Manca uno storico dei dati ma la sensazione è che siano in aumento. I geologi sulle cause: «Scioglimento del permafrost ed eventi meteo intensi».
20 crolli in 10 anni solo in Trentino
di Simone Casciano
(pubblicato su iltquotidiano.it il 5 settembre 2023)
Così come l’aria rende possibile il volo e contemporaneamente lo frena, così l’erosione è responsabile della bellezza scolpita delle montagne e causa della sua distruzione. Un fenomeno naturale quindi da accettare, ma che forse ha subito un’inquietante accelerazione negli ultimi anni. «In 10 anni i crolli importanti in Trentino, quindi quelli con centinaia di metri cubi di detriti, sono stati almeno 20 – stima Mauro Zambotto, dirigente del servizio geologico della Provincia di Trento – È difficile dire se si stia registrando un aumento perché ci manca uno storico sul passato, ma di sicuro possiamo dire che i cambiamenti climatici stanno avendo un effetto sui crolli».
Le cause
Temperature sempre più alte e aumento degli eventi meteorologici estremi. Sono questi gli effetti ormai documentati del cambiamento climatico che hanno un grande effetto anche in ambiente alpino. Ed entrambi giocano una parte anche in questi crolli. Per le quote più alte, quelle sopra i 2800 metri, è soprattutto il riscaldamento climatico a fare sentire il suo effetto. Le tante giornate ormai sopra lo zero termico significano lunghi periodi in cui non solo i ghiacciai si ritirano, ma si scioglie anche il permafrost. «Il permafrost è una sorta di collante che ad alta quota tiene insieme i vari elementi disgregati della roccia – spiega Zambotto – Se lo zero termico si innalza, come successo nelle ultime estati, scompare questo elemento capace di tenere insieme le rocce fratturate e si generano i crolli in alta montagna».
A quote più basse invece i crolli sono frutto dello stesso processo millenario: l’erosione. Pioggia, vento e disgelo da sempre scolpiscono il territorio montano. L’anomalia recente è il presunto aumento degli eventi intensi, presunto perché anche in questo caso non avendo uno storico di dati su cui fare confronti è difficile stabilirlo con certezza, anche se la sensazione tra i meteorologi è questa. «L’acqua frutto di pioggia o disgelo penetra nei crepacci rocciosi e ne causa il distacco, anche accumuli acquosi possono generare pressione idrostatica e quindi crolli. Di certo gli eventi atmosferici estremi hanno effetti più diretti rispetto alle normali piogge. Se nell’arco di un’ora precipitano più di 30mm di acqua è probabile che questo abbia un effetto diretto sulle montagne. Negli ultimi anni i forti eventi temporaleschi sembrano in aumento e tendono a concentrarsi sui valichi alpini, magari investendo violentemente una valle e risparmiando il versante opposto».
I crolli in Trentino
Il combinato disposto di aumento delle temperature e degli eventi estremi, quindi, ha un effetto diretto sul paesaggio montano. Una ventina i crolli importanti, superiori ai 100 metri cubi, registrati negli ultimi 10/15 anni in Trentino. Se il più recente è stato il crollo delle Cime di Campiglio nel Brenta occidentale, quello è in realtà un distacco tra i più piccoli dell’ultimo periodo, circa 400 metri cubi. Riavvolgendo il nastro si può ricordare l’importante crollo registrato su Cima Lastei nel 2016, quasi 20mila metri cubi di detriti. Le Pale di San Martino sono state testimoni di vari crolli, il più recente nel 2020, quello più significativo: la frana del 2011 dal Sass Maor. Il più grande per quantità è stato quello sul Carè Alto nel 2018, 300mila metri cubi di detriti franarono dalla cima del gruppo dell’Adamello. Fortunatamente, vista l’alta quota e trattandosi di una cima impervia, non ci furono conseguenze. Più recentemente, nel 2022, un crollo di circa 20mila metri cubi ha quasi investito il sentiero che salendo da Molveno attraverso la valle delle Seghe porta nel cuore del gruppo delle Dolomiti del Brenta. Neanche il Latemar è stato immune ai distacchi. Giusto un anno fa un crollo si è verificato vicino alle torri del Latemar. Sempre l’anno scorso si è verificata la tragedia della Marmolada. «Ma quello è un fenomeno diverso, non un distacco roccioso – precisa Zambotto – Lì si è trattato dello scioglimento del ghiacciaio». Particolare la situazione del gruppo del Catinaccio e in particolare della valle del passo Principe e della valle Udai. «Quelle sono zone particolarmente detritiche, quindi precipitazioni importanti ridisegnano costantemente il paesaggio, sono zone che teniamo monitorate anche in collaborazione con i bacini montani».
E quelli altrove
Non è solo il Trentino ad essere soggetto a questo fenomeno, ovviamente. Recentemente un crollo ha portato alla distruzione del bivacco Meneghello nella lombarda Valfurva, ma vicino alla val di Pejo e sul Sassolungo un distacco detritico è arrivato pericolosamente vicino al rifugio Toni Demetz. Sul Carega è caduto l’Omo. La guglia, che da tempo immemore faceva compagnia alla Dona, è rimasta ora vedova del suo compagno. Cima Una in Alto Adige nel 2011 è stata teatro di una delle frane più importanti della storia recente. Tornando indietro nel tempo, chi visita il rifugio Agostini in val d’Ambiez avrà visto e sentito la storia della frana del 1950, arrivata pericolosamente vicina al rifugio e di cui a testimonianza rimane un enorme masso. Appartengono all’antichità invece i Lavini di Marco e le Marocche di Dro, testimonianza detritiche di questo processo millenario che però ha accelerato la sua azione.
I rischi
Durante l’ultimo Trento Film Festival (2023) un gruppo di alpinisti ha preso parte a «Scalare all’inferno», un evento per raccontare la montagna ai tempi dei cambiamenti climatici. Se l’erosione accelera, sarà necessario prestare ancora maggiore attenzione. Difficile individuare zone più a rischio. «Non ci sono gruppi montuosi più a rischio di altri – conclude Zambotto – Quello che conta sono esposizione e tipo di roccia. Sicuramente i versanti a sud che sono soggetti a sbalzi termici più elevati possono essere più instabili. Ma questo non significa che non bisogna prestare attenzione su quelli esposti a nord». Ad essere più a rischio sarebbero le strutture più isolate e su cui quindi l’erosione può avere un effetto più drastico attaccandone la base. Le Torri del Vajolet, le Pale di San Martino, i Campanili del Latemar. Sono queste alcune delle strutture più a rischio. «Le montagne sono scolpite nella loro bellezza dagli stessi fenomeni che ora le minacciano», conclude Zambotto.
I fatti
a cura della Redazione
Lunedì 28 agosto 2023, poco sopra Cortina d’Ampezzo, c’è stata una corposa frana che ha interessato il Passo Tre Croci. La frana è scesa a ridosso della strada proprio in corrispondenza del valico, arrivando a lambire le case a bordo strada e l’hotel. Dopo il sopralluogo dei vigili del fuoco è stata decisa l’evacuazione di 70 persone. Gli ospiti e i lavoratori delle strutture ricettive sono stati trasportati presso una palestra di Cortina. La strada regionale SR48 tra Rio Gere e Misurina è stata chiusa temporaneamente.
Martedì 29 agosto 2023 si è verificato il distacco di un enorme blocco di roccia dal Teston della Schiara, nelle Dolomiti Bellunesi, precisamente dal tratto strapiombante sommitale, sopra la Cengia Sperti.
Sono stati Fabrizio Gaspari e Chiara Dall’Armi, i custodi del sottostante rifugio VII Alpini, i testimoni dell’evento, dopo il quale hanno dato prontamente l’allarme.
L’elicottero del Suem ha effettuato una prima ricognizione, per poi caricare a bordo tre soccorritori del Soccorso Alpino di Belluno e sbarcarli in hovering lungo la Ferrata del Marmol, al bivio con la Ferrata Zacchi, per visionare le condizioni dell’itinerario attrezzato della Marmol. I tre sono quindi saliti al bivacco Marmol per escludere la presenza di persone e scrivere di non scendere lungo la Ferrata. Visionata la Cengia inferiore, interessata dalla caduta di materiale come il tratto in comune tra le due ferrate. Operazioni condotte con difficoltà perché a quanto pare sono ancora in corso scariche di materiale.
L’elicottero dell’Air service center, convenzionato con il Soccorso alpino Dolomiti Bellunesi, ha poi recuperato i soccorritori, per sorvolare l’intero itinerario e controllare anche il bivacco Dalla Bernardina, dove non c’era traccia di alcun passaggio.
Giovedì 31 agosto 2023, nel pomeriggio, è crollata una consistente porzione della parete del Pollice, una delle guglie della Punta delle Cinque Dita, nel gruppo del Sassolungo.
«Se succedeva di mattina sarebbe stato un macello». È il rifugista di lunga esperienza Enrico Demetz a parlare: da decenni presente nella baita che porta il suo stesso cognome e il nome di Toni, la guida alpina morta nel 1952 a soli vent’anni, colpita da un fulmine mentre stava accompagnando degli escursionisti. Demetz ha visto cadere decine di metri cubi di roccia sul ghiaione che guarda verso l’Alpe di Siusi. Momenti di paura che sono stati documentati anche in un video, ripreso da alcune persone lungo il sentiero. Si sentono distintamente le urla, la preoccupazione che, quella frana stia per dirigersi inesorabilmente anche verso di loro. Fortunatamente non è stato così. Il tutto, come sottolinea Demetz, per una semplice questione di orari: i sassi si sono staccati nel primo pomeriggio. «In quel momento — prosegue il rifugista — c’erano poche persone lungo il sentiero. Si sono visti passare i massi vicino. Solo poche ore prima ce n’erano molte di più». La situazione ha allarmato la macchina dei soccorsi. Siamo sul confine tra la val di Fassa e la val Gardena, ma quel punto è in provincia di Bolzano. Sul posto è stato inviato un elicottero dell’Aiut Alpin Dolomites che ha sorvolato l’area identificando il punto del crollo. Lo scopo del sorvolo era anche quello di escludere feriti e di valutare la situazione. Tra le opzioni, una chiusura parziale dei sentieri circostanti, ma nessuna decisione in tal senso è stata presa. Ha continuato regolarmente la sua corsa la cabinovia del Sassolungo, posizionata sull’altro versante e non toccata dalla frana.
L’estate, del resto, si era aperta con un crollo imponente sempre ai confini con il Trentino, sempre in montagne di tipo dolomitico, ma dal lato opposto della provincia: a crollare «l’Omo» del monte Plische che con la sua «Dona» formava la coppia di guglie più fotografata della zona, sul crinale tra Ala e Recoaro Terme. Anche in quel caso, era stata formulata l’ipotesi dello «stress climatico», con il ritorno delle piogge abbondanti dopo tanta siccità. Come pure il parziale crollo dal Campanile del Sengio Bianco, sempre nelle Piccole Dolomiti.
Il 2 settembre 2023, tra le 9 e le 10 di mattina, altro crollo: questa volta sulle Punte di Campiglio, nelle Dolomiti di Brenta. Si parla di 400 metri cubi di roccia distaccata da una quota tra i 2830 e i 2850 metri.
Il fenomeno non ha coinvolto persone, come appurato anche dai sopralluoghi effettuati in elicottero, e avrebbe come causa più probabile lo scioglimento del permafrost in alta quota.
Le verifiche sull’area sono state condotte dalla Protezione civile trentina, dopo la segnalazione arrivata questa mattina da un vigile del fuoco volontario che era in montagna per un’escursione. Sul posto si è prima recato l’elicottero sanitario dei Vigili del fuoco di Trento, per verificare che non ci fossero escursionisti feriti, mentre successivamente si è svolto un altro sopralluogo aereo con a bordo il geologo della Provincia.
Ultimissima
E’ di ieri 10 settembre 2023 la notizia di una cospicua frana sul Cervino. Il crollo di rocce è avvenuto lungo la parete sud, lontano quindi dalle vie normali di ascesa. Certamente coinvolte e stravolte alcune vie, snche moderne. Sulla Cresta del Leone si trovavano delle guide alpine e degli alpinisti che hanno osservato in lontananza il distacco e appurato che non vi fossero persone sulla parete.
La nube polverosa è rimasta visibile da Cervinia per diversi minuti, attirando l’attenzione di turisti e residenti. Un secondo crollo è avvenuto sul versante svizzero del Cervino, nell’area della Cresta di Zmutt.
In via precauzionale, considerate le alte temperature e i crolli, le guide alpine del Cervino hanno deciso di sospendere per oggi le salite alla vetta e di valutare poi come proseguire in base alle condizioni. Non vi sono al momento ordinanze di chiusura della via normale italiana.
Giuseppe, il mio dubbio (che rimane tale) riguarda esclusivamente i fenomeni attribuiti (a mio parere troppo frettolosamente) allo “scioglimento” del permafrost in Dolomiti.
Per il resto, pur comprendendo tutto ciò che scrivete tu e Umberto, rimango convinto (fino a prova contraria) che la percentuale di fenomeni realmente correlati alla disgregazione del permafrost (in Dolomiti) sia molto molto bassa. Altro discorso è il permafrost sottoforma di rock glacier, ben presente in Trentino ma che nulla ha a che vedere con i crolli in parete.
Vedremo se in futuro ci sarà un monitoraggio più puntuale o se si continuerà con le ipotesi e la fantasia.
Tra l’altro, nel link che hai postato (grazie, ma l’avevo già letto, ed è collegato alla mappatura di cui al mio link nel commento 19, peccato che non sia aggiornato da ormai 10 anni) scrivono (ed era il 2012):
Il permafrost montano è molto sensibile ai cambiamenti cli-matici. Nel corso delle ultime estati è stato osservato, ad esem-pio, un aumento dell’intensità e della frequenza di frane e didebris flow nelle Alpi. Alcuni esempi sono il collasso di unamorena a Mulinet (nelle Alpi Graie , lungo la linea di con-fine tra l’Italia e la Francia), le frane in roccia sul Matterhorn(Cervino) e sulla Thurwieser (in alta Valtellina) e un evento didebris flow a Guttannen (in Svizzera).
Regattin, se ho ben capito i tuoi dubbi @14, ti chiedi come possa esistere ancora permafrost a quote di 2800m nelle Alpi (in realtà c’è anche a quote inferiori) con lo zero termico in estate oltre i 4000m e i ghiacciai che stanno rapidamente fondendo da decenni.
A mio parere, ti concentri troppo sulla temperatura ambiente (comunque parametro fondamentale) invece che sulle modalità di scambio energetico, molto diverse fra i ghiacciai (a contatto diretto con l’ambiente esterno) e il permafrost (sotto uno strato termicamente isolante).
I due processi di fusione sottostanno a condizioni fisiche affatto differenti.
Occorre inoltre tener presente che sia i ghiacciai che il permafrost sono sistemi dinamici (complessi), la cui risposta (in termini di massa di disgelo/rigelo vs. temperatura ambiente) dipende non solo dalle condizioni istantanee (temperatura corrente) ma anche e soprattutto dal proprio stato interno, che ne rappresenta la “storia” (ad es. massa totale, temperatura interna, calore specifico, distribuzione fisica della massa, ecc.).
Trovo plausibile, personalmente, la correlazione crolli/fusione del permafrost, benché quest’ultima non sia di certo l’unica causa di destabilizzazione delle formazioni rocciose alpine (come ben puntualizzato – come solito – da Pellegrini @18).
Se sei interessato ad approfondire il tema, ti consiglio:
https://www.permanet-alpinespace.eu/archive/pdf/PermaNETrelazionedisintesi.pdf
P.S. Su titoli e articoli giornalistici stendiamo il solito, pietoso, velo.
Scusa Matteo, conosco bene il fenomeno anche perchè i muri della mia casa sono talmente spessi che in estate, mentre nel cortile ci sono 40°, all’interno ne ho 25° al massimo. Ma non capisco dove volevi arrivare, cioè in sostanza a dire che il permafrost non è sensibile alle temperature esterne? Perchè o si disgrega/riduce/fonde (la componente di ghiaccio) o no, e quello che ho detto nell’altro intervento è che se sta accadendo a 4000 mt, (in attesa di leggere i risultati delle perforazioni alla capanna Margherita in corso in questi giorni) in Dolomiti, cioè 1000 metri più in basso, non può aver cominciato solo ora, tutto qui. Provo ad esemplificare: ci sarà una temperatura esterna X raggiunta la quale a 20 mt di profondità nella roccia la temperatura salirà sopra lo zero. Se questa temperatura è già stata raggiunta (e non da quest’anno) a quote di 4000 mt, a 3000 dove abbiamo (circa) X + 10° sarà o no stata raggiunta qualche decennio fa? E’ un ragionamento così fallace?
Quindi, come sempre, è necessario usare prudenza nell’utilizzo di proxy climatici tout court, ci mancherebbe, e nel generale, le montagne, come sai, sono destinate a scomparire comunque: la loro energia potenziale prima o poi deve essere restituita.
Umberto infatti, è il motivo per cui personalmente sopporto poco titoli come questo:
https://www.rainews.it/tgr/trento/video/2023/09/ancora-un-crollo-sulle-dolomiti-di-brenta-colpa-dello-scioglimento-del-permafrost–c2d0425e-6782-49be-baf0-0f1aa7baa6e8.html
quando gli estesissimi ghiaioni delle Dolomiti sono lì a testimoniare che i crolli ci sono sempre stati indipendentemente dal permafrost, tant’è vero che avvengono anche in inverno.
Infine, cercando un pò in rete, ho trovato questa interessante mappatura dell’Università di Zurigo per tutte le Alpi:
https://www.geo.uzh.ch/microsite/cryodata/pf_global/
cliccate sul link del file kml e aprite con Google Earth
Ciao Luciano. Gli studi sulle frane a quote elevate, dove in genere permafrost e ghiaccio sono visibilmente presenti, mostrano un buon accordo, anche se si discute, sulla correlazione dell’aumento della temperatura media con la frequenza di accadimento franoso.
Più complesso il problema a media quota, dove ghiacciai non ce ne sono, ma permafrost si, anche se non si vede, soprattutto nella dolomia, ben diversa dal metamorfico/igneo come conformazione, e che accetta di buon grado nei suoi meandri la presenza di permafrost a quote dove la temperatura dell’aria ormai è sempre superiore a 0°C: le differenze termiche tra fuori e dentro roccia possono essere enormi, anche a quote basse. A questo problema se ne associano altri, di natura disgregativa fisica, che agiscono da sempre. I cicli di gelo e disgelo, la disgregazione termica (particolarmente efficace in presenza di differenti minerali nella pietra), l’azione di altri agenti atmosferici, il vento e la precipitazione, ad esempio. A questi si aggiungono anche i processi di disgregazione chimica. Tutti alla fine guidati dalla gravità.
Quindi, come sempre, è necessario usare prudenza nell’utilizzo di proxy climatici tout court, ci mancherebbe, e nel generale, le montagne, come sai, sono destinate a scomparire comunque: la loro energia potenziale prima o poi deve essere restituita. Tuttavia in alcuni casi specifici, come dicevo, questa correlazione tra incremento termico e frequenza sembra trovare diffusi riscontri. Del resto, in genere, il drive termico è presente in pressochè tutte le forme animate ed inanimate che abitano la terra. Ho recentemente letto un interessante articolo sul Bostrico e la temperatura media oltre la quale diviene piuttosto “attivo”, e di tale attività ho visto i danni, settimana scorsa, mentre ero a Rocca Pietore, purtroppo.
Sul “buon senso” costruttivo dei nostri avi ha già ben detto tutto Matteo (grazie).
Consiglierei piuttosto una visita al nuovissimo MNU di unipd, sez geologia….e un panino dopo la visita a Giotto
Luciano, temo che la tua logica sia fallace.
Hai mai provato a entrare in una cattedrale quando fuori ci sono 30° o 35°C e provare un bel fresco? Si dice che tengano la temperatura media degli ultimi 100 anni. E sono aperte all’aria e hanno muri spessi appena un metro o giù di li, però la faccia interna della pietra rimane sensibilmente differente alla temperatura dell’aria.
Pensa adesso a quale temperatura può esserci a una profondità di 10 0 20 m all’interno di una massa rocciosa praticamente compatta dal punto di vista termico (almeno in paragone con un edificio, intendo)
Consiglio anche una visita a un crotto valtellinese per studiare il medesimo effetto (con per di più soddisfacenti risvolti sul versante enogastronomico)
Dalla mia esperienza ho notato crolli in Dolomiti piuttosto frequenti e annunciati.
Ho anche notato che se questi ultimi avvengono su cime o vie famose, assumono importanza diversa.
Cito, perché hanno interessato itinerari di arrampicata, a puro titolo di esempio:
– pilastrino all’inizio del primo tiro difficile (6c+) della via degli Scoiattoli sulla cima Scotoni, nel 1989 ca.
-grossa porzione della parete sudest della Torre piccola di Falzarego, primi anni 2000.
-Tetto sulla seconda cengia della Via Paolo Sesto al Pilastro della Tofana di Rozes, anni ’90.
-Torre Trephor delle 5 Torri nel 2004.
Almeno qui il permafrost non credo che c’entri.
Credo invece che, almeno nei casi che ho citato, la percolazione di acqua in fessure e la sua espansione dovuta alla trasformazione notturna in ghiaccio, siano state la causa.
Anche i crolli del Cervino sembrano rientrare in questa casistica.
Quanto più una montagna è verticale, tanto maggiore sarà la possibilità che, a parità di gravità, le porzioni instabili di roccia che la compongono precipitino distaccandosi.
Cosi ho pure dato ancora una volta la possibilità al Prof. Ing. Siorpaes di prendermi per il culo. Contento lui…
Non mi convince il riferimento al permafrost quando si parla di frane in Dolomiti. Se è vero che il permafrost si trova a quote superiori ai 2800 è anche vero che lo zero termico in estate sale normalmente oltre i 4000, non solo negli ultimi decenni. Per logica o il permafrost si è in realtà fuso da molti decenni o le leggi della termodinamica non valgono in Dolomiti. E ancora, è credibile che i ghiacciai stiano fondendo a colpi di molti metri ogni anno (da molti decenni) a quote anche più elevate e in versanti esposti a nord, mentre il permafrost sarebbe resistito in pareti esposte al soleggiamento fino ad oggi per fondersi improvvisamente e “liberare” rocce?
“Di sicuro possiamo dire che i cambiamenti climatici stanno avendo un effetto sui crolli”
Di sicuro si potrà fare boulder ad alta quota con condizioni climatiche ottimali! Per il resto non capisco di quale sicurezza stia parlando. Un conto è parlare di frane, conseguenza spesso di eventi meteorici violenti, altra cosa è un crollo di una parete nel qual caso mi pare di capire che ci si basi ancora su ipotesi più che sulle certezze. Qualcuno si ricorda del crollo della Trephor? (dove tra l’altro, anche se non c’entra con l’argomento, c’erano dei bellissimi monotiri).
PS – Comunque l’ISPRA ha una biblioteca dove sono conservate circa 15.000 carte geologiche della Penisola prodotte a partire dalla seconda metà dell’ ‘800: anche questa è una buona base da cui partire…
Certo Matteo, però come vedi non è stato difficile trovare informazioni sulla frana del Bianco del 1920, cento anni fa…
Credo che con un minuzioso lavoro di ricerca si potrebbe fare. Certo un lavoro lungo faticoso ma credo molto appagante…
L’Istituo di Davos sulle valanghe, ad esempio, ha un archivio a partire dal 1945 (che sono comunque 80 anni), una buona base di partenza, no? Certo che poi qui in Italia bisogna veramente andar per sacrestie….
Marco, a parte che le Alpi sono piene di villaggi scomparsi sotto le frane in tempi storici (solo in Valtellina-Valchiavenna dovrebbero essercene almeno 3 precedenti al monte Coppetto, quindi ‘sto patrimonio è un po’ labile…), mancano di sicuro registrazioni storiche per poter fare confronti di tutte le frane del tipo quella del Pollice o delle punte di Campiglio o anche di quella del Cervino.
Questo perché nessuno le avrebbe viste e, anche fosse, parroco avrebbe mai pensato di registrare qualcosa del genere.
Quindi come giustamente commentato non abbiamo alcuna serie storica a cui fare riferimento. Peraltro per un fenomeno geologico, i cui tempi in realtà non sono nemmeno paragonabili a quelli della storia umana.
Mai avrei detto che il Vegetti avesse addirittura centotré anni! Mi pareva che fosse un po’ meno stagionato…
Comunque, per la sua veneranda età, ha ancora una mente arzilla. Complimenti! 😉😉😉
Certo Marcello! I 103 pesano ma tiro avanti! Comunque sia, non è vero che mancano i dati storici: mancano magari analisi fisico-matematiche, ma la “storia delle frane” è patrimonio delle popolazioni di montagna da sempre. (Basterebbe guardare dove hanno costruito i villaggi nella notte dei tempi per capirlo…)
Vegetti, come fai a ricordare una frana del 1920? Sei così vecchio?
Sensazioni contro dati: scienziati per caso.
Non esisterà lo storico ma se esiste il Canalone Demetz al Sassolungo centinaia di metri di detriti lì da secoli, forse non è solo il riscaldamento climatico. Voglio dire che la marea di detriti ai piedi di tutte le Dolomiti sono testimoni di continui crolli naturalissimi.
(se qualcuno dalle mie parole estrapola che io non riconosca il riscaldamento climatico, è gravemente malato o profondamente complottista all’incontrario: avere un dubbio se sia SOLO quello era il mio chiaro pensiero).
Anche Dante ne parla di quella del Pez….ci sono sempre state e sempre ci saranno. In fondo non sono le pareti dolomitiche ad emergere dai ghiaioni ma il contrario. Quello che manca è lo storico per poter determinare se e come sta cambiando. In fondo senza storico delle temperature e dei gas serra non potremmo certificare la crescita di entrambi. Così come senza centraline non avremmo limiti alla circolazione in città
Delle frane sulla parete sud-est del Pilier D’Angle ne parlava anche Bonatti, definendola fucina delle frane. E nonostante tutto ci aprì una via con Zappelli.
L’articolo lo dice chiaramente che non essendoci dati storici non si può essere certi dei motivi. Però dice che si registrano crolli sempre più frequenti di parti sempre più piccole e che (fatalità?) in contemporanea di aumenti e perdurata delle alte temperature. L’articolo è pure chiaro sull inettuabilità delle frane . Se puoi si vuol negare il riscaldamento o di chi dia la colpa…..passo
Vedi Marco, se tu cammini sull’orlo di un burrone estremamente sduciolevole prima o poi scivoli e cadi a meno che non arrivi qualcuno, ti dia una spinta e cadi prima e non poi…ecco, la spinta nel caso del susseguirsi di crolli e smottamenti diffusi su tutto l’arco alpino e non solo su una vetta specifica di esso corrisponde al riscaldamento globale. Certo è sempre successo e sempre succederà…prima o poi che si modifichi la crosta terrestre. E nulla da eccepire sulle cause che pur antropiche sono sempre naturali…dunque andiamo avanti così che andiamo bene…ma non benissimo
Riscaldamento globale o no, ricordo che un enorme distacco avvenne nel novembre 1920 (14-19 novembre per la precisione) sul versante italiano del Monte Bianco, tra la Brenva e il fianco Sud Est del Gran Pilier d’Angle, giù fin nella Val Veny, con importanti modificazioni, vista l’entità, persino del Col de Peuterey. I crolli sono durati un decennio, fino al grande smottamento del 8 settembre 1929.
Mi chiedo: e se non fosse tutto sempre addebitabile al cambiamento climatico (ne 1920-1929?!)?