Di questo articolo esistono anche altre versioni:
quella più tecnica uscita sul #97 della rivista Neve e Valanghe di AINEVA:
https://aineva.it/pubblicazioni/neve-e-valanghe-97/
l’articolo originale, presentato alla conferenza ISSW (in inglese):
https://arc.lib.montana.edu/snow-science/objects/ISSW2023_O12.04.pdf
e la medesima versione, in italiano:
http://www.caimateriali.org/images/pdf/ISSW2023_paper_276-ITA.pdf
L’elefante ha partorito un topolino
(dove iniziare lo scavo? I numeri parlano chiaro!)
di Davide Rogora e Gianni Perelli Ercolini
(pubblicato su Lo Zaino n. 20, febbraio 2024)
Le novità sono presto dette. Quando mai ci si dovesse trovare a tentar di salvare la vita di un compagno di gita travolto e sepolto da una valanga, le operazioni di scavo vanno iniziate in prossimità della sonda andata a segno per localizzarlo. Mica balle: “… iniziare a valle, e spostarsi di tanto quanto è sotto…”, “… cominciare a scavare più indietro, del doppio della profondità di seppellimento…”; ecco, fate così e al vostro socio gli bruciate un tot di punti percentuali delle chances che avrebbe di scamparla se invece faceste come si dice di fare nel manuale dei CAIANI.
Nota bene, sepolto significa tutto sotto, non un po’ dentro un po’ fuori. Può esser poco o tanto, ma tutto. Poco è fino a mezzo metro con neve coesa, ovvero 70 centimetri con neve soffice. Soffice è quando lo scarpone vi sprofonda tutto, e in queste speciali circostanze il manuale specifica chiaramente come comportarsi diversamente.
Qualora fosse sotto un metro, la faccenda sarebbe già molto seria. Meglio non improvvisare, imparare ex ante un protocollo d’azione collaudato e ogni tanto allenarsi per evitare l’impedimento da ruggine accumulata. Così facendo, a parità di altre condizioni determinanti, si avrà quantomeno la coscienza in pace per aver fatto… tutto il possibile. Per la giustificazione tecnica di questa affermazione vedremo oltre, un po’ di pazienza.
Queste brevi note vorrebbero invece raccontare la storia, il dietro le quinte, di come e perché si sia giunti a ciò; e una storia che si rispetti dovrebbe allora cominciare così:
“C’era una volta il direttore di una scuola centrale di scialpinismo, di un grande e blasonato Club di alpinisti, che trovandosi a dover aggiornare i contenuti del manuale con cui insegnare, si pose l’ambizioso proposito di stabilire quali tecniche adottare, fra le varie possibili, sulla base di evidenze tangibili e ripetibili anziché sulla base della ‘voce dei senatori’…”.
Egli auspicava il dibattito “scientifico” di tutte le tesi in quello specifico ambito (l’intervento di soccorso in valanga) mediante il confronto fra tutti i portatori d’interesse: istruttori del Club, esperti in neve e valanghe, guide alpine e soccorritori, sia civili che militari per giungere ad una sintesi che superasse lo status quo del “noi facciamo così”, “quelli fan cosà”, “gli altri van per la loro strada”… come era. Correva l’anno 2012 (!) e seguirono alcuni incontri, qualche timida prova in campo, ma fu presto chiaro che fra dichiarazioni d’intenti e svolgimento di incarichi c’è di mezzo il solito mare del dire/fare.
La storia prosegue, e si capì ben presto che per arrivare a un dunque sarebbe stato più efficace concentrarsi sul dominio specifico di competenza, l’autosoccorso, procedendo il più speditamente possibile con le forze del Club e i pochi enti esterni concretamente interessati. Furono tempi di intenso lavoro. Sia concettuale, per osservare cosa/come si facesse in giro per il mondo, affinare le tesi pro/contra, specificare i protocolli più rispondenti all’esigenza. Sia, non certo meno importante e assai pratico con numerose e faticose sessioni di sperimentazione in campo, innevato. Sforzi che più di una volta hanno visto molti volontari dedicarsi alla causa dalle prime luci dell’alba, al far della sera.
Gestazione conclusa, travaglio assolto, nel 2017 la Scuola Centrale di Scialpinismo del famoso Club mette un punto fermo: l’aggiornamento del protocollo di autosoccorso in valanga è definito, e finito. Visto, si stampi!
Cosa c’era di così “nuovo” nell’elaborato offerto alla comunità didattica (ma non solo) del famoso Club? In sintesi, tre caratteristiche: lo stato dell’arte sul come fare, scelto in base ad evidenze oggettive e ripetibili; la progressività chiaramente indicata del cosa imparare, in funzione delle capacità iniziali dei soggetti interessati, distinte su tre livelli d’esperienza; l’abbandono dell’approccio enciclopedico, cioè il tentativo di descrivere tutte le tecniche note e possibili per amor di completezza.
Liberi tutti, allora, fino al prossimo aggiornamento, previsto per le calende e chi vivrà vedrà, se saranno romane o greche. Nel frattempo però si registrava, osservando fonti web o partecipando ad eventi rivolti ad un pubblico più ampio dei soli soci o allievi dei corsi del famoso Club, che i concetti del nuovo “manuale”, se non addirittura i medesimi contenuti, erano riutilizzati o addirittura copiati a piè pari, anche da altre figure di spicco tanto dalla sfera dei professionisti quanto da quella del soccorso organizzato, ma anche da volenterosi divulgatori o da accademia di noto brand di attrezzature outdoor. Però con una specifica e ricorrente eccezione: la prescrizione sul “dove iniziare a scavare”. Infatti, in queste fonti si trova la perentoria indicazione di allontanarsi dalla sonda andata a segno di una quantità multiplo della profondità di seppellimento.
E qui nacque il rovello. Ma perché questo aspetto era controverso? Quale poteva essere il motivo che animava i dissenzienti? Pur tornando con la memoria alle accese discussioni che caratterizzarono alcuni confronti, l’unico razionale ricordato era il primum non nocere perorato, fino ad accapigliarsi, dal più genuino fra i soccorritori per vocazione, cioè la motivazione sostenuta che “a rischiar di calpestare” il soggetto sepolto c’era da fargli più male che bene. Pur nelle more di un robusto approfondimento probabilistico, questa esigenza fu nondimeno contemplata nei c.d. casi speciali messi anch’essi “a manuale”.
La storia fa il suo corso ma il dubbio rimane e, un bel giorno, si decide di farlo fuori. Nasce cioè l’idea di affrontare tecnicamente la questione e fare ciò che occorre per provare se far così o far cosà conduce a risultati apprezzabilmente diversi. Un po’ come accertare che l’acqua bollente scotta, ma la ricerca è la ricerca, bellezza. Così come fior di accademici han dato una misura [1] al senso comune che in bici assistita si fa meno fatica o a pari fatica si va più lontano, checché sostengano gli strenui sostenitori del “si fa fatica lo stesso”, … noi ci siamo (auto)imposti di dare una misura agli effetti sussistenti fra iniziare a scavare da vicino o da lontano, dal punto di vista del soggetto sepolto, però.
Deciso, fatto. Grazie a tanti volontari che hanno aderito alla chiamata, chi di buon grado, chi un po’ sospinto, e sono stati parecchi, 72 per amor di precisione, sono state scavate tante buche (42), metà in un modo e metà nell’altro. Col metodo “a manuale” e con la variante che, senza voler esagerare per tirar l’acqua al proprio mulino, imponeva di allontanarsi dalla sonda ad una distanza pari a quella di seppellimento (1.3 m, per la cronaca), e non 1.5x o addirittura 2x come taluni tengono a raccomandare.
In questi esperimenti lo scopo è stato quello di misurare e registrare il tempo impiegato dai soggetti in azione (squadre di 3 elementi ciascuna) per raggiungere due traguardi essenziali al tentativo di salvare la pelle al compagno: individuare la punta della sonda, ovvero capire da che parte ha la testa e allargare il buco fino a tot (80 cm, verificati), cioè potergli liberare naso/bocca e di conseguenza anche il torace. Farlo respirare, insomma.
È saltato fuori che a cominciare da lontano ci si mette più tempo. Bella scoperta! Verrà da dire a qualcuno. Ma, risparmiando lo spiegone statistico (che si può però leggere nell’articolo tecnico [2]), aggiungiamo che la differenza è proprio reale, non è imputabile al caso o alle inevitabili imprecisioni di misura o al particolare gruppo di persone che hanno svolto i test. È significativa e in media si tratta di due minuti e mezzo in più. A questo punto: fate un bel respiro, trattenete il fiato … e provate a contare 1001, 1002, 1003 … fino a 1150. Anzi no, a ben pensarci quelli che scavano potrebbero essere i sottoperformanti, rispetto alla media; ecco, allora continuate a contare: fino a 1260! Siete ancora lì?
Più passa il tempo, meno probabilità restano di scamparla. La c.d. curva di sopravvivenza è arcinota a chiunque abbia sentito parlare almeno una volta di valanghe e (auto)soccorso, e tutti avranno ben in mente la soglia dei 15-18 minuti oltre la quale pressappoco solo 1 su 3 riescono ad evitare l’asfissia. Forse è meno consueto pensare a questa circostanza come un tasso di riduzione, una candela che si spegne alla velocità di circa -2.8 punti percentuali, per ogni minuto che scappa via … da cui è immediato ricavare quanti se ne sciuperebbero a non fare come dice “il manuale”: mediamente -7% ma, se cascassimo male, fino anche -12% o peggio. Meditate gente, meditate.
Siamo andati a raccontarlo anche all’International Snow Science Workshop 2023, la conferenza periodica che riunisce da tutto il mondo professionisti, educatori e accademici impegnati a vario titolo in tema neve e valanghe, per confrontarsi sugli esiti delle più recenti ricerche. Non si è messo a ridere nessuno, anzi, a seguito della presentazione dei risultati, anche la Commissione Soccorso in Valanga di CISA/IKAR ha richiesto una replica durante il congresso annuale che nel 2023 si è svolto proprio in Italia, a Dobbiaco.
Fine della storia, sperando che il topolino scaturito dallo sforzo dell’elefante possa indurre una stilla di riflessione a chiunque voglia o debba raccomandare o praticare un agire metodico attuando il disseppellimento di un soggetto coinvolto in valanga.
Ci abbiamo impiegato un sacco di tempo e uno sforzo notevole; siamo riconoscenti a tutti quelli che hanno “lavorato per la scienza” scavando con impegno, agli scienziati veri che ci han dato una guardata per controllare di non andar dicendo fesserie, ma soprattutto siamo contenti di aver fatto un lavoretto con buona volontà e destinato agli altri, proprio come abbiamo imparato a fare da quel Direttore da cui questa storia è cominciata e al quale ci ispiriamo in un ricordo struggente.
Sursum corda.
Note
[1] Mountain bike a pedalata assistita, V. Mitterwallner et al., Journal of Outdoor Recreation and Tourism, 2021 https://doi.org/10.1016/j.jort.2021.100448 – Traduzione IT in: Mountain bike a pedalata assistita – GognaBlog (sherpa-gate.com)
[2] Dig close, dig fast. A study on the consequences of excavation start point choice in avalanche companion rescue, Davide Rogora et al., International Snow Science Workshop Proceedings 2023 http://arc.lib.montana.edu/snow-science/item/3023 Traduzione IT qui: http://www.caimateriali.org/images/pdf/ISSW2023_paper_276-ITA.pdf
13
“Tenere un comportamento prudente, responsabile e disponibile nei confronti dell’allievo e della scuola in cui si esercita la propria attività didattica durante i corsi, e fare una attività alpinistica di alto livello a titolo personale, vuol dire essere appassionati, altro che “doppi” “
E, se mi permetti Alberto, aggiungerei che fare attività alpinistica (a qualunque livello, non solo alto, ma anche solo “alto per sè”) non vuol dire in alcun modo essere irresponsabili o imprudenti, ma anzi valutare, ponderare i rischi e le possibilità in rapporto alle proprie capacità e obbiettivi.
Ma è inutile spiegarlo a chi non è mai stato alpinista e per il quale l’unica alternativa nell’andare andare in montagna è tra pedalate in bassa quota oppure grupponi sulla stessa traccia (sicura per carità!) per cui l’unico difetto consiste nel non riuscire a fare il passo dell’oca con gli sci.
Mr. Crovella in tutti i suoi scritti mostra una volontà ferrea di piegare al suo (evidentemente basso) livello, tutti gli altri.
Quella dell’ideologia CAI nella didattica è una bella scusa per mantenere la patacca senza far nulla.
Istruttore uno lo è se insegna agli altri. Altrimenti “era” un istruttore e nulla più.
La montagna invernale e estiva richiede una pratica assidua, se non si vuole cacciarsi nei guai.
“A questo punto delego le mie considerazioni a una serie di articoli, che spero Gogna pubblicherà […].”
Che cos’è? Una minaccia terroristica?
P.S. Carlo, hai già scritto duecento commenti sul tema. Non credi che bastino?
Guarda Crovella che non sto rendendo conto a te. Ci mancherebbe altro!! Il mio è solo un confronto, di idee, stili e punti di vista molto diversi, tra chi ha una visione autoritaria e da gruppo vacanze piemonte tutti in divisa, e chi una visione molto piu larga e aperta. Anche da noi diversi allievi sono entrati a far parte dell’organico della scuola, ma credo sia una una prassi comune in tutta Italia. Quindi hai scoperto l’acqua calda.
Evidentemente apparteniamo non solo a due modelli didattici completamente differenti (ancorché si chiamino tutti e due “modello didattico del CAI”…), ma addirittura a due mondi, due pianeti, due galassie completamente diverse. Condivido un punto: non è a me, singolo istruttore (tra l’altro di un OTTO diverso rispetto al tuo), che devi render conto, ma a chi di dovere. Da noi sono incomprensibili i discorsi che ti sento fare, per questo sono allibito. Non mi capita proprio di sentire tali discorsi (noi produciamo gli istruttori internamente, cioè sono allievi che entrano nell’organico: siccome “pestiamo” molto sugli allievi, specie sui punti descritti, chi non si trova bene –sono cmq pochissimi- se ne va già da allievo, figurati se resta da istruttore e cmq non credo avrebbe il voto favorevole…), ma qualora si sentissero discorsi così, ci sarebbero gli interventi del caso per contenerli. Si vede che dalle tue parti ci sono prassi diverse: ne sono stupito perché le regole, valide universalmente, sono chiare a tutti. Tutto ciò dimostra quanto faticosa sia l’opera di omogeneizzazione da parte degli organi centrali! Ho già spiegato perché credo che si proceda “morbidamente”: inutile fare polemiche con istruttori assodati, meglio lavorare sulle nuove generazioni. A questo punto delego le mie considerazioni a una serie di articoli, che spero Gogna pubblicherà, tanto le posizioni sono così antitetiche che dal dibattito one-to-one non ne esce più nulla.
Tenere un comportamento prudente, responsabile e disponibile nei confronti dell’allievo e della scuola in cui si esercita la propria attività didattica durante i corsi, e fare una attività alpinistica di alto livello a titolo personale, vuol dire essere appassionati, altro che “doppi”
CROVELLA “doppio” ci sei te!! E datti una regolata a giudicare persone che non conosci.
Ho letto un commento in cui gli allievi venivano apostrofati cannibali per antonomasia…
Ma come si fa a scrivere certe cose?
Io piuttosto ho incontrato molte persone da cui imparare. A volerle ascoltare
Al volontariato se non gli dai corda, non lo vedi più. Il volontariato è la rovina dell’umanità.
Ultimo punto, non meno importante. Una sentenza del Tribunale di Milano ha stabilito che ancorchè il servizio reso dagli istruttori sia su base gratuita e volontaria si applicano i principi di “responsabilità contrattuale” ovvero non è il danneggiato (allievo) che deve dimostrare gli errori dell’istruttore ma bensì l’istruttore che deve dimostrare di aver messo in atto TUTTI gli accorgimenti e le cautele per evitare il sinistro. La sentenza ha stabilito inoltre che la prestazione dell’Istruttore è PROFESSIONALE poichè non sono gli aspetti amministrativi (compenso,fattura IVA etc etc) che configura la prestazione ma l’atteggiamento e il rapporto tra istruttore ed allievo; con ciò viene del tutto parificata, sotto il profilo della responsabilità, la prestazione resa da una GA e da un istruttore.
A parte il punto precedente, che è uno dei mille risvolti del problema, io non la vedo tutte le folla di istruttori che smaniano per avere una doppia vita, cioè una da istruttore teutonico e adamantino (come da prontuari CNSASA), e una da alpinista privato che NON segue una ferrea autodisciplina. Credo che sia praticamente impossibile essere così “doppi”. O prevale la seconda e allora mi puzza che, col cappello da istruttore, si sia teutonici, o prevale la prima personalità (che è la casistica che attualmente vedo maggiormente rappresentata) e allora si è “sempre” istruttori. Io faccio così, perché quella è la mia natura, ma anche perché so che gli allievi mi “guardano” come mi comporto in gita privata. Il punto non è la preferenza personale, ma (torniamo ancora una volta al passo chiave) la mentalità dominante che sta indirizzando l’intero modello didattico verso una estesa omogeneizzazione.
sulla conclusione di Dm, vi invito a rileggere bene cosa avevo scritto. Il fattore chiave si collega alla spettacolarizzazione del mondo mediatico. Immaginate cosa potrebbe succedere nel mendo mediatico se, magari sulla base di un gossip raccolto fra altri allievi, tipo: “io ho sentito l’istruttore tizio spingere l’allievo a fare cosi e cosà nella sua attività privata”. Pensiamo a che titoloni o a che rischio di titoloni, come “le scuole CAI mandano gli allievi a morire”. Indipendentemente dalla fondatezza o meno di tutto ciò, il solo rischio che possa propagarsi un danno di immagine mediatico fa tenere il freno a mano molto tirato ai vertici centrali del CAI anche sul punto, Non c’è da dargli torto, non è una questione oggettiva, ma “mediatica”. Meglio stare alla larga da ogni rischio, limitandosi a dare messaggi didattici moooooooooooooolto prudenziali e basati sull’insegnamento dell’autodisciplina, non sullo spingere.
Giusto, non fa una piega! Nessuno vuol andare a finire in galera e nessuno vuole sulla propria coscenza chi gli si affida.
Ma questo non vuol dire che l’istruttore deve reprimere il suo sentirsi prima di tutto alpinista e, di conseguenza, reprimere la propria passione, le proprie aspirazioni alpinistiche, fossero anche le più pericolose e la propria etica alpinistica, perchè come è stato detto:
Questo io non l’ accetto. Perchè la mia attività personale la faccio per passione personale in libertà, secondo le mie capacità, stile e ambizioni personali. Come credo facciano tanti altri istruttori.
Perciò l’istruttore è RESPONSABILE del proprio allievo civilmente e penalmente. Ovviamente le uscite sono dosate in base alle capacità degli allievi entri limiti stabiliti dalla Commissione, e vengono utilizzati tutti i concetti di prudenza e buon senso. In caso d’incidente la eventuale responsabiltà viene aggravata se gli istruttori non hanno seguito le direttive delle linee guida centrali stabilite dalle dispense ufficiali. Se l’istruttore non è stato aggiornato o/e se la sua attività recente non è adeguata alla gita viene chiamato a corresponsabilità anche il Direttore della scuola. Quello che faranno poi gli allievi non è più responsabilità nostra, anche perchè sono avvisati che per affrontare la montagna occorre essere preparati in modo da dimensionare la difficoltà sulla base delle capacità ed esperienza fatta.
Le Scuole, per essere operative, devono essere dirette da un Istruttore Nazionale, i corsi da un Regionale. Prima del corso si invia (su format e piattaforma informatica) la richiesta di nullaosta. Ogni disciplina ha un suo specifico programma tipo, numero di lezioni e uscite minime, Se tutto Ok il corso può partire. I contenuti tecnici sono quelli stabiliti dalle dispense centrali che sono oggetto di studio x gli esami da istruttore, degli aggiornamenti periodici. Sono continuamente aggiornate e riviste con le migliori pratiche dalla Scuola Centrale e dal CSMT. Alla prima lezione teorica vengono enunciati e specificati tutti i rischi (vedi 97) e prima di uscire occorrono più lezioni teoriche affinchè gli allievi comprendano bene. Durante le lezioni (pratiche in ambiente e teoriche) i responsabili sono il Direttore del Corso e l’istruttore cui la persona è AFFIDATA,