni tratti di difficoltà veramente notevole, ma nell’insieme non è superiore alla Solleder.

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L’avvento del Sesto Grado – 1 ultima modifica: 2023-11-14T05:46:00+01:00 da GognaBlog

14 pensieri su “L’avvento del Sesto Grado – 1”

  1. 13. A voler essere ancora più precisi, bisognerebbe considerare tutta la storia dell’arrampicata nell’Elbsandsteingebirge, a meno che non si voglia arbitrariamente relegare tali vicende al di fuori del contesto alpino, in quanto prive delle caratteristiche di lunghezza, altitudine, condizioni meteo, avvicinamento intrinseche delle scalate alpine. Ma l’ambiente non fa grado, altrimenti la valutazione diventa soggettiva.
    https://stara.emontana.cz/climbing-milestones-from-6a-to-9c/
    Qui potete trovare la storia dei primi (fino a prova contraria) sesti gradi, che risalgono al 1906. Si parla di settimo già a partire dal ’22. Buona lettura.

  2. Nel numero di marzo-aprile 1988 della Rivista del Club Alpino Italiano l’accademico Alessandro Masucci, deceduto di recente, pubblicò un interessantissimo articolo sulla via Haupt-Lömpel, aperta il 30 luglio 1910, che sale la parete NO della Piccola Civetta. L’autore svolse un’accurata ricerca storica per individuare il tracciato originario, che poi percorse in cordata.
    In base al suo giudizio, su quella via esistono passaggi di sesto grado inferiore (e non solo di quinto, come si era ritenuto fino allora). Se ciò corrisponde al vero, il primo sesto grado nelle Dolomiti, seppure al limite inferiore, è quello di Gabriel Haupt e Karl Lömpel. Poiché risale al 1910, quella via precede persino i primi sesti gradi del Kaisergebirge e delle altre montagne calcaree delle Alpi Austriache; pertanto si tratterebbe del primo sesto grado in assoluto.
    In tal caso bisognerebbe riscrivere un importante capitolo della storia dell’alpinismo.
     
    P.S. L’articolo è disponibile in rete (formato PDF) nel sito http://www.guidedolomiti.com.
     

  3. @Luciano, tanto per dire, Senkrecht ins Tao non esiste a ovest di PaperinoPasiénsa

  4. 1. “Per tale motivo, a mio parere, il “vero” limite umano nell’alpinismo è stato raggiunto nei decenni del VI grado. E probabilmente non si toccherà mai più perché ho la sensazione che, dal 2000 circa in poi, le evoluzioni in assoluto sia sempre più frutto dell’evoluzione dei materiali, della logistica, dell’allenamento, dell’alimentazione ecc ecc ecc.”
    Quindi, cito a caso (solo per il nord-est), i Cozzolino, i Messner, lo stesso più volte qui citato Manolo, Mariacher, Rieser e una lunghissima serie di altri arrampicatori che di fatto hanno innalzato le difficoltà con uno scarno uso di mezzi tecnologici esistono solamente in un universo parallelo a quello di Crovella, che diventa il nuovo riferimento per la storia dell’alpinismo.
    Crovella, se vuoi davvero essere coerente con ciò che scrivi, avresti dovuto fermare la storia a Preuss o forse a qualcun altro meno conosciuto, in ogni caso a prima dell’avvento dei chiodi, che già da soli costituirono una vera rivoluzione (basterebbe leggere cosa scrisse Preuss sul loro utilizzo).
    Oppure quantità e qualità di tecnologia da poter utilizzare per progredire nella scala delle difficoltà sono a tua discrezione?

  5. @ 3, 4 e 5. L’errore è solo nella didascalia della foto perché nell’articolo, appena sotto, è scritto : “Nel 1921 essi scalano in prima ascensione la gigantesca parete nord dell’Agner, . . .”.
     

  6. @5  Bene grazie, Fabio. Ho ripreso a andare in palestra e arrampicare, con calma e evitando sforzi eccessivi. Del resto, mi sarei dovuto dare una calmata comunque, se non altro per ragioni anagrafiche…

  7. @ 3 e 4
    Bravi, ragazzi! Siete promossi all’esame di Storia dell’Alpinismo. ???
     
    … … …
    Gianni, come stai?
     

  8. @3 Giusto. Lo spigolo dell’Agner è, se non sbaglio (vado a memoria) Gilberti-Soravito.

  9. Credo che nella didascalia della prima foto ci sia un errore. Mi risulta che i Tre abbiano scalato la parete non lo spigolo.

  10. E per saperne di più: dolomia e calcare del nord est e alpinismo tedesco tra le due guerre, di e con Gogna-Ascenzi

  11. Mi piace tutta la storia dell’alpinismo, da De Saussure (primo grande ideologo) in poi. L’alpinismo è una delle poche attività umane che io considero interattive con l’evoluzione sociale e culturale nel senso generale del termine. Cioè come cambia il modo di affrontare la vita, così cambia l’alpinismo e viceversa (per gli alpinisti, ovvio). Questo in ogni fase storica, per cui mi piacciono tutte le fasi storiche. Tuttavia se devo scegliere una fase storica in particolare, l’epopea del VI grado è la mia preferita. Credo che in essa davvero si sia raggiunto il limite estremo delle possibilità umane nell’alpinismo. Le performance di quei due decenni sono principalmente incentrate sulle capacità umane (sia concettuali che atletiche), in quanto l’attrezzatura del momento ha dato un contributo marginale, se non addirittura irrilevante. Viceversa in seguito, dalla II Guerra in poi, la mia sensazione è che il miglioramento in assoluto delle performance sia molto “inquinato” dal  frenetico miglioramento tecnico dell’attrezzatura. Ovvio che anche nei decenni successivi c’è stata una evoluzione “umana” dell’alpinismo, ma troppo invadente è stata la componente tecnica (di cui non si poteva fare a meno, è fuor di dubbio: non puoi tenere fuori dalla porta l’evoluzione tecnologica dei materiali). Per tale motivo, a mio parere, il “vero” limite umano nell’alpinismo è stato raggiunto nei decenni del VI grado. E probabilmente non si toccherà mai più perché ho la sensazione che, dal 2000 circa in poi, le evoluzioni in assoluto sia sempre più frutto dell’evoluzione dei materiali, della logistica, dell’allenamento, dell’alimentazione ecc ecc ecc.

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