Leonesse in inverno

Leonesse in inverno
di Wanda Rutkiewicz (1978)

Per la prima volta le donne avevano superato d’inverno una diffi­cile parete alpina, la Nord del Cervino, che fino ad allora era stata scalata solo da uomini. La parete non era diventata più facile soltanto perché noi l’ave­vamo scalata.

Wanda Rutkiewicz
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Quattro di noi vennero a Zermatt nel febbraio 1978 con l’idea di essere la prima cordata femminile a scalare la parete nord del Cervino in inverno. Eravamo: Anna Czerwinska, Irena Kesa, Krysty­na Palmowska e io, come leader.

Il nostro programma era di fare un campo base al rifugio del­l’Hornli, 3260 metri, il quale non era molto attrezzato per un soggiorno invernale. Ma da lì avremmo portato gli approvvigiona­menti più in alto al rifugio Solvay, a 4003 metri sulla Cresta dell’Hornli, dove ci saremmo acclimatate e avremmo fatto un’ar­rampicata di ricognizione, importante visto che era la via da cui speravamo di scendere dopo aver raggiunto la vetta. Riuscimmo a fare tutto questo dal 21 al 28 febbraio, anche se le condizioni della montagna erano difficili e c’era un grande rischio di va­langhe dopo lunghi periodi di neve pesante. Sulle Alpi Pennine c’era bassa pressione, con venti provenienti da ovest. Ulteriori nevicate erano state previste, così ci trattenemmo a Zermatt per qualche giorno. Per assicurare buone comunicazioni dal rifugio dell’Hornli e durante la scalata, prendemmo in prestito un radio­telefono e ci accordammo con l’eliporto locale per avere un rap­porto continuo sulle condizioni del tempo. Il 3 marzo ci arrampi­cammo ancora sull’Hornli, non con perfette condizioni metereolo­giche, ma sperando che almeno si stabilizzassero.

Il 7 marzo alle tre del mattino uscimmo dal rifugio, per comin­ciare all’alba la scalata della parete nord del Cervino. Verso la metà del primo pendio di neve, un uomo e una donna giap­ponesi ci raggiunsero. Avevano seguito le nostre tracce, e per un po’ arrampicammo insieme, cosa che si aggiunse al pericolo gene­rale. Essendo in due, i giapponesi avrebbero dovuto superarci, ma non erano in grado. Accelerarono soltanto la notte del secondo giorno di arrampicata, grazie all’aiuto di un altro gruppo di tre giapponesi, che avevano superato entrambi i gruppi arrampicando molto velocemente, e che erano in grado di portare con loro gli altri due.

Krysty­na Palmowska
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Giunte alla fine del pendio di ghiaccio della parte inferiore della parete, arrivammo a una parte intermedia molto difficile, un largo canalone roccioso, in parte ricoperto da ghiaccio e ne­ve. Ma c’era meno neve di quanto ci aspettassimo, meno che d’e­state, e il ghiaccio era molto duro perché era ancora sotto zero. Sistemammo il primo bivacco dopo aver arrampicato per 500 metri, quasi a metà della parete; quello dopo fu alla fine del canalone, 250 metri più in alto, e venne raggiunto di notte con l’aiuto delle lampade frontali. Il terzo ed ultimo bivacco, l’unico dav­vero comodo, sarebbe stato sistemato sulle nevi sommitali, a circa 250 metri dalla cima. Di notte avevamo giacche e pantaloni di piumino e co­perte da bivacco.

Dopo il secondo bivacco, dato che la roccia sopra il canalone era molto ghiacciata, scegliemmo un percorso alternativo, tecnicamen­te più difficile, ma più breve: una traversata esposta sulla de­stra su roccia fragile. Era spiacevolmente paurosa, e inoltre se­guita da un breve tiro verticale di V grado. Dopo questo il per­corso era innevato, su terreno roccioso ma non troppo difficile, verso la Cresta di Zmutt, e portava proprio sotto la vetta. Sfor­tunatamente, si era alzato il vento, solo tempestoso all’inizio, poi sempre più forte il terzo giorno, finché fu come un ura­gano. Non potevamo raggiungere la vetta come speravamo. Una volta giunte sulla Cresta di Zmutt, decidemmo di scendere per trovare un riparo da quel vento feroce. Quel giorno e il successivo, il vento costante e le temperature di -10°C provocarono a Irena Kesa congelamenti e ipotermia. Non appena capimmo le sue reali condi­zioni, il problema più urgente fu di trovare un riparo per pro­teggerla da un’ulteriore perdita di calore corporeo.

La parete nord del Cervino è nota per la scarsità di luoghi ripa­rati dalle intemperie. L’unico punto che trovammo era sulla Cre­sta di Zmutt, solo 20 o 30 metri dalla vetta. Krystyna Palmowska salì sulla cima, mentre il resto di noi portò Irena nel bivacco e la avvolse di coperte più velocemente possibile. Era il primo po­meriggio. Anche se non immaginavamo alcun tipo di salvataggio con quel vento e quella visibilità ridotta, avevamo già chiamato aiu­to per radio durante una sosta temporanea a 80 o 100 metri dalla vetta. Non avendo nostre ulteriori notizie, i giornalisti a Zer­matt pensavano che avessimo lasciato perdere il tentativo, anche se il percorso diventava ora abbastanza facile. Nonostante il buio e il vento a 120-130 km/ora, alle otto di sera arrivò un e­licottero, guidato dal fantastico Toni Loetscher. René Arnold e Alfons Lerjen si calarono sulla corda per evacuare Irena, e anche Krystyna dalla vetta. Anna Czerwinska ed io avevamo sperato, nel­la mattina, di scendere da sole giù verso la Cresta dell’Hornli, ma gli uomini del salvataggio insistettero per l’abbandono dell’impresa per le impossibili condizioni. Irena fu trasportata immediatamente dalla vetta alla clinica di Visp, dove rimase dal 10 al 14 marzo. Dopo passò dieci giorni in una clinica di In­nsbruck specializzata in casi di congelamento. Grazie alle opera­zioni di salvataggio e alla cura immediata, non ci furono amputa­zioni e Irena si riprese completamente.

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La prima scalata invernale della parete nord del Cervino fatta solo da donne suscitò grande interesse in Svizzera e in altri paesi alpini. La radio, la televisione e la stampa riportarono ogni dettaglio con precisione. Erano state fatte delle fotografie durante l’ascesa, quando le condizioni lo permettevano, sia dall’elicottero sopra di noi, sia da lontano con un teleobiettivo da 500 mm. L’equipaggio dell’elicottero di soccorso corresse l’e­quivoco che avessimo abbandonato l’impresa quando avevamo segna­lato per radio il problema di Irena e confermarono poi che in realtà avevamo raggiunto la vetta. Titoli di giornali e riviste acclamarono la nostra “Grande Vittoria” e “L’impresa magnifica delle donne polacche”. Il bollettino della sezione di Zermatt del Club Alpino Svizzero dedicò un’intera edizione alla nostra scala­ta, facendo notare che era la prova definitiva che le donne fos­sero in grado di raggiungere altissimi livelli nell’alpinismo e di sopravvivere anche nelle condizioni più sfavorevoli. “Le donne polacche hanno aggiunto un nuovo capitolo alla lunga storia della conquista del Cervino,” si disse, “dalla prima salita di Whymper nel 1865 e dalla prima scalata della parete nord nell’estate del 1931 da parte dei fratelli Franz e Toni Schmid.”

E’ vero che ci furono altre voci, all’estero e in patria, che scelsero di mettere in questione l’adattabilità delle donne a questo tipo di sfide. E certamente rimane la questione perenne: perché l’alpinismo? Nessuno è stato capace di dare una risposta soddisfacente. Bisogna accettarne la validità senza una reale giustificazione. Nel nostro caso, i fatti stessi erano sufficien­ti. Per la prima volta le donne avevano superato d’inverno una difficile parete alpina, che finora era stata scalata solo da uo­mini. La parete non era diventata più facile soltanto perché noi l’avevamo scalata. A metà marzo di quell’anno, l’elicottero do­vette salvare un gruppo di uomini austriaci sulla parete nord del Cervino, e pochi giorni dopo morirono quattro uomini tedeschi .

Trovammo ripagante l’attenzione ricevuta in Svizzera. Durante la sua permanenza in ospedale, Irena fu circondata di gentilezza e simpatia da molti sostenitori. Il suo primo bouquet fu del pilota svizzero dell’elicottero di salvataggio, una delle più difficili operazioni di soccorso che tutti dicono abbia condotto.

Irena Kesa
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La storia di Irena
Irena Kesa era la più giovane delle quattro. In quel periodo era una studentessa di educazione fisica con idee rigide sulla dieta. Aveva ridotto il fabbisogno calorico evitando zuccheri e grassi e sostituendoli con latte, pesce e riso: una dieta insufficiente per un’impresa con un freddo invernale così estremo.

Cominciò a soffrire di geloni il secondo giorno, anche se c’erano già state delle avvisaglie durante la ricognizione sulla Cresta dell’Hornli, quando aveva perso i guanti nel bel mezzo di un tiro di corda e aveva continuato senza. Al rifugio Solvay si era la­mentata della perdita di sensibilità di mani e piedi e noi altre facemmo a turno per massaggiarla. Sembrava tutto a posto, forse era solo un po’ tesa, quando eravamo pronte per la scalata prin­cipale.

Irena ha scritto di quella sensazione di tensione prima della scalata: “Non è che avessi paura della Parete di per sé, visto che avevo fatto arrampicate ben più difficili tecnicamente, ma questa era più spossante dal punto di vista delle condizioni del tempo. Avevo paura che fosse troppo per noi e che avremmo dovuto tornare in Polonia a mani vuote.
Il fatto che dovessimo sederci e aspettare presso l’Hornli, senza fare niente, e che così tante persone stavano aspettando di sali­re, era uno stress con forte impatto su di me, anche se non dice­vo nulla. Sentivo il fardello di responsabilità e un senso di ob­bligo nei confronti della missione. Tutto sembrava puntare nella direzione del fallimento, e io sentivo che tutto quello che a­vremmo raggiunto sarebbe stata una totale confusione.

In un articolo sulla rivista polacca Taternik, ha raccontato del­le sue condizioni precarie durante la scalata: “Sentivo gli ef­fetti del freddo accumularsi fin dal bivacco della notte prece­dente sulle parete nord del Cervino. Sforzandomi, cercai di con­trollare il terribile dolore nelle dita della mano destra, e solo allora capii che anche le gambe erano coinvolte. Il dolore delle dita non diminuiva, ma peggiorava e gradualmente apparirono delle vesciche. Tutto diventò un tremendo sforzo, persino preparare il bivacco o filtrare il tè. Cercai di addormentarmi. La mattina, il vento era calato un po’, anche se c’era un freddo terribile. Do­vevamo comunque partire. Le altre erano forti e in forma, ma io mi sentivo sempre peggio. Verso mezzogiorno non ero più in grado di muovere le gambe. Avevo perso la sensibilità in tutte le arti­colazioni, non potevo neanche reggere la piccozza. Avevo diffi­coltà di respirazione. Sentivo che stavo lentamente perdendo la vita. Le ragazze decisero di chiamare aiuto via radio. Io mi misi nelle loro mani.

Anna Czerwinska
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Wanda Rutkiewicz
Forse più di chiunque altra, Wanda Rutkiewicz fu responsabile dell’emergere delle donne tra le fila degli alpinisti di classe mondiale. Alla fine degli anni ’60 e per tutti gli anni ’70 si dedicò quasi esclusivamente a spedizioni tutte femminili, facendo importanti salite sulle Alpi e sull’Himalaya. Era un capo spedi­zione con molto talento e grande ispirazione, un’alpinista con risorse straordinarie e determinata che ebbe successo su otto dei più difficili ottomila. L’ultima volta fu vista sul versante nord del Kangchenjunga, nel maggio 1992, mentre bivaccava per un ten­tativo in solitaria alla vetta il giorno seguente.
http://it.wikipedia.org/wiki/Wanda_Rutkiewicz

Wanda Rutkiewicz
Wanda Rutkiewicz

postato il 27 ottobre 2014

 

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Leonesse in inverno ultima modifica: 2014-10-27T07:30:00+01:00 da GognaBlog

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1 commento su “Leonesse in inverno”

  1. Due mondi due visioni?
    Quasi in risposta a: http://www.banff.it/la-conquista-femminile-delle-quote/
    arriva questa testimonianza forte ed entusiasmante di chi senza lagne affronta la sua passione e (molti anni prima, perciò in condizioni di disagio di genere, ben più forti) dimostra ciò che vale il suo sogno e ciò che lo stesso sogno permette di realizzare.
    Che Wanda Rutkiewicz sia stata una grande dell’alpinismo è storia e le sue compagne a questa storia hanno contribuito…
    Morale (a mio avviso): se vuoi la bicicletta pedali sennò rimani a casa!

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