Le Alpi Occidentali negli anni Sessanta e Settanta

Le Alpi Occidentali negli anni Sessanta e Settanta
di Gian Piero Motti
(pubblicato in Storia dell’Alpinismo) (GPM-SdA-36)

È chiaro che non fu il solo Bonatti ad agire sulle Alpi Occidentali, anche se le sue imprese in un certo senso gettano un cono d’ombra sulle altre compiute in questo periodo. In campo italiano bisogna ricordare il forte gruppo di alpinisti monzesi e lecchesi che ha operato sui monti del Masino nelle Alpi Centrali, dove furono aperti itinerari di roccia di grande difficoltà tecnica da alpinisti completi e preparati su ogni terreno, come Vasco Taldo, Nando Nusdeo, Josve Aiazzi, Gianni Arcari, Angelo Pizzocolo. Purtroppo anche in questo caso ci troviamo di fronte a molti «eroi sconosciuti». In tempi più recenti il gruppo lecchese, guidato da Casimiro Ferrari, Aldo Anghileri, Angelo Zoia, è riuscito probabilmente ad esprimere il meglio in seno all’alpinismo italiano, soprattutto in campo extraeuropeo, dove si è assicurato successi di prestigio internazionale, come le vittorie al Cerro Torre, al Fitz Roy e all’Alpamayo.

Ma anche l’ambiente piemontese si è risvegliato e va riportandosi su quei valori che Gervasutti e Boccalatte avevano raggiunto. Negli anni Sessanta bisogna ricordare Andrea Mellano, torinese, che con il lombardo Romano Perego (ed altri compagni piemontesi e lombardi) è stato capace di realizzare imprese di notevole difficoltà, ma che soprattutto va ricordato per aver compiuto le ripetizioni della Nord delle Grandes Jorasses, della Nord del Cervino e della Nord dell’Eiger (prima italiana, cui prese parte anche Armando Aste). Ma prima di lui non va dimenticata la generazione torinese di Corradino Rabbi, di Guido Rossa, di Giorgio Rossi, di Marco May, di Giuseppe Dionisi, di Piero Fornelli, che riuscì ad esprimersi magnificamente malgrado i durissimi tempi del dopoguerra. Essa aprì la strada ai giovani di oggi, i quali vantano un’attività di primissimo piano che spazia su tutta la catena alpina e che comprende prime ascensioni, prime invernali, prime solitarie e le ripetizioni di tutte le grandi classiche alpine. Impossibile citare tutti, comunque bisogna ricordare i liguri Gianni Calcagno e Alessandro Gogna, il biellese Guido Machetto (tragicamente caduto sulla Tour Ronde nel 1976), i torinesi Gian Carlo Grassi, Ugo Manera e, perché no?, anche il torinese Gian Piero Motti, e il milanese, ma trapiantato a Torino, Paolo Armando, anche lui purtroppo caduto nel 1971 sulla parete nord del Monte Greuvetta (in verità Armando era torinese, a Milano aveva solo studiato, NdR).

Una caratteristica dell’ambiente torinese dell’ultima generazione (che fu influenzata in senso positivo dall’attività di Alberto Marchionni e soprattutto di Gianni Ribaldone, caduto nel 1966 al Mont Blanc du Tacul) è l’aver portato la propria azione su territori che ancora l’alpinismo italiano non conosceva, quali le Prealpi Francesi. Inoltre i contatti avuti con i giovani esponenti dell’alpinismo francese, inglese ed americano, hanno contribuito nell’ambiente torinese all’evolversi di una mentalità e di una corrente rinnovatrice (o che almeno così si definisce) la quale ricerca nuovi modelli espressivi nel campo dell’alpinismo.

Le guide alpine italiane del secondo dopoguerra. Arturo Ottoz e Giorgio Bertone
L’ondata travolgente dell’alpinismo cittadino senza guida aveva certamente adombrato l’attività delle guide, anche perché esse non avevano saputo adeguarsi rapidamente alla nuova tecnica importata dalle Alpi Orientali. Doveva sorgere la figura della guida moderna, aggiornata su ogni tecnica sia di roccia che di ghiaccio, culturalmente assai preparata, capace di condurre il cliente (che non è più occasionale, ma che diviene un amico avviato sui terreni di tutta la catena alpina ed anche guidato in piccole spedizioni fuori d’Europa) su salite di ogni difficoltà. Inoltre la guida moderna, per poter essere aggiornata e all’altezza degli agguerriti cittadini, deve anche svolgere un’attività personale di primo piano. Possiamo ben dire dunque che le figure dei Rey, di Luigi Carrel (il famoso Carrellino, che ha legato il suo nome al Cervino con numerose imprese quasi leggendarie), dei Croux, chiusero un periodo magnifico e glorioso. Dopo la guerra vi fu certamente stasi, ma soprattutto nel gruppo che faceva capo a Courmayeur ben presto si sentì il soffio rinnovatore. Nello stesso periodo, in Francia, alcuni cittadini come Rébuffat e Terray sceglievano la professione di guida ed iniziavano proprio quel «nuovo corso» di cui sopra si è detto. Il loro esempio sarà determinante: se oggi vi sono delle guide come Yannick Seigneur (uno dei migliori alpinisti europei del momento) e come molti altri cittadini che si sono stabiliti a Chamonix (ma non vanno dimenticati neppure i locali, i quali mantengono la tradizione in maniera impeccabile), probabilmente molto si deve a Rébuffat e al suo esempio.

A Courmayeur emerge ben presto la personalità di Arturo Ottoz (1909-1956), certamente la più grande guida montanara che la Valle d’Aosta abbia avuto. Di mentalità aperta e moderna, magnifico arrampicatore sia sulla roccia che sul ghiaccio, Ottoz fu uno dei primi a guidare i suoi clienti (ma soprattutto l’amico bergamasco Piero Nava) lungo nuove ascensioni di estrema difficoltà, curando però sempre l’attività personale, che raggiunse risultati prestigiosi.

Splendida impresa compiuta al di fuori della professione fu la prima invernale della via Major al Monte Bianco (1953), compiuta con l’amico Toni Gobbi, uno dei primissimi cittadini divenuti guide, anzi, il primo cittadino ad essere accolto nel sodalizio delle guide di Courmayeur. Lo stesso Gobbi assieme ad Enrico Rey e François Thomasset compì anche le prime invernali della cresta des Hirondelles alle Jorasses e della Cresta sud dell’Aiguille Noire de Peutérey (rispettivamente nel 1948 e nel 1949). Purtroppo Ottoz il 17 agosto 1956 fu travolto da una valanga ai piedi della via Major sulla parete della Brenva.

Attorno ad Ottoz è poi tutto un fiorire di eccellenti risultati, ottenuti da uomini come Sergio Viotto (anch’egli tragicamente caduto in palestra d’arrampicata a Courmayeur), Ubaldo Rey, Henry Rey junior, Franco Salluard e soprattutto i due fratelli Attilio ed Alessio Ollier, formidabili specialisti del terreno misto, autori della prestigiosa prima invernale della via della Poire sulla Brenva nell’inverno 1965 con Franco Salluard. Ma anche se non sono di Courmayeur, dobbiamo ricordare Vincenzo Perruchon di Cogne, Ernesto ed Oliviero Frachey di Champoluc, anch’essi specialisti incontrastati del ghiaccio e del misto, Giacomo Chiara di Alagna, l’aostano Franco Garda, Beniamino Henry, Sergio Giometto, e nel ramo del Cervino la bella figura di Jean Bich, il forte ed altrettanto modesto Camillo Pellissier, i più giovani Pierino Pession e Leonardo Carrel, tutti autori di notevoli imprese sia sulle Alpi che sui monti fuori d’Europa.

Nelle ultimissime leve dobbiamo ricordare i fratelli Squinobal di Gressoney, anch’essi formidabili alpinisti sul terreno misto al pari degli Ollier, autori di grandi imprese invernali, quali la prima della Cresta integrale del Peutérey e la prima della parete sud del Cervino. A Cervinia spiccano i nomi di Rinaldo Carrel e Mirko Minuzzo, i primi italiani che hanno raggiunto la vetta dell’Everest, autori di numerose prime ascensioni. A Courmayeur, tra i valligiani, eccelle Lorenzino Cosson, aggiornatissimo sulle più moderne tecniche di scalata, compagno di Giorgio Bertone in molte imprese di estrema difficoltà, tra le più importanti di questi ultimi anni.

Tra i cittadini che nel dopoguerra hanno abbracciato la professione, oltre ai già noti Toni Gobbi e Walter Bonatti, dobbiamo ricordare Cosimo Zappelli e Giorgio Bertone.

Cosimo Zappelli (1934-1990), nato a Viareggio in riva al mare (quindi come Rébuffat), stabilitosi a Courmayeur per la grande passione dell’alpinismo, divenuto guida alpina, è certamente uno dei più grandi personaggi dell’alpinismo italiano di questi ultimi anni. Molti lo ricordano soprattutto perché fu compagno di Walter Bonatti in alcune imprese di eccezionale portata, tra le massime della storia dell’alpinismo. Ma Zappelli, dopo il distacco da Bonatti, il quale si è ritirato dall’alpinismo, ha proseguito la sua attività con estrema serietà, sia in qualità di guida sia come alpinista che realizza prime ascensioni di sua iniziativa. Inoltre il suo apporto al Soccorso Alpino è stato veramente notevole, al pari dell’opera svolta da uomini come Franco Garda e Giorgio Bertone, i quali hanno saputo portare il livello tecnico del soccorso alpino italiano al pari di quello (elevatissimo e professionale) francese (1).

Giorgio Bertone (1942-1977), valsesiano ma anch’egli trasferitosi a Courmayeur, è stato senza tema di smentita la più grande guida alpina che l’Italia abbia mai avuto ed anche come alpinista è sicuramente da considerare come tra i più validi d’Europa. La sua attività, anche in qualità di dilettante, è formidabile ed annovera la ripetizione di quasi tutte le vie più reputate della catena alpina. Comunque il suo «regno» incontrastato, al pari di un Bonatti, è sicuramente il Monte Bianco, dove si è distinto numerose volte aprendo vie nuove di estrema difficoltà, compiendo prime invernali ed anche prime solitarie. Aperto ad ogni nuova esperienza, Bertone si manteneva costantemente aggiornato in campo tecnico, infatti ciò gli ha permesso di realizzare con Lorenzino Cosson la prestigiosa prima salita italiana della via del Nose sulla parete del Capitan in California. Come guida, sull’esempio di Rébuffat e Terray, Bertone non si accontentava certo di svolgere la professione a fini esclusivamente economici, guidando clienti occasionali su facili percorsi.

Egli intendeva il mestiere di guida in senso moderno e creativo, considerava il cliente un amico ed un allievo da introdurre gradualmente nel mondo dell’alta montagna, instaurando un rapporto non occasionale, ma che si protrae durante tutta la stagione e per molti anni. Infatti Bertone è stato una delle pochissime guide che poteva permettersi di guidare clienti su salite di polso come la parete nord delle Grandes Jorasses, la parete ovest dell’Aiguille Noire de Peutérey, le vie del Dru, le vie assai dure del Grand Capucin, quelle del versante della Brenva, eccetera.

Bertone era uno specialista incontrastato delle tecniche di assicurazione e di ricupero; infatti nell’ambito del soccorso alpino la sua opera costante ed attenta era unanimemente riconosciuta.

Purtroppo la sua carriera è stata tragicamente interrotta da un incidente aereo, nell’agosto del 1977, mentre si accingeva a conseguire il brevetto di pilota di ghiacciai (in realtà Bertone era pilota. Chi aveva appena conseguito il brevetto era il suo compagno di volo, Daniele Presa, NdR). Con lui scompare veramente una delle più grandi figure dell’alpinismo europeo degli anni Settanta.

Francesi e inglesi alla ribalta
II ritorno alle Alpi degli alpinisti di scuola britannica inizia nel secondo dopoguerra e si protrae praticamente fino ai giorni nostri, con una serie di risultati che dimostrano l’altissimo livello tecnico raggiunto dall’alpinismo inglese. Forti di una preparazione che, per quanto concerne la roccia, si vale delle innumerevoli palestre disseminate su tutto il territorio e, per quanto concerne invece la neve ed il ghiaccio, delle difficilissime ascensioni invernali sui monti di Scozia, gli inglesi giungono alle Alpi per nulla intimoriti dall’ambiente severo, anzi, con le loro imprese condotte in stile assolutamente classico ed elegante, il più delle volte rappresentano un esempio da imitare anche per gli alpinisti del continente. I primi grandi nomi che nel dopoguerra si affacciano alle Alpi Occidentali, sono quelli di Joe Brown, il «maestro» dell’alpinismo inglese di questo periodo, di Don Whillans e di Chris Bonington. Si tratta di alpinisti preparati su ogni terreno, dotati di una sicurezza interiore eccezionale, che nella pratica si trasforma in una assoluta calma di fronte a qualsiasi situazione. In arrampicata su roccia granitica essi sono assai abili, soprattutto nel superamento delle strette e lisce fessure dove è necessario ricorrere alla tecnica di incastro. Non solo essi cominciano a ripetere i grandi itinerari delle Alpi Occidentali (ed anche delle Dolomiti), sovente in tempi incredibilmente brevi, ma poi dimostrano la loro bravura aprendo anche numerosi itinerari di alta difficoltà. Soprattutto Bonington e Whillans formano una cordata affiatatissima e formidabile, come poi sarà anche dimostrato in numerose spedizioni in Himalaya ed in Sudamerica, dove ai due britannici toccherà un ruolo di primissimo piano e di importanza determinante. Comunque, il primo grande successo inglese data nel 1954, anno in cui Brown e Whillans aprono una nuova via sulla parete ovest dell’Aiguille de la Blaitière, superando alcune lunghezze di corda di estrema difficoltà, a loro giudizio più difficile di ogni altra via da loro percorsa nel massiccio del Bianco.

Resterà celebre soprattutto una fessura alta una trentina di metri (la «Fissure Brown»), che se viene superata in libera arrampicata costituisce un passaggio di una durezza estrema, certamente uno dei più ardui e faticosi del Bianco. Ma generalmente questa fessura viene vinta con abbondante impiego di cunei di legno… Le descrizioni che ci parlano di Whillans, ce lo presentano come una vera forza della natura, un uomo capace di resistere in condizioni assolutamente disperate per giorni e giorni senza battere ciglio. Formidabile bevitore di birra, Whillans è pur sempre in grado di riportarsi nella buona condizione di forma nel giro di pochi giorni, smaltendo gli ettolitri di liquido ingeriti. Egli è stato il grande protagonista dell’alpinismo inglese sulle Alpi ed al di là delle Alpi, prima che giungesse alla ribalta l’ultima generazione britannica, quella di Martin Boysen, di Mick Burke, di Dougal Haston e più recentemente di Joe Tasker, Dick Renshaw, Peter Boardman, alpinisti dalla scorza dura, allo stesso tempo raffinatissimi arrampicatori su roccia e perfetti tecnici del ghiaccio e del misto.

Il Monte Bianco li vede ancora protagonisti nell’agosto del 1961, quando essi, con Ian Clough ed il polacco Jan Długosz, vincono in prima ascensione il difficile Pilone Centrale del Frêney, dove si era svolta la tragica ritirata in cui perirono Andrea Oggioni, Antoine Vieille, Robert Guillaume e Pierre Kohlmann. Durante l’ultimo tratto di scalata i due inglesi vinsero un paio di lunghezze di corda veramente difficili e complesse, rese ancor più delicate dal fatto che essi si trovarono sprovvisti di cunei e dovettero sopperire a questa mancanza con alcuni sassi incastrati nelle fessure! (tecnica comunque assai cara agli alpinisti di scuola britannica: pare che anche Brown ne avesse fatto uso sulla Blaitière!).

Essi precedevano di poco un folto gruppo di altri alpinisti: René Desmaison, Pierre Julien, Yves Pollet-Villard e l’italiano Ignazio Piussi, che per superare l’ultimo tratto di scalata si servirono di una corda fissa lasciata appositamente dagli inglesi.

Va comunque sottolineato il fatto che gli alpinisti di scuola britannica si sono sempre distinti per l’eleganza e la purezza di stile con cui realizzano le loro imprese. Difensori dell’arrampicata libera, essi cercano sempre di ridurre al minimo l’impiego dei mezzi artificiali, ricorrendo ad ingegnosi sistemi (quali i blocchetti di alluminio da incastrare nelle fessure: i famosi «nuts») che cercano di abolire l’impiego del chiodo da roccia, accusato da essi di lasciare una traccia indelebile sulla parete. In effetti l’uso dei «nuts» non lascia alcuna traccia ed è certamente più fine ed elegante, ma non sempre è possibile e non tutti i tipi di roccia lo permettono.

Si può affermare che oggi (2) probabilmente gli alpinisti inglesi sono i più preparati d’Europa e ne danno ampia dimostrazione con le loro realizzazioni sulle Alpi e al di là delle Alpi. Ogni estate decine di cordate di illustri sconosciuti ripetono tutti gli itinerari più difficili della catena alpina e, non son pochi, anche i nuovi percorsi di estrema difficoltà. Ma va anche detto che ormai francesi ed italiani stanno portandosi al medesimo livello. Soprattutto l’alpinismo francese, in questi ultimi anni, ha dato più volte dimostrazione di aver raggiunto un livello decisamente eccezionale su ogni terreno, grazie ad un nucleo di giovanissimi e di non più giovani che realizzano, soprattutto in scalata solitaria, imprese che un tempo sarebbero state impensabili. È veramente impossibile seguire passo a passo l’evoluzione di questi ultimi tempi, ma comunque vi sono alcune realizzazioni che devono essere ricordate: ce ne occuperemo nella trattazione riservata all’alpinismo invernale e a quello solitario. È infatti in questi due canali che si riversano le massime imprese di questi ultimi anni, almeno per quegli uomini di punta che portano sempre avanti il discorso della difficoltà e dell’avventura intesa come superamento dei limiti raggiunti precedentemente. In verità, il gioco si sta spingendo piuttosto in là, stimolato anche da una viva competizione che sempre è stata presente tra le file dell’alpinismo francese. Ma molti si difendono sostenendo che ormai è molto difficile poter trovare sulle Alpi Occidentali delle pareti che siano superabili in stile elegante e pulito (ossia senza riempirle di chiodi ad espansione) e che l’unico modo per liberare il proprio istinto creativo e vivere l’avventura sia quello delle scalate invernali (dove si paga un prezzo di fatica e sofferenza carissimo) e di quelle solitarie (dove le sensazioni sono molto forti, ma dove il rischio è fortissimo). È una affermazione su cui si può essere più o meno d’accordo, ma è comunque un’impostazione che va inserita nella linea dell’alpinismo tradizionale, il quale necessita sempre dell’impresa per avere ripagamento e soddisfazione. Comunque, anche in Francia qualcosa sta cambiando e non sono pochi i giovani saturati da questa ideologia. Essi, come alcuni italiani e come molti americani, vanno cercando un alpinismo che sia più in armonia con gli elementi naturali e che soprattutto non impegni in una lotta nevrotica con se stessi.

La tecnica americana raggiunge il Monte Bianco
Intorno al 1960, in Europa, ancora poco si sapeva dell’arrampicata in Yosemite (California) e delle tecniche colà impiegate. Quando giunsero in Europa alcuni autorevoli rappresentanti di quella scuola (come Royal Robbins, Gary Hemming, Tom Frost, John Harlin) si cominciò a capirne qualcosa di più, anche perché le imprese realizzate da essi sulle Alpi si dimostrarono sul piano della difficoltà (in arrampicata artificiale soprattutto) decisamente superiori a quelle effettuate dagli europei fino ad allora. Ma cos’era che poneva gli americani su un gradino più alto? Una effettiva superiorità tecnica ed atletica oppure soltanto l’impiego di materiali molto più raffinati? Oggi si può affermare con una certa sicurezza che fu il vantaggio di possedere materiali altamente specializzati a metterli in condizione di realizzare imprese più difficili (ed anche naturalmente di poterle concepire dal punto di vista psicologico). L’esperienza accumulata sulle immense muraglie granitiche del Yosemite poteva permettere loro di «vedere» e scoprire dei tracciati possibili sulle pareti del Bianco, dove ancora non esistevano vie. Infatti, almeno in quel periodo, gli arrampicatori europei non erano certo meno abili degli americani in scalata libera, anche se questi ultimi potevano vantare una netta superiorità nelle tecniche interne di progressione (fessure ad incastro).

Forse con troppa facilità venne un po’ mitizzato il loro successo sulle Alpi Occidentali e si badò troppo poco all’importanza determinante che assunsero i mezzi tecnici di cui essi disponevano (chiodi in lega speciale, cunei metallici, assortimento completo di «nuts», chiodini a lama di rasoio capaci di entrare anche nelle rughe più insignificanti del granito, maniglie Jumar per risalire le corde fisse, ecc.). Resta comunque un fatto: quando le loro vie verranno ripetute da arrampicatori inglesi e francesi (le cordate Mick Burke-Mike Kosterlitz e François Guillot-Joel Coqueugniot al Dru e ancora la cordata Guillot-Coqueugniot al Fou), saranno proprio gli europei a superare in scalata libera dei passaggi che dagli americani erano stati vinti in artificiale durante la prima salita. Ben diverso è il discorso riferito allo Yosemite e soprattutto agli arrampicatori che colà agiscono in questi ultimi anni: essi infatti hanno raggiunto, grazie ad allenamenti atletici severissimi e grazie anche ad un «training» psichico che si vale delle discipline di autocontrollo orientali, dei livelli in arrampicata libera che rasentano la fantascienza alpinistica. Ma va detto che sulla loro scia anche gli europei si stanno portando più o meno agli stessi livelli. Non per nulla in Yosemite ora si parla di «super libera».
Ma vedremo in dettaglio più innanzi.

Ritornando alle imprese realizzate sul Bianco, il primo successo è del 1962, anno in cui Hemming e Robbins aprono una variante diretta (quasi una via a sé, sviluppandosi per 600 metri) alla via dei Francesi sulla parete ovest del Dru. Itinerario splendido e di estrema logicità, che oggi è divenuto la più bella e completa scalata su roccia delle Alpi Occidentali, realizzata ormai in esclusiva arrampicata libera. Ma le imprese che testimoniarono l’effettiva supremazia delle loro tecniche in artificiale sono state nel 1963 la via aperta sulla parete sud dell’Aiguille du Fou e quella del 1965 sempre sulla Ovest del Petit Dru.

Al Fou furono protagonisti Tom Frost (certamente uno dei migliori alpinisti d’America), John Harlin, Gary Hemming e lo scozzese Stuart Fulton. I passaggi superati in questa scalata (anche in arrampicata libera, dove si fecero valere soprattutto Frost e Fulton) la ponevano ad un livello decisamente superiore rispetto alle altre vie di roccia aperte fino ad allora sul Bianco. Ma, come già si è detto, solo in seguito alle ripetizioni dei francesi e degli inglesi (Martin Boysen, che è un arrampicatore eccezionalmente dotato in libera) i passaggi artificiali verranno a poco a poco ridotti ed eliminati, fino a farne una scalata libera di elevatissima difficoltà, forse la più dura delle Alpi Occidentali o per lo meno la più difficile su roccia granitica (3).

Diverso è il discorso per la via diretta sul Petit Dru, aperta da Harlin e da Robbins, il quale in arrampicata artificiale su roccia granitica indiscutibilmente è uno dei migliori del mondo. Per vincere la parete, che presenta tratti assai friabili e pericolosissimi, caratterizzati da enormi lastre semistaccate dalla roccia, i due americani dovettero ricorrere a tutte le raffinatezze tecniche di cui disponevano. La loro via è comunque un capolavoro di arrampicata artificiale ed in questo senso è certamente la più dura della catena alpina su roccia granitica (4). Le ripetizioni sono infatti pochissime ed hanno confermato la eccezionale difficoltà e pericolosità dei passaggi. Certamente in quest’impresa viene a galla tutta l’esperienza, il coraggio, la preparazione e l’autocontrollo di uno scalatore come Robbins, il «re» incontestato del Yosemite, superato solo in questi ultimi anni dai rappresentanti delle nuove generazioni, arrampicatori audacissimi e spinti in senso psichico al di là di ogni angoscia e di ogni timore.

Di Harlin e di Frost bisogna ancora ricordare la salita del Pilier Derobé (il pilastro nascosto) del Frêney, realizzata nel 1963. Parleremo più ampiamente di Harlin nella trattazione dell’alpinismo invernale.

Invece bisogna dire qualcosa su Gary Hemming, l’alpinista beatnik, l’alpinista capellone, l’alpinista hippy, come sempre veniva definito a Chamonix e negli ambienti parigini. Hemming è stato un personaggio dei nostri tempi, e dei nostri tempi aveva in sé tutte le contraddizioni.

Trasferitosi in Europa, viveva in Francia e si arrangiava un po’ come poteva a Parigi e a Chamonix, accettando qualsiasi lavoro. E sì che Hemming, come generalmente si suol dire, aveva tutti i numeri per riuscire e per affermarsi nell’ambito del «sistema». Ma la sua era stata una scelta ben precisa e certo non era né un atteggiamento esteriore e nemmeno un adeguarsi ad una moda imperante in America. Non così si potrebbe dire per moltissimi altri giovani, per i quali a volte tutto si riduce ad un atteggiamento esteriore, rappresentato dagli abiti sdruciti e consunti, dalla fascia colorata che raccoglie i lunghi capelli, dai bei discorsi imparati a memoria su tanti libretti che parlano di zen, di yoga, di realtà separata (il famoso Castaneda!), ecc. Ma tutto il più delle volte si riduce soltanto ad un leggero mantello indossato ed è facile d’altronde riconoscere chi veramente ha fatto una scelta precisa e non si è lasciato trascinare dal filone della moda. Oggi molti arrampicano con la fascia nei capelli e per questo credono di riconoscersi in un filone culturale che ricerca un rapporto diverso con la montagna. Invece soventissimo l’alpinismo che essi realizzano è di una violenza inaudita, più che giustificata dai tempi di oggi che costringono l’individuo a sopportare pressioni quasi intollerabili. Ma non è questa la via. E d’altronde la fascia non è che un pezzo di stoffa, i jeans non sono che calzoni di tela un po’ più sdruciti degli altri. Non si riesce a comprendere quale differenza vi sia tra una camicia con cravatta ed una maglietta slavata. Si può forse fare un discorso di comodità. Diciamo piuttosto che ancora ci piace distinguerci, ancora siamo tanti soldati che necessitiamo della divisa che ci viene imposta dagli Alti Comandi.

Si può dire che Hemming fu molto utile, dunque, a chi riuscì a strumentalizzarlo a dovere, a chi ne fece un modello da imitare e a chi ne fece un simbolo da distruggere. Hemming certamente era un grande alpinista, completo su ogni terreno. Ma forse neanche l’alpinismo bastò a colmare quel vuoto che aveva scorto in sé e fuori sé. Forse anche nell’alpinismo aveva trovato tutta quella violenza sorda, quell’aggressività brutale, quell’istinto di distruzione che egli a volte scopriva in sé con infinita amarezza. Hemming avrebbe voluto essere come un bambino e sovente riusciva ad esserlo: amava le cose fini e gentili, il bello, la dolcezza. Ma purtroppo, soprattutto quando beveva un po’, le pulsioni controllate e tenute celate fuoriuscivano con tutta la loro potenza e si scopriva anch’egli violento, sadico, brutale, proprio identico a quei modelli che egli disprezzava o cercava di ignorare. Hemming forse di questo gioco divenne un po’ stanco e lo si può capire e comprendere assai bene. Forse si chiese perché mai dovesse accettare tutto ciò, che senso avesse mai vivere in un mondo dove tutto è storto, sbagliato, inutile, soprattutto inutile, dove nulla veramente ti interessa, dove non esiste reale amore e comunicazione. Hemming non si accettò e non si può dire se fece bene o fece male. Semplicemente non si accettò e preferì autodistruggersi piuttosto che vedersi distruttore e distruggere. Si tolse la vita con un colpo di pistola proprio nella foresta del Yosemite, a seguito di una lite, dove, a causa anche dell’alcol ingerito, si era giunti a mettersi le mani addosso e lo stesso Hemming in un momento di rabbia aveva puntato la rivoltella contro gli amici (il suicidio di Hemming, 1969, in realtà avvenne presso il Jenny Lake nel Grand Teton National Park, NdR).

Bisogna dunque concludere prima di dire qualcosa sull’alpinismo solitario e su quello invernale. Appositamente non ci addentreremo nella narrazione dei fatti di questi ultimissimi anni, perché è impossibile citare qualcosa e qualcuno senza dimenticare troppi altri. E poi ormai siamo nel caos totale, ormai sembra di essere in guerra: ogni estate da tutti i Paesi del mondo si riversano sulle Alpi migliaia di alpinisti che giungono qui con il desiderio di realizzare, di vincere, di affermarsi, di vivere il proprio giorno da leone.

Accanto a pochissimi che fortunatamente hanno capito e si sono ritirati dal grande gioco, dagli ambienti assurdi dei gruppi di élite, dalla muffa dei club alpini, dalla competizione che porta inevitabilmente a dimostrare agli altri il proprio valore, dall’alienante schiavitù dei gradi, dei chiodi usati, dei tempi impiegati, delle discussioni ridicole su chi sia il più forte… vi sono invece migliaia di altri che giungono all’alpinismo carichi come condensatori al punto che la scarica scocca appena viene innescato il meccanismo di salita. Ciascuno vuole vincere, ciascuno ha un proprio bagaglio di aggressività e di violenza da liberare. Così il «grande giardino» sempre più si trasforma in un immondezzaio, in un campo di battaglia dove si svolge una lotta feroce. Forse quelli che hanno capito e che sono riusciti a realizzare con la montagna e la natura un rapporto dolce ed armonico, potranno essere gli spettatori dello scontro finale. Perché non si sa fino a che punto il pianeta possa tollerare la cancrena umana sulla sua superficie e d’altronde è scontato che la presunzione umana dovrà subire un’umiliazione terribile.

Che dire dunque di questi ultimi anni (5)? Dal punto di vista tecnico assistiamo ad un succedersi di imprese stupefacenti, di solitarie realizzate in tempi incredibilmente brevi, di prime invernali effettuate sulle pareti più repulsive e più crude, di un gusto nuovo che sceglie per le prime salite i colatoi di neve e di ghiaccio esposti al tiro continuo dei sassi e dei blocchi di ghiaccio, alle imprese che appositamente si svolgono lungo i pendii che sottostanno alle cascate di seracchi. In tutto questo naturalmente non vi è nulla di male, ma chi ha orecchie per intendere, intenda. Probabilmente non si accetta più un limite che per molti si fa intollerabile: con ogni mezzo si cerca di valicarlo e di andare oltre. Ma vi è un muro contro cui si sbatte o si sbatterà la testa, in quanto l’uscita non è dalla parte del soffitto, ma invece dall’uscio di entrata. Allora ecco che ci si serve anche delle discipline orientali, in quanto si è capito che esse possono portare risultati prodigiosi in campo fisico e psichico. In realtà non s’è capito proprio niente di tutto ciò, in quanto il cammino dello yoga e dello zen porta proprio al contrario e conduce all’eliminazione progressiva dell’aggressività. Ma questo non lo si vuole capire ed allora si cerca di aggiustare le cose in modo che possano andar bene anche «made in USA», e se ci si accorge che non vanno bene, ci si aiuta con i mezzi artificiali e si cerca di arrivare facilmente con un po’ di acido e qualche sigaretta speciale. Ma certamente anche tutto ciò deve accadere e fa parte del «karma» umano, quindi inutile rammaricarsene e dolersene. Piuttosto cercare di uscire dal giro, questo sì, e poter finalmente avere con la montagna un rapporto di vero amore, non di un amore che è tale solo perché esiste l’odio. Probabilmente chi è già arrivato a tanto sorride tranquillo di tutto ciò che sta accadendo: i suoi occhi vedono molto più lontano. E lascia che altri rabbiosamente sfoghino la loro rabbia contro uno specchio gigantesco, che inesorabilmente la ribalta su di loro.

Ma a volte nel buio profondo, qualcosa riesce a brillare di luce propria. Recentemente alcuni scritti di Bernard Amy e di Patrick Cordier, due giovani alpinisti francesi, hanno portato una ventata di freschezza. Anche Patrick Cordier con alcune sue imprese e con il suo alpinismo forse vuol dimostrare qualcosa o forse vuol provocare, comunque è chiaro che egli si è completamente distaccato dal gruppo. Anche un altro giovane francese, Ivan Ghirardini, protagonista di un’avventura allucinante sulla parete nord delle Jorasses in inverno, ha trasmesso attraverso i suoi scritti qualcosa che porta speranza. Il discorso californiano è diverso e necessita di spazio più ampio. Comunque bisogna molto diffidare e capire che anche in Yosemite sono assai pochi quelli che veramente seguono un cammino di ricerca. Anche in California, e più che in Europa sotto certi aspetti, il tecnicismo porta ad un alpinismo estremamente selettivo, dove la competizione ed il bisogno di «performance» sono fortissimi e dove si cerca di risolvere ogni problema in superficie e non in profondità. Non per nulla la preparazione atletica gioca un ruolo fondamentale nella scalata in Yosemite. Ma non per tutti, fortunatamente, è così.

Ma prima di chiudere con le Alpi, dobbiamo interessarci di un personaggio dei nostri giorni, di quel Reinhold Messner che rappresenta e racchiude in sé moltissimi aspetti su cui tanto si è discusso e dibattuto.

Note
(1) Cosimo Zappelli è morto l’8 settembre 1990, all’età di 56 anni, per un incidente avvenuto sul Pic Gamba, la prima torre della cresta sud dell’Aiguille Noire de Peutérey.

(2) L’«oggi» di Motti, come già più volte si è rilevato, è riferito al 1977.

(3) e (4) I due giudizi sono da riferire alla seconda metà degli anni Settanta; in seguito nello stesso Gruppo del Monte Bianco verranno aperte numerose vie decisamente più impegnative.

(5) Le considerazioni di Motti, come si è già detto più volte, risalgono al 1977, ma possono ritenersi in buona parte valide ancora oggi.

17
Le Alpi Occidentali negli anni Sessanta e Settanta ultima modifica: 2025-01-18T05:18:00+01:00 da GognaBlog

Scopri di più da GognaBlog

Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.

4 pensieri su “Le Alpi Occidentali negli anni Sessanta e Settanta”

  1. Quando, tra le parole di Gian Piero Motti, si legge dei giovani Bernard Amy, Patrick Cordier e Ivan Ghirardini, si percepisce perfettamente la voragine di tempo trascorso da allora.

  2. L’analisi di Motti è talmente attuale quanto spietata e profonda, che viene da chiedersi se oggi qualcuno sarebbe in grado di farne una, anche lontanamente, simile.

  3. La storia dell’Alpinismo affascina!
    Gli uomini di cui si parla nell’articolo, con le loro imprese, hanno dimostrato che quello che fa veramente la differenza non è tanto il supporto tecnologico, quanto l’equilibrata combinazione di doti naturali, passione e determinazione.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.