Riproponiamo questo datato articolo non allo scopo di dimostrare che lo sviluppo delle competizioni di arrampicata sportiva sia stato un male per l’alpinismo. Il nostro motivo ha a che fare piuttosto con la curiosità che oggi destano le polemiche di un tempo. E’ stupefacente però come certi aspetti dell’attuale alpinismo siano stati descritti così bene dalla lucida visione di Pinelli. Ma è nostra opinione che questo tipo di evoluzione si sarebbe affermato comunque, gare o non gare.
Le gare, imbarazzo della libertà
di Piero Spirito
(pubblicato su ALP n. 17, settembre 1986)
È bastato un anno perché le roventi polemiche diventassero tiepidi conciliaboli. Dai furori dibattimentali si è passati presto ai freddi ragionamenti pragmatici, l’italica adattabilità ha prevalso e i paladini delle gare sì gare no, hanno deposto le armi spuntate dal non uso per meditare assieme con rassegnata calma. Il cambiamento si avvertiva nell’aria, ma è stato solo durante il canonico dibattito trentino del maggio 1986, compreso nel più famoso Filmfestival, che si è manifestato nella sua interezza. Erano davvero tanti: tutti riuniti all’ombra di una nube radioattiva per vedere un po’ che cosa deve fare il CAI con queste gare che sembrano sconvolgere l’ordine del mondo, ma qualcosa bisogna pur fare, dicevano, il massimo club non può star lì a guardare muto e indeciso in eterno. Non tutti però hanno capito come svolgere esattamente il temino. I solisti sul podio hanno per lo più intonato arie già sentite, e tra scambi di cortesie, ammuffite indignazioni e divertenti sproloqui, sono state poche le voci degne di menzione.
Tra queste quella di Gianni Battimelli, distruttore dell’etica e di tutti quelli, difensori e detrattori, che non trovano, come lui, sospetto il «bisogno di chiarezza: quella che chiamano confusione è invece ricchezza». E quella di Carlo Alberto Pinelli, accademico e presidente della Commissione per la Tutela dell’Ambiente Montano. Di lui riportiamo quasi per intero l’intervento (per molti aspetti simile a quello di Battimelli) che, pur nella ripetitività di alcuni concetti, è sicuramente uno dei più stimolanti mai ascoltati da molto tempo a questa parte. Dopo una lunga planata introduttiva in cui ha ricordato ai presenti che l’umanità ha ben altre urgenze che le gare d’arrampicata, Pinelli è entrato in metafora e vi ha sguazzato quanto bastava per analizzare il primo stadio di una «mutazione genetica dell’alpinismo, mutazione appena iniziata, il cui successo dipende dalla sua compatibilità con l’ambiente culturale e sociale con cui interagisce». Se avrà successo la nuova specie, l’arrampicata sportiva appunto, potrebbe anche condannare la specie madre (l’alpinismo tradizionale) all’estinzione. Quindi è il caso di preoccuparsi: «Dobbiamo prendere posizione, non aver paura di dare giudizi di valore, perché una risposta, qualunque essa sia, implica necessariamente un giudizio di valore. Non solo e non tanto sulla pratica dell’arrampicata sportiva in sé, che è comunque un gioco, ma sul retroterra culturale da cui dipende il suo eventuale successo. Cioè sul modello di società, sull’ideologia che la secerne e la sostiene. Il giudizio sull’arrampicata si ribalta in un giudizio sulla società che produce questa arrampicata».
Rispetto all’alpinismo tradizionale, l’arrampicata sportiva fa dunque di un mezzo un fine, e l’esperienza alpinistica viene semplificata e ridotta in un «agonismo cristallizzato nella sua forma più elementare: le regole di una gara». Dopodiché Pinelli ha continuato: «L’esperienza d’arrampicata, nata in montagna, viene ridotta nelle gare al massimo della sua riconoscibilità, per poter essere facilmente compresa e assimilata anche con i rozzi strumenti di lettura che la cultura del consumo offre ed impone oggi alle masse. L’alpinismo non solo fonda il suo senso sulla complessità, ma il suo valore sta proprio nell’irriducibilità delle sue motivazioni entro gli schemi di comprensione di una società competitiva, mercializzante, macchinistica, in cui è facile correre il rischio di non distinguere i beni che possono essere consumati, gettati e sostituiti, dai beni immateriali che offrono un nutrimento solo se non vengono consumati. L’alpinismo, come tutte le attività creative affacciate sull’utopia, non può rinunciare ad avere una “porta stretta”, aperta a tutti, si intende, ma stretta. Anche a costo di essere contro corrente, proprio per essere contro corrente.
Illuminante in questo senso il tema dell’agonismo che i fautori delle gare usano spesso per tirare acqua al loro mulino. Dicono: l’agonismo nell’alpinismo c’è sempre stato ma era farisaicamente mascherato dietro cumuli di orpelli retorici. Almeno ora è venuto alla luce senza complessi. Però la frittata può anche essere rivoltata. Le motivazioni che spingono l’uomo a impegnarsi in un’azione stravagante e gratuita come l’alpinismo sono sempre contraddittorie. Tra queste c’è sempre stato anche l’agonismo. Perché una certa dose di agonismo fa parte della psicologia umana e non è eliminabile. Tutto dipende dalla dignità culturale che siamo disposti a concedergli. Sapere che l’agonismo c’è è un conto, farne il perno centrale delle nostre azioni un altro. Se l’agonismo è venuto qualche volta in primo piano come motivazione totalizzante, gli alpinisti, soprattutto i grandi alpinisti, non possedevano la chiave per leggere l’esperienza in cui erano coinvolti nella pienezza dei suoi significati. L’agonismo rappresentava allora come ora la risposta più facile che la società metteva loro a disposizione. Le gare rispetto alle competizioni di un tempo rappresentano un vero e proprio salto di qualità, secondo me negativo, misurabile in una enorme perdita di libertà, libertà di scelta, libertà creativa, libertà di contraffazione. E ci torno subito: le gare testimoniano la paura, l’imbarazzo della libertà. Nascono dal bisogno di appoggiarsi ad un giudizio esterno autorevole, obiettivamente certo, e non al proprio giudizio interiore. Ho parlato di libertà di contraffazione: i fautori delle gare sostengono che proprio grazie alle gare oggi è sempre meno possibile falsificare gli exploit: tutto accade alla luce del sole di fronte al pubblico e alla giuria, si vede subito chi bluffa e chi no. Io sostengo invece che è bene il contrario. Proprio nella possibilità teorica della contraffazione o falsificazione sta uno dei più interessanti meriti dell’alpinismo classico. Non importa stabilire qui se i singoli alpinisti dicono o non dicono la verità: se la vedranno con la loro coscienza. Importa che la loro parola non venga messa in discussione. Questo aristocratico atto di fiducia programmatica è una delle eredità più preziose dell’alpinismo. Tale eredità è stata molto incrinata da maldicenze, pettegolezzi, è vero, ma ciò non toglie nulla alla nobiltà esemplare che essa offre e propone. Il valore morale, emblematico, di un simile atteggiamento si misura non dai suoi fallimenti, anche se fossero molti, ma dai suoi successi, anche se fossero pochi.
Infine il rapporto con la natura: rapporto che significa sintonia con i ritmi della natura, le sue leggi, i suoi pericoli, le sue durezze. Questo nell’arrampicata sportiva viene ridotto al minimo, emarginato, negato. La parete diventa un “tam tam verticale” che permette e stimola un solo tipo di esperienza.
Sin qui ho cercato di dimostrare la intrinseca maggior ricchezza dell’alpinismo tradizionale rispetto all’arrampicata sportiva orientata verso le gare. Perché, però, non dovremmo avere indulgenza? Perché dovremmo esprimere un giudizio negativo come se si trattasse di qualcosa di illecito? Non rinnegheremmo proprio quella libertà che poco fa abbiamo invocata? Le gare di ararpicata non sono meno belle e lecite di quelle, ad esempio, di canottaggio. Però attenzione, ogni cosa va giudicata nei suoi effetti generali: niente è neutrale, niente è isolato. Le gare di arrampicata sono una mutazione troppo vicina alla specie di origine per non avere su di essa un’influenza, esse spingono sull’alpinismo e sull‘immagine dell’alpinismo banalizzandola. Per il pubblico l’alpinismo è sempre stato di difficile comprensione, ha sempre rappresentato una scelta difficile che costava uno sforzo di fantasia e un impegno direttamente culturale. La gara sportiva ha il difetto di presentarsi anche come scorciatoia mistificatoria verso l’alpinismo che si sovrappone alla proposta complessa dell’alpinismo, e ne inibisce in parte la diffusione. Per questo rappresenta, intellettivamente, un pericolo. Le gare non contengono nessun elemento di sfida culturale/intellettuale, nessun elemento di scandalo. Anzi permettono di dire a chi l’alpinismo non lo ha mai capito, “ecco, finalmente lo abbiamo smascherato, è una gara atletica come un’altra”.
Concludo citando una frase dell’amico Emanuele Cassarà che racchiude, in una sintesi mirabile, tutto ciò contro cui io combatto: “in qualsiasi gioco – dice Cassarà – se non si vince mai non si può provare piacere a continuare”. La proposta rivoluzionaria dell’alpinismo era, ed è, proprio quella di trasferire la futile vittoria cui allude Cassarà, una vittoria contro un avversario esterno, tipica della società competitiva, nella significativa e durevole vittoria contro se stessi, anzi nella scoperta di una parte segreta di se stessi, attraverso lo specchio duro ma limpidissimo dell’ambiente montano».
Il commento
di Carlo Crovella
Questo articolo, che mi è ricapitato in mano quasi per caso (cercavo altro), certifica che, dal 1986 ad oggi, in certi risvolti è passato molto tempo (le gare attuali sono tutte su strutture artificiali, cioè su cemento con prese di plastica, spesso in strutture indoor, e infine sono entrate nel programma olimpico), ma per altri aspetti il dibattito era già chiaro allora. Personalmente considero le gare di arrampicata (specie nella versione attuale) un’attività del tutto slegata dall’alpinismo. E’ la classica costola che si è staccata alcuni decenni fa e ha percorso un suo itinerario completamente indipendente dalla disciplina madre. Nulla di male: il fatto che a me non interessino (neppure da spettatore) le gare di arrampicata non intacca la loro legittimità. Ma le gare non c’entrano più nulla con l’andar in montagna. Vi sono alcune persone che amano e praticano entrambe le discipline (e fanno benissimo), ma questo non avvalora la comunanza delle discipline stesse. Per esempio io pratico alpinismo e (in città, ormai da amatore) canottaggio e scherma, ma non sostengo che queste attività siano risvolti della stessa disciplina. Altri miei amici di montagna durante la settimana giocano a calcio (oggi più spesso calcetto) o a basket o a tennis, o vanno in sala pesi… Ma nessuno collega queste discipline con l’alpinismo e lo sci. Quindi teniamo separati i mondi, fra alpinismo e gare di arrampicata (compresa anche l’arrampicata su strutture artificiali, in genere indoor, svolta in modo amatoriale): aspettative, obiettivi, ideologie, tematiche, modi di ragionare non sono (o non sono “più”) comuni. A maggior ragione il fenomeno vale per chi inizia ad arrampicare direttamente su plastica e si dedica solo (o principalmente) a quello: che c’azzecca con l’alpinismo? Lo tratteggiava già Pinelli 35 anni fa, quando descriveva un quadro allora prospettico e oggi avverato. Quindi ognuno abbia il suo spazio, anche ideologico ed espressivo, ma sia chiaro a tutti che le matrici concettuali non sono più comuni.
19
Buona notte a tutti.
Non voglio fare inutili e, soprattutto, sterili polemiche.
Mi sembra che, sia Lorenzo che Antonio Mereu, abbiate spostato il focus dal discorso di Carlo Alberto Pinelli, incentrato principalmente sul dualismo alpinismo-arrampicata in ambito CAI, problema sollevato, a mio modesto parere, per lo meno qui in Piemonte, più che dalle gare dal movimento del Nuovo Mattino.
Se vogliamo analizzare il contesto socio-economico in cui si è sviluppato il fenomeno dell’arrampicata “sportiva” e quali siano stati i rapporti di causa ed effetto, di reciproca influenza che hanno caratterizzato lo sviluppo dell’arrampicata e dell’alpinismo, dagli anni ’70 del secolo scorso ai giorni d’oggi, dobbiamo uscire dalla mera analisi tecnica-ambientale delle due attività, ma contestualizzarle nell’evoluzione (o involuzione) della società.
Concordo anche io sul fatto che saremmo arrivati allo stesso punto odierno pure senza le gare.
Forse queste hanno leggermente accelerato, ampliando la conoscenza dell’arrampicata fra le giovani generazioni, l’arrivo a questo punto, ma credo che, nel complesso, siano state ininfluenti.
Ci saremmo arrivati comunque!
Si cita il brevettato Grigri, dimenticando che praticamente tutti gli attrezzi meccanici che agevolano sia gli alpinisti che gli arrampicatori vengono dalla speleologia.
Ho cominciato con il mezzo barcaiolo, poi è arrivato il discensore/assicuratore a Otto (durante le gare abbiamo assicurato gli atleti con esso), oggi in falesia usiamo il Grigri o similari mentre in parete preferiamo il Secchiello e la Piastrina.
E che dire dell’evoluzione delle manovre di corda?
Questa evoluzione ci sarebbe stata senza l’arrampicata sportiva?
Certo che sì.
Basti pensare all’evoluzione dell’abbigliamento tecnico da montagna, degli scarponi, degli attrezzi da ghiaccio, degli zaini, evoluzione completamente slegata dall’arrampicata.
Certo le case produttrici di attrezzature per l’arrampicata ci sono andate a nozze però hanno anche aumentato la ricerca sia per aumentare le performance dei materiali e sia per aumentare la sicurezza (qui entriamo in un campo minato) di chi pratica l’alpinismo e/o l’arrampicata.
Sono nate le sponsorizzazioni, sulle quali avrei molte riserve (per lo meno su certi tipi di contratti), ma non capisco perché per questo si demonizzi l’arrampicata.
Il circuito delle gare di freeride è sponsorizzato, molti freerider sono sponsorizzati, solo per restare nell’ambito montagna perché se ci guardiamo attorno, in tutte le attività sportive, gli atleti di un certo livello sono sponsorizzati.
Perché li arrampicatori no e certi alpinisti sì?
Le convenzioni sociali, le condizioni economiche sono figlie della società in cui viviamo e che noi abbiamo creato e sono esse a governare le nostre scelte, siano consapevoli o inconsapevoli, corrette o sbagliate.
Possiamo essere in accordo o in disaccordo con il modus operandi che la nostra società tenta di imporci, ma non possiamo, nostro malgrado, prescindere da esso perché siamo figli del nostro tempo.
Tutto questo pippone per dire sostanzialmente che io invertirei il punto di vista non è, e non è stata l’arrampicata a influenzare il modello socio-economico ma piuttosto questo a modellare la storia e le scelte dei praticanti l’arrampicata.
L’arrampicata non sfugge dal contesto attuale: è anch’essa figlia del nostro tempo.
Concordo anch’io con la redazione gare o non gare si sarebbe arrivati alla logica situazione/evoluzione attuale. A mio avviso il peso maggiore o contributo lo hanno dato (consapevolmente)le sponsorizzazioni delle ditte prima quasi artigianali e che poi sono diventati colossi e divoratori del nuovo (si fa per dire )gioco portando poi masse verso il comodo della plastica. Ma pure ogni singolo ha dato la sua parte e non c è assoluzione , la vera gara prima delle gare era trovare e provare sempre nuove comode e grippanti scarpe ,nuovi imbraghi ultra fascianti e morbidi nuove corde e discensori fino al brevetto satanico del grigri …inizio dell’ inizio della fine ,adesso anche tutte scimmie dello zoo possono fare la porca figura e fare sicura.
Da una gabbia a un altra.
Fregava poco se un nuovo mattino non diventava traino e perdeva nel tempo ideali e nuovi adepti ,anzi la novità e lo spazio chiuso paradossalmente ha permesso di far fingere di capire finalmente la follia lucida del climber che poco fino a prima delle sale e palestre si era palesata .Poco interessa il passato anche se dentro a Eden e miti ,ora si passa tutti dentro al sexy shop delle prese uniformizzate distinguibili e ben colorate banalizzando proprio la libertà dentro l artifizio . E’ il progresso baby…paga il biglietto…e divertiti.Spero che l’accessorio per il ludico e sportivo divertimento possa presto essere la porta (non solo per pochi)per nuove grandi e piccole pareti ritrovate e giocarVi insieme qualche altro asso(nel senso di carta) da gioco, ma per ora oltre ai bei gesti e lanci spettacolari al limite dell’umano vedo poco orizzonte e dislivelli da colmare, insomma par di sentirli” belle le montagne ma che noia sti c@££o di avvicinamenti” …restiamo al confortante caldo sudato umido del sintetico a competere a suon di secondi e centimetrj col nuovo cronometrino , ovvio.
Alberto, limiti il discorso alla diatriba alpinismo/arrampicata e alle gare improbabili in uno e possibili nell’altra.
Estendolo alla competizione come consumo e quindi come merce diviene esponente del consumismo e amplia il discorso, che diviene sociale. Chi sostiene consapevolmente o incononsapevolmente tale deriva sostiene sostiene anche gli elencati “voli pindarici”.
Per quanto mi riguarda sono culturalmente centrali.
Buongiorno a tutti, spero abbiate passato un buon ferragosto.
Intervengo brevemente sul tema alpinismo e arrampicata e relative gare.
Mi sembra che, indipendentemente dall’articolo di Carlo Alberto Pinelli del lontano 1986, a distanza di trentasette anni dall’evento di Sport Roccia a Bardonecchia, si debba uscire dalle congetture relative ai rapporti tra arrampicata e alpinismo.
Ormai è conclamata l’esistenza delle competizioni di arrampicata, che sono la conseguenza diretta di un sport, nato, ovviamente, prima delle competizioni, che, guarda caso, è stato chiamato arrampicata sportiva.
Ormai è chiaro, credo a tutti i conoscitori di tale sport, che non c’è alcuna relazione tra quest’ultimo e l’alpinismo, anche se, come detto dal signor Bragantini, l’allenamento per l’arrampicata può essere utile a migliorare le prestazioni alpinistiche.
Non concordo, invece, sul fatto che questo possa generare una, pur lontana, parentela tra le due attività, né, tanto meno, rischio di confusione o contaminazione.
Conosco persone che arrampicano (felicemente e senza competere) senza pensare minimamente a praticare l’alpinismo e viceversa.
Esistono anche persone che, sempre felicemente, le praticano entrambe.
La competizione sportiva (e non) è sempre stata una prerogativa della razza umana e credo che siano, in molti casi, gli stessi genitori a spingere i bambini che praticano sport a competere.
Nel campo dell’alpinismo si è sempre assistito a un forte spirto competitivo, a partire dalla conquista del Cervino: Whymper e Carrel.
Evidentemente è praticamente impossibile organizzare delle vere e proprie competizioni alpinistiche, mentre è relativamente facile farlo per l’arrampicata.
Mi pacerebbe sapere perché sono nate, a partire dall’evento di Bardonecchia, diatribe e polemiche sulle competizioni alimentate, a volte, da affiancamenti a temi scollegati con l‘essenza dell’argomento, veri e propri voli pindarici (vedi Lorenzo: per questo serve una nuova pista da bob, un telo per coprire il ghiacciaio, un incidente per ripristinare le opportune manutenzioni, medicine a piene mani per una crescente alienazione, il globalismo “per un’economia fiorente”).
Per concludere poi, parliamo anche delle gare di scialpinismo e di freeride?
Perché non sono state oggetto di attenzione come l’arrampicata?
Forse perché ci si è resi conto che la contrapposizione tra arrampicata e alpinismo fa più “ascolto”!
Grazie per l’attenzione e un caro saluto a tutti.
Alpinismo ed arrampicata di difficolta’ sono gia’ essi stessi due cose diverse. e allo stesso modo scalata sulla plastica ed arrampicata su pietra si assomigliano ma sono ben diverse .Ma io non vedo dove sia il problema , se non l’approccio culturale al mondo del consumo che la arrampicata su plastica comporta…(cito Merlo) e poi non c’e’ stata nessuna catastrofe dall’avvento delle gare di scalata. I pochi che sono migrati dalle gare alle pareti testimoniano un livello tecnico ed atletico che significa non solo prestazione ma piu’ in generale padronanza . Sono pochi ma l’alpinismo e la arrampicata da grande parete non sono defunti , sono un po’ demode’ presso i neofiti …Direi che da non amante della competizione diretta comunque preferisco un atleta da gara ai tanti presunti climbers che arrancano da un chiodo all’altro sulle falesie iperprotette, autentica negazione del ‘sapere arrampicare”.
Non ho letto il pezzo.
Il valore di fare presente la nostalgia riguarda la critica alla modernità, al progressismo. Entrambi votati a salire sulla scialuppa della storia buttando a mare il bambino insieme all’acqua sporca.
Per questo serve una nuova pista da bob, un telo per coprire il ghiaggiaio, un incidente per ripristinare le opportune manutenzioni, medicine a piene mani per una crescente alienazione, il globalismo “per un’economia fiorente”.
Fare presente cosa abbiamo buttato via come non contasse più nulla è evocare umanismo, è abdicare al cinismo, è parlare di comunità in sostituzione ad individuo, è ricordare la profondità unificante della tradizione e quella lacerante del liberismo.
Il bel discorso di Pinelli mostra come si può approfondire il tema, mostrando limiti, vantaggi e implicazioni delle diverse scelte. Resta vero che, se si vuole, arrampicare al chiuso aiuta a migliorare anche in montagna. Quindi una parentela, non poi tanto remota, resta. E di qui il rischio di confusione (se non di contaminazione). Sappiamo d’altronde che il rischio è ovunque e certo non sarà l’alpinismo o l’arrampicata a eliminarlo.
Sarei curioso di sapere quale era la collocazione socio economica di certi critici del consumismo. Perche se critichi la societa dei consumi come emarginato che ne gode parzialmente i benefici, e si trova meglio in una società più tradizionale, è una cosa, altrimenti il tuo discorso puzza subito.
Pinelli vagheggiava concetti in un romanticismo fantastico he teneva insieme aristocrazia e libertà. Pensierinizzava legittimamente sul bel mondo antico, il suo mondo, che ahilui stava scomparendo.
Per fortuna signora mia non è più come una volta, figuratevi che si sposano tra uomini.