Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(2)
Le colonne d’Ercole
Una forra profonda alcune centinaia di metri, scavata nel vivo granito, difende l’imbocco della Val Codera. Da Novate, l’accesso sembra precluso. A sinistra le cicatrici di numerose cave sul Monte Avedée, a destra un ripido crestone impercorribile. Eppure dietro a queste “Colonne d’Ercole”, là dove non arriva l’auto, è una lunga valle, porta d’ingresso di quel regno di granito che si estende dalla Valchiavenna al Monte Sissone. Una valle che, come tutti i solchi di così cospicuo dislivello in pochi chilometri di sviluppo, alterna i dolci paesaggi di boschi e radure con i valloni realmente infernali che cadono a picco dalle montagne incombenti.
Codera fa parte dei ricordi più intimi. Era inverno, in alto si vedeva il biancore della neve dicembrina, sopra alle case degradanti e circondate da castagni spogli; la locanda era calda di buonumore e di polenta taragna con l’insalata. Alcuni comignoli fumavano. I pochi abitanti rimasti anche in quella stagione si aggiravano operosi, alcune donne trafficavano nella parte della casa attrezzata per la vita all’aperto, gatti sornioni erano raggomitolati al sole di una bella giornata senza vento. Si udivano colpi secchi e cadenzati di martello su piccoli blocchi di granito. Aldo Penone, il falegname, lavorava piatti e ciotole di legno che avrebbe venduto l’estate dopo. Celestino Pisnoli riordinava il piccolo museo della valle, voluto dall’Associazione Amici di Codera. Una donna anziana, vestita di nero, usciva dalla chiesa di san Giovanni Battista: dentro, aveva pregato il Cristo che appare a due Santi in adorazione. Sul muro di una casa gli artigli di un’aquila servivano da attaccapanni.
La Val Codera, che nel 1668 contava 400 anime in 38 famiglie, ha subito negli ultimi decenni uno spopolamento considerevole. I contrabbandieri non passarono mai di qui: inutile e impossibile anche per loro. Il turismo è qualcosa, ma solo da ieri. Nell’800 i viaggiatori si guardavano bene dal mettere piede in una valle che non portava a nessuna montagna famosa, che non aveva bagni termali, cui non si poteva accedere a dorso di mulo. Così i cacciatori del tempo non poterono neppure trasformarsi in guide alpine come in altre valli più fortunate. Lo sci, anche oggi, è del tutto impraticabile. Soltanto il duro lavoro alle cave ha rallentato il processo di emigrazione. L’assenza di strade carrozzabili a legame con il mondo è maggiormente responsabile degli ultimi abbandoni in cerca di fortuna altrove.
“La Val Codera, matrigna e severa com’è, viene considerata dai suoi abitanti una valle mal riuscita, il risultato non felice del Padre eterno che, stanco di sei giorni di lavoro, all’ultimo dovette provvedere a quel supplemento di creazione faticosa, da cui nacque la valle. Si può leggere in questa credenza l’attribuzione al Creatore di una stanchezza che era di questa gente, perché dopo aver lavorato sei giorni in una zona impervia come la loro è difficile poter essere riposati (Elio Bertolina)”.
Dopo le tragiche alluvioni e frane del 1987 si è malamente dato fondo ai contributi statali per il risanamento. L’elicottero ha portato a Bresciàdega ruspe e macchinari per la sistemazione dell’alveo, con conseguente costruzione di strada provvisoria che il tempo guarirà a fatica. Se i lavori fossero stati fatti secondo tecniche avanzate, che richiedono meno cemento e più controllo tramite vegetazione sulle sponde, non ci sarebbe nulla da ridire. Purtroppo non è stato così. Concussione e corruzione a livello regionale non hanno giovato al destino della Val Codera.
Oltre il rifugio Brasca ci sono ancora pochi alpeggi, praticamente del tutto abbandonati. La valle, nella parte alta, è triste. Vi regna una solitudine devastata, uno struggente abbandono su cui vigilano montagne arcigne e aspre, arroccate in difesa, contro un destino di ulteriore abbandono ed erosione. In passato avevo descritto la Val Bodengo, non lontana da qui, come una valle maledetta in cui fosse stato compiuto qualche oscuro delitto, non si sa quando. Non ci si ricordava più del sinistro misfatto ma se ne conservava oscuramente il tormento. Qui nessun omicidio o altra cupa tragedia: solo abbandono e isolamento. Di mano in mano che ci si alza, l’ostile solitudine che ci aveva presi oltre alle ultime baite abitate svanisce, si smorza con l’ampliarsi dell’orizzonte: i vapori del lago riappaiono e ci ricollegano con le “Colonne d’Ercole”. All’Alpe Sivigia sembra di uscire da una prigione assurda e mi tornano alla mente le parole di Bruno Credaro a conclusione del suo libro Storie di guide, alpinisti e cacciatori: “E le nostre montagne? Per loro non è venuto e non verrà il momento di intonare l’epicedio: sono le montagne vicine alle nostre case, quelle che con la vicenda delle albe luminose e dei rossi tramonti hanno segnato il ritmo delle nostre giornate e saranno per i giovani, come sono state per noi, una perenne e generosa sorgente di forza e di vita“. Ma Credaro non poteva prevedere quanto l’uomo possa sbagliare i pronostici. Non solo gli uomini se ne sono andati, non solo è giunto qui chi ha insozzato le fonti prima che s’interrassero da sole: perfino le albe e i tramonti rischiano di non avere più alcun significato. Perché le montagne segnino ancora le nostre giornate la strada è ancora assai lunga.
Oltre ad una certa quota, oltre alle ultime colonie di ontano nano, quando i lastroni di pietra rimangono i soli inquilini del nostro campo visivo e risuonano dei nostri passi, allora le montagne attorno si risvegliano dal lungo sonno dell’anonimato. In basso, contrafforti, valloni dirupati e risalti ci nascondevano quelle cime che ora invece si delineano. Il Pizzo di Prata, che dalla Valchiavenna appare splendida piramide dominante, visto dal fondo valle di Codera è informe. E così il Gruf, o il Pizzo di Bresciàdega. In fondo, la solitudine nobilita. Da quest’alta distesa di placconate giganti questi nuovi profili danno finalmente forma a ciò che prima era solo un nome.
Siamo in quella zona limite dove si entra in punta di piedi con timido rispetto, dove il granito eroso dai ghiacciai e dai venti ha costruito un tempio naturale. In Nepal, tra un villaggio sherpa e l’altro, muri mani fatti di lastre incise di preghiere sono la compagnia del viandante che trova così conforto nella sua fatica e giovamento spirituale. Da un chorten all’altro il tempo di marcia si fraziona, in pratica s’annulla. Un qualunque viaggio, se diventa pellegrinaggio, trasforma il tempo in meditazione sospesa. Lo sa bene chi ha l’abitudine di sgranare il rosario. Qui le cappelle e le orazioni hanno preferito rimanere più in basso, neppure le croci son giunte quassù. Solo qualche ometto di pietra indica la strada ai viandanti che non la conoscono e non pregano: e “la conoscenza è un sentiero con un cuore” (detto amazzonico). In genere questi sono luoghi da evitare, si sale quassù se c’è bisogno, rincorrendo un camoscio o una pecora smarrita. Forse è proprio per il senso di rispetto negativo che “Quando chiedevi ad un valligiano cosa ci fosse là dietro al Badile e alla Punta Sant’Anna, rispondeva sottovoce, quasi sgomento: “la Trubinesca” (Aldo Bonacossa)”.
Un itinerario alternativo per raggiungere Codera passa da San Giorgio e da Cola. Questo percorso è assai istruttivo, soprattutto perché si stenta a credere che l’uomo abbia potuto sopravvivere da queste parti. L’asprezza dei luoghi ha pochi uguali e ci fa riempire di ammirazione per il lavoro sudato per secoli. Da Novate Mezzola si sale in un bellissimo bosco per una ripida mulattiera lastricata in perfetto stato e con qualche passo esposto. Oltrepassata una cava e girato il costone si è nella graziosa conca verdeggiante di San Giorgio, le sue case, piccoli gioielli di granito, e la chiesetta romanica. Oltrepassato il «Sagrà di Pagan» (Sagrato dei pagani), due massi avelli che testimoniano la presenza celtica, s’incontra il Trecciolino. Questo è un sentiero pianeggiante che collega il piccolo bacino di Tiune con gli impianti idrici di Campo. Si entra nell’impressionante Vallone di Revelaso, ai piedi del gigantesco e selvaggio Sasso Manduino, poi se ne esce dal lato opposto. Si può visitare il villaggio di Cola, abitato solo d’estate, compiendo una piccola deviazione. Ripreso il Trecciolino e superata la Val Grande, lo si abbandona per scendere alle poco visibili baite di Ci. Continuando nel castagneto (Codera è ormai vicina sul lato opposto) si scende sul fondo della Val Ladrogno grazie ad un’ennesima scalinata. Un ponte varca l’orrido con una sola campata. Un secondo ponte supera il Torrente Codera, ormai nei pressi del villaggio principale.
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Ho percorso queste montagne da solo e in compagnia, di giorno e di notte, in estate e in inverno. Queste sono le montagne dell’infanzia, dove con la famiglia si stava attorno a un fuoco, si mangiava insieme, e ci si raccontava storie. Questo è il mio mondo sospeso, il mio incubo e la mia gioia più grande, e una sola vita non basta per vivere l’impossibile.
Ci ho passato l’ ultimo dell’ anno un paio di anni fa. Ottimo cibo e vino a profusione. A Cola.ha casa un appassionato di orsi che ne stava completando una scultura nella neve. Il Trecciolino era una profusione di stalattiti di ghiaccio. Al Brasca abbiamo acceso un fuoco nella neve per riacquistare l’ uso dei piedi….Un paradiso fuori dal tempo.
In estate invece mi hanno detto che quad e moto la fanno da padroni e la magia in parte scompare .
In quelle valli si perdono, nella notte dei tempi, le fatiche dei nostri cari antenati. Un luogo di incanto, di magia e il pensiero della cara nonna Cesara che, al rifugio Brasca, ha compiuto il miracolo della vita mettendo al mondo nostra madre.
La locanda ha cambiato gestione da un paio d’anni. Chissà che l’atmosfera non sia rimasta la stessa.
sono stato la prima volta in val Codera nel 1989 . Con mia moglie Sabrina abbiamo fatto un pò di giri. Bello e suggestivo il “trecciolino” che unisce Codera a San Giorgio. Poi una bella camminata oltre il rifugio Brasca per andare a vedere e fotografare la parete nord della Sfinge. Alla locanda di Codera ho conosciuto Gualtiero Colzada che mi diede anche alcune relazioni di vie che aveva aperto li intorno.
Siamo ritornati l’anno dopo, eravamo un bel gruppo di amici, a dicembre a passare la fine dell’anno sempre alla locanda a Codera.
A me queste luoghi che sanno di altri tempi, lasciano il segno.
La Valtellina e le sue valli intorno, sono state le mie prime Alpi. In questo racconto mi perdo tra ricordi di villaggi simili, scoscesi e in bilico tra dirupi che, d’inverno, si fanno neri al mattino presto. Devi guadagnare tracciolini pietrosi per scaldarti al primo sole, dove la neve sembra quasi un manto caldo, rispetto all’umido sudore freddo dei declivi appena superati. E in quelle malghe isolate e vuote, immagini di porre i tuoi libri, un letto e i tuoi sogni.
Sull’erba bagnata, fuori da un uscio di legno chiuso, mangi un pezzo di formaggio duro, avvolto nel vapore del tuo respiro. E una donna vestita di nero, giù dove ancora è buio, accompagna tre capre. La saluto in silenzio. Mi saluta con una mano. Negli occhi un vezzo d’ironia, come a dire: “…se tu sapessi. Va, va a giocare.”