Questa sera, 28 aprile, a Torino, grande emozione con Patrick Gabarrou, ovvero la versione umana dell’alpinismo estremo.
Dolente di non poter esserci, voglio pubblicare un abbastanza recente intervento del Gab (come viene confidenzialmente chiamato Patrick), cui invece ho avuto la fortuna di presenziare.
Nella splendida cornice del Palazzo Ducale di Genova, il 19 novembre 2016, in occasione del convegno nazionale del Club Alpino Accademico Italiano, e dopo la proiezione del suo breve documentario sulla nuova impresa al Cervino, Padre Pio scala verso il cielo, Patrick Gabarrou ha esposto all’attentissimo e qualificato uditorio degli Accademici il suo punto di vista sull’avventura e sull’alpinismo.
L’avventura
di Patrick Gabarrou
Per me è un po’ difficile parlare in italiano perché mi manca tanto vocabolario, ma io provo a parlare dell’avventura. Avventura è quando non si sa esattamente cosa succederà il giorno dopo. E’ vero che l’epoca moderna è caratterizzata da collegamenti internet che restringono abbastanza il senso dell’avventura e in particolare restringono l’esperienza intima di essere lontani da tutto ciò che è civile, sia se si è da soli che assieme a qualche compagno.
Io sono guida alpina e vado su molte montagne, magari anche facili, senza grandi avventure all’orizzonte. Ma è lì che si vede l’avventura, proprio nello sguardo del tuo compagno. Brutto tempo o non brutto tempo, sarà anche che io sono un po’ fragile, ma l’avventura è sempre molto vicina. Sta un po’ a noi vedere l’immensità dell’arco alpino (e questo per non parlare di quando si prende l’aereo e si va più lontano), sta a noi dimenticare che sia un territorio conosciuto e vederlo quindi come grande spazio nuovo, in ogni momento.
In ascolto di Patrick Gabarrou, 19 novembre 2016. Foto: Alberto Rampini
Anche io ho i miei piccoli posti segreti, dove so che posso vivere la mia avventura “personale”. Non è che sia obbligatorio, per cercare avventura, andare sempre in posti terribili e imprevedibili: si può anche andare in posti poco conosciuti, poco noti. Per esempio ho avuto la fortuna, qualche anno fa, di visitare un gruppo di montagne tra Vancouver e l’Alaska: un elicottero ci ha portati nel cuore di queste montagne. Per nostra scelta non avevamo nulla, il programma era quello di trovare il nostro nutrimento con caccia e pesca per tre settimane, in mezzo agli orsi e alla wilderness. L’elicottero ci ha lasciati lì… e se non fossimo tornati entro un mese magari il pilota sarebbe tornato alla ricerca di qualche sopravvissuto o qualche cadavere. Un’avventura molto forte, che però ho vissuto serenamente. Non è stato molto diverso che sulle Alpi, quando si è staccati da tutto, quando magari non c’è campo di telefono e nessun elicottero col maltempo può venire a cercarti. Anche lì sei soltanto “solo”. Cinque anni fa ero in una sala riscaldata di Chamonix in occasione del corso aggiornamento guide, quando venimmo a sapere del nostro collega Olivier Sourzac che, in una finestra di tempo buono, aveva salito il Linceul delle Grandes Jorasses con la sua cliente Charlotte De Metz e in quel momento era bloccato dalla bufera dalle parti della vetta, sulla via normale di discesa. Dovevamo partire, ma occorreva rimandare di ora in ora, fino a che abbiamo saputo della loro morte. Questo mi fa concludere che, ripeto, sarò io magari ad essere particolarmente fragile, ma l’avventura può colpire in modo assai veloce anche oggi.
E’ dagli anni Ottanta che l’alpinismo è pervaso dallo sport, dalla mania di misurare il tempo, togliere tutto ciò che è intorno alla salita, avvicinamento e discesa, e misurare quanto ci s’impiega, magari con concatenamenti ed altri exploit. Con tutto il rispetto, non è questa la grande esperienza. Se l’alpinismo è ridotto a questo è un po’ povero. Per fortuna possiamo partire per posti alpini che conosciamo appena di nome, leggere qualcosa, leggere le carte. Poi domandarmi dove sono… magari nella nebbia. Dove mi sono perso? Qui l’avventura è davvero vicina. Si dice che la meteo oggi preveda tutto: è vero che quaranta anni fa non esisteva modo di fare previsioni serie, ma anche oggi vi garantisco che vi potete trovare sul Monte Bianco a fare la classica traversata e avere sorprese dalla meteo che neppure si riesce a immaginare.
In prima ascensione sulla via Free Tibet del Naso di Zmutt, Patrick Gabarrou si appresta a smontare il bivacco. Foto: Cesare Ravaschietto/Archivio Patrick Gabarrou.
E’ vero che una tragedia come quella di Bonatti e compagni al Pilone Centrale del Frêney oggi non può più succedere: tempeste come quella sono previste già parecchio giorni prima. Ma ancora oggi se arrivi in cima al Cervino e ti prende il maltempo, ti senti molto piccolo. Poi invece, a noi quest’anno sono capitate quattro giornate bellissime e siamo arrivati in vetta in un tripudio di sole. Una grande gioia, che coronava un sogno, già vissuto avventurosamente sui libri, sui racconti di altri, sulle relazioni e nei tentativi.
Già, i libri: io sono nato distante dalle montagna, dalle parti di Parigi. E i libri come quelli di Gaston Rébuffat sono stati importanti, una parte integrante dell’avventura. Questa è nello sguardo interiore, nella capacità di sognare e nella disponibilità di andare in luoghi non eccezionali. E’ nello sguardo del bambino, non in quello di chi è concentrato su se stesso; è nello sguardo stupito di un occhio capace di stupirsi di fronte a un mondo “altro”.
L’avventura, se intesa in questa maniera, è un dono frequente dell’alpinismo, specie quando su una cima, anche “comune” mi prende quella sensazione di stupore di fronte alla straordinarietà del mondo.
E’ questa una ricerca che non è sempre presente nei nostri pensieri, ma ti permette di stupirti, emozionarti di fronte all’emozionale del mondo. Ed è una affermazione precisa che faccio: da una parte l’avventura dell’estremo, dall’altra l’avventura delle nostre più genuine emozioni. A ognuno la sua scelta.
Quando sono stato in vari posti della terra, in Patagonia, in Himalaya, non ci sono sempre andato alla ricerca della stessa cosa, cioè l’exploit avventuroso. Molto spesso sono andato alla ricerca soprattutto della mia piccolezza di fronte allo spettacolo entusiasmante del Fitz Roy, del Cerro Torre, degli Ottomila. Mi è capitato di andare con ragazzi ben più giovani di me e ho cercato di trasmettere questa mia volontà di andare sempre fino al fondo dei nostri sogni, non al fondo dei sogni altrui, ma dei nostri. I tuoi sogni sono quelli veri, non i sogni degli altri. Voglio avere anche la libertà di scegliere questi miei sogni.
Sono andato due volte al campo base dell’Everest, e lì ho trovato proprio il contrario di quanto affermo, ho trovato il regno di chi NON è alpinista, di chi non vuole, generalmente, avere un rapporto di base con lo spazio della montagna. Proprio il posto di chi cerca tutte le sicurezze le tecniche per la propria affermazione personale e non cerca la solitudine e il confronto con gli spazi, dove servono serenità, forza e isolamento per essere davvero responsabili. Si trova la propria libertà soprattutto facendo questa scelta, e il luogo più facile per farlo rimane sempre la regione alpina, un grande luogo di libertà. Quando siamo partiti quest’estate per la nostra salita di più giorni al Cervino non abbiamo detto niente a nessuno, erano tante le cose che non sapevamo, pur avendo letto le previsioni meteo. Sentivo che non era una storia scritta in anticipo! Era un’altra pagina della nostra vita da scrivere. Questa è l’avventura intima, quella che ti fa crescere, che ti fa scoprire di più sul senso del tuo cammino, quella che ti permette di rafforzare ancora di più l’amicizia tra i membri della cordata. Perché legati insieme (e non è frase fatta dire “per la vita e per la morte”) permette di riconoscere anche il cammino che stanno facendo i tuoi compagni verso l’esperienza, ovviamente in maniera diversa dalla tua. Un po’ pr questi motivi ho proposto ai miei amici di chiamare la nostra via Padre Pio scala verso il cielo, per dire che ognuno di noi ha una pagina da scrivere, forse una pagina di montagna ma forse di tutt’altro.
Il convegno del CAAI, Genova, Palazzo Ducale, 19 novembre 2016. Foto: Alberto Rampini.
Non sono andato tante volte sul Cervino per trovare il mio Graal, nascosto in una grotta, che mi avrebbe dato risposta alla mia angoscia esistenziale. No! Sono andato per cercare una strada di fatica, di luce e di condivisione. In questa dimensione di gioia per me è dunque facile vivere delle avventure anche oggi, in un tempo in cui sembra più difficile.
Vivere queste emozioni e condividerle con gli amici, il freddo, la fatica, i bivacchi, le albe è cosa così straordinaria, ti fa alzare gli occhi al cielo. In quei quattro giorni dicevamo sempre tra di noi: “Ecco, questo è un segno della provvidenza!”. Non siamo qui per essere i più forti o per stabilire altri record, ma per fare un viaggio assieme verso il cielo, non solo il cielo esterno, ma anche verso il cielo interno: attraversare la montagna per andare verso la verità della nostra vita. L’avventura della montagna è una scalata verso l’infinito del cielo.
Patrick Gabarrou
di Ugo Manera
(da www.scuolagervasutti.it)
Gli anni ’70 del secolo scorso sono stati anni di grande evoluzione dell’alpinismo europeo e italiano, evoluzione tecnica e di pensiero. Sul piano tecnico ebbe enorme importanza la diffusione della progressione frontale su ghiaccio con due attrezzi (piolet traction), già praticata in Scozia ma pressoché sconosciuta sulle Alpi. A lanciare e diffondere tale tecnica contribuirono due imprese della guida francese Walter Cecchinel: la Nord-Est del Gran Pilier d’Angle nel 1971, con Georges Nominé e il Couloir Nord-Est dei Drus con Claude Jager dal 28 al 31 dicembre del 1973.
Sempre di carattere tecnico fu in quegli anni la vera rivoluzione che avvenne nella sicurezza della cordata con l’affermarsi dell’assicurazione dinamica, sperimentata e poi promossa soprattutto da un gruppo di guide ed accademici italiani.
Sul fronte dell’etica avvenne una grande spinta per un ritorno all’arrampicata libera ed, in Italia, un fiorire di vari “Nuovi Mattini”, volti ad emancipare l’alpinismo dalla visione eroica e drammatica che aveva prevalso nell’era del “sesto grado”.
Il diffondersi della progressione frontale su ghiaccio aprì nuovi orizzonti per gli scalatori; innumerevoli canalini ghiacciati, sempre evitati per la difficoltà presentata nel superarli con tecnica da ghiaccio tradizionale e per i pericoli oggettivi, divennero gli obiettivi da affrontare in “piolet traction”, tecnica che consentiva una velocità di progressione tale da ridurre molto l’esposizione in quei canali che sono le naturali vie di scarico delle pareti.
A metà degli anni 70 due nomi di giovani francesi si impongono all’attenzione internazionale nell’affrontare queste nuove opportunità che si offrono agli scalatori: Jean-Marc Boivin e Patrick Gabarrou; sono coetanei (nati nel 1951) e continuano la tradizione francese di scalatori nati lontani dalle Alpi e divenuti grandi protagonisti dell’alpinismo, seguendo le orme di Gaston Rebuffat, Jean Couzy, Georges Livanos, Robert Paragot, René Desmaison.
La più importante delle realizzazioni della cordata Boivin-Gabarrou è la prima ascensione del Supercouloir al Mont Blanc du Tacul, dal 18 al 20 maggio 1975, poi la cordata si scioglie e ognuno segue la propria strada di grande protagonista dell’alpinismo estremo e di altre attività limite legate alla montagna.
Patrick Gabarrou ha svolto un’attività immensa e dopo tanti anni è ancora protagonista, prima però di parlare del personaggio voglio rubare le parole di Gian Piero Motti nella presentazione dell’articolo: Du Spirituel dans L’Art di Gabarrou, pubblicato sul celebre Scandere 1979:
“Nell’alpinismo odierno vi è una certa confusione. Vanno comunque delineandosi due correnti abbastanza definite: quella dell’alpinismo competitivo, che ricerca evoluzione soprattutto nella difficoltà tecnica, e quella del gioco e della così detta vita in parete. Ci sembra che nessuna delle due correnti rappresenti una meta ideale.
Nella prima è fin troppo evidente il titanismo, il desiderio di vincere e di umiliare la Natura, di renderla adeguata all’uomo. Nella seconda vi è la rinuncia del mondo fantastico delle altezze.
Lo scritto di Gabarrou è affascinante ed è particolarmente bello perché rappresenta forse la sintesi ideale tra le due contraddizioni. Patrick non parla di alpinismo di conquista, ma di scoperta. Egli immagina un uomo capace di avvicinarsi al mondo delle altezze non tanto per sentirsi superiore ad esse, ma per entrarvi in armonia, per vivervi avventure magiche e meravigliose. Certo vi è una tecnica, ma è l’uso di questa tecnica e dei mezzi che qualifica un uomo e il suo stile. In sostanza ci sembra di vedere in Gabarrou quello stupore fanciullesco di evangelica memoria, capace di aprire le porte del Regno dei Cieli.
A questo punto parlare di sogni realizzati da Gabarrou potrebbe anche essere superfluo. E’ bene tuttavia ricordare che egli è uno dei migliori alpinisti europei, realizzatore di nuovi itinerari su ghiaccio e su misto che si impongono per la loro essenziale eleganza e logicità. Coloro che hanno solo nel cervello la difficoltà saranno soddisfatti: sono tutte vie di estrema difficoltà. Anche se probabilmente Patrick non è la difficoltà che cercava: la trovava lungo il cammino che aveva prescelto”.
L’attività alpinistica di Gabarrou è immensa, sia come guida alpina ma soprattutto a livello amatoriale, alla ricerca sempre del suo obiettivo: sognato, scoperto e poi risolto. Inutile fare una lista delle sue realizzazioni, basta entrare nella “rete”, cliccare su Wikipedia e compare una lunga lista di prime ascensioni, tutte importanti e tutte di grande impegno. Alcune sono state delle tappe importanti dell’alpinismo moderno come la via Divine Providence sul Gran Pilier d’Angle al Monte Bianco aperta con François Marsigny dal 5 all’8 luglio 1984.
Non ci sono dubbi che la spinta dell’alpinismo di Gabarrou è la ricerca del nuovo, del pezzo di montagna o parete mai toccato da nessuno ove inventare un nuovo tracciato, non necessariamente su montagne celebri, lo dimostra la sua vasta attività di apertura sulle alpi marittime, su pareti sconosciute ai più. Anche il mio alpinismo fu animato dalla ricerca del nuovo ovunque ve ne fosse l’opportunità e, sebbene divisi da un bel po’ di anni di età, ed io fossi frenato dalla minore disponibilità di tempo del dilettante da dedicare alle scalate, rispetto al professionista, c’è stato un periodo in cui ci siamo rincorsi su qualche grande parete: nel 1979 Patrick, con Pierre-Alain Steiner, tracciava una via sulla parete nord del Breithorn Centrale, un anno dopo, il 7 settembre 1980, con quattro compagni, aprivo una via sulla difficile Nord della Torre Maggiore sempre del Breithorn Centrale. Nell’estate 1980, con Flaviano Bessone, Isidoro Meneghin e Mario Pelizzaro, tracciavo la via dei Dilettanti sul Pilastro Rosso del Brouillard; nei giorni 28-29 luglio 1983 Gabarrou, con Alexis Long, apriva la sua via sullo stesso magnifico Pilastro.
Quando ho conosciuto Gabarrou e l’ho sentito illustrare le sue scalate, mi sono reso conto del suo particolare modo di sentire la montagna. Ho conosciuto tanti scalatori celebri di molte epoche, animati ognuno da spinte diverse e da una propria visione dell’alpinismo. Patrick per l’entusiasmo con il quale percorre la montagna e per l’amore che esprime per quell’ambiente mi sento di accostarlo a due grandi protagonisti: Gaston Rébuffat e Gian Carlo Grassi.
A Rébuffat lo accomuna la visione di una montagna mai matrigna, dove domina sempre il bello, dove non compare la tragedia ma prevale l’ottimismo, dove l’avventura è un sogno trasformato in realtà in ambienti meravigliosi sempre illuminati da un cielo azzurro.
Con Grassi condivide l’incontenibile voglia di scalare, ovunque, alla ricerca dei luoghi più remoti per tracciare itinerari a volte suggeriti più dall’immaginazione e dalla fantasia che dall’evidenza logica. Come Gian Carlo credo sia spinto alla ricerca di una visione artistica dell’aspro ambiente affrontato che porta oltre la normale percezione della vita.
Elena, per me strabilianti: “la pietra infuocata” per l’anticipazione idealizzata di trenta anni su ciò che raramente si fa oggi e “la cresta infinita” sublime realizzazione di un sogno eccezionale perseguito tenacemente e concluso con una purezza umana ormai rarissima.
Ti consiglio “la cresta infinita” e “la pietra infuocata”
Gabarrou e Motti, cosa desiderare di più dalla lettura di montagna!
Elena
Post veramente illuminante e bellissimo, grazie
Un grande “Uomo..e Alpinista ” ho una sua “Foto Autogr. ”
per averlo incontrato……Grande Maestro di Alpinismo.. Auguri “Patrick…e grazie Alessandro ” per questo Post”…..G.C.
Bel contributo del Gab, che spiega l’inutile distinzione in montagna tra stupidi o intelligenti, bravi o brocchi e da peso e sostanza a chi e’ liberato oppure non lo è….
Grande Gab
Gli chiesi se per lui è più bella Divina o una sul Naso.
La risposta fu: “Divina, Divina! Ma sono cose diverse”.
Mi piace molto questa sua frase: Avventura è quando non si sa esattamente cosa succederà il giorno dopo.
La visione di Gabarrou mi ricorda quella di Ettore Castiglioni dopo il giorno dell’incidente sulle Mesules, quando nel suo animo si fece strada una visione dell’alpinismo incentrata sull’amore profondo e incondizionato per la montagna (pur nell’eccellenza delle sue realizzazioni) piuttosto che sulla lotta eroica per la vetta come negli anni precedenti, e nella quale il suo animo di raffinato cultore dell’arte e della musica trovava perfetta consonanza.
C’è un’angolazione dalla quale tutti noi ci riconosciamo nelle parole di Gab.
Ma allora chi occupa i ruoli che sono necessariamente esclusi da quelle note così amate?
C’è un’angolazione per trovare la risposta.
Si chiama consapevolezza di sé e delle suggestioni che ci governano.
Basta l’assenza di una delle due per finire nel flusso di maggioranza, per dimenticare di avere una potenzialità indipendente e crreativa, per non accorgersi d’averla buttata insieme all’acqua sporca.
Ho avuto l’occasione di incontrare più volte Patrick Gabarrou. La prima volta tanti anni fa a Cogne al primo meeting di arrampicata sulla cascate di ghiaccio. Ci ritrovammo a salire Lillaz Gully , lui era con Giorgio Passino. In seguito l’ho incontrato a due sue serate . Ho anche un suo bel poster con tanto di autografo.
Gran bella persona.
Uno dei più bei post che abbia letto su questo blog. Grazie Alessandro.