L’epoca d’oro delle Guide nelle Alpi Occidentali
di Gian Piero Motti
(pubblicato in La storia dell’alpinismo) (GPM-SdA-15)
Nel primo periodo di esplorazione della catena alpina non furono molte le guide valligiane che seppero distinguersi per capacità tecnica, spirito di iniziativa e intuizione nella scelta delle vie di salita. Sulla scia però di uomini come Melchior Anderegg e gli Almer, a poco a poco si venne a creare una nuova generazione di guide montanare, le quali, certamente per i contatti e gli scambi culturali avuti con i cittadini, cominciarono a prendere coscienza del loro effettivo valore. Si venne a creare in questo periodo assai felice per l’alpinismo una vera e propria passione in seno agli ambienti valligiani: la guida cessava definitivamente di essere un esecutore di ordini o un portatore di carichi. Sovente egli stesso sceglieva obiettivo e itinerario, altre volte raggiungeva con il cliente un rapporto di vera e propria amicizia e di mutua collaborazione; un rapporto che darà vita a cordate leggendarie e veramente formidabili, quali Mummery-Burgener, Ryan-Lochmatter, Young-Knubel, Fontaine-Ravanel e Dibona-Mayer.
Soprattutto nelle Alpi Orientali si registra un altro fenomeno molto interessante: alcune guide si distaccano nettamente dalla tradizione classica e iniziano un’attività di primissimo piano anche per conto loro, a prescindere da motivi clientelari e di lucro. L’esempio di Tita Piaz è estremamente significativo. Comunque ben presto anche sulle Alpi Occidentali il fenomeno avrà seguito.
Accanto alle guide sorge anche e dilaga su vasta scala il fenomeno dell’alpinismo senza guida, che sulle Alpi Orientali aveva avuto i suoi primi esponenti di rango in Ludwig Purtscheller, Hermann Von Barth e i fratelli Emil e Otto Zsigmondy. Sulle Alpi Occidentali il nome di Mummery fa testo a sé. Ma accanto al grande inglese agisce un nutrito gruppo di italiani, che, trascinati forse dal suo esempio, danno vita ad un fenomeno che naturalmente all’inizio susciterà critiche e disapprovazioni da parte dei «classici».
A questo punto una precisazione è d’obbligo. Praticamente fino alla Prima guerra mondiale, soprattutto sulle Alpi Occidentali, l’uso dei mezzi artificiali è praticamente sconosciuto. Il carattere straordinario delle imprese di questo periodo sta proprio nella purezza di stile e nell’estrema semplicità, che esalta dunque i valori tipicamente umani, con le quali esse furono portate a termine. Le spettacolose realizzazioni sulle pareti e nei canaloni di ghiaccio erano unicamente frutto di coraggio, saldezza morale, equilibrio e forza fisica, più che necessaria per intagliare (in salita ed in discesa) centinaia di gradini con un’ascia che sarebbe fin troppo definire piccozza. Su roccia l’uso della corda è alquanto rudimentale, comunque il termine «assicurazione» è ad un orizzonte assai lontano: in genere l’eventuale caduta del capocordata è sinonimo di catastrofe, in quanto non si ricorre ad alcuna manovra per trattenerlo. La fiducia nel primo e nella guida sono assolute. È chiaro che le difficoltà rocciose del granito e la struttura stessa di queste pareti cristalline erano differenti dalla verticalità e dall’esposizione della dolomia, dove per ragioni evidenti di forza maggiore l’uso dei mezzi artificiali per assicurazione fu accelerato. Il granito (fino ad un certo grado di difficoltà) generalmente offre pareti più inclinate, più rotte: i terrazzini sono frequenti, la roccia è spaccata da fessure e da stretti camini dove ci si incunea. Più che l’intera lunghezza di corda difficile ed esposta, si tratta dunque del famoso «mauvais pas» presente in tutte le salite di questo periodo: un passaggio più o meno lungo, esposto e difficile, dove la guida o il capocordata si impegna senza assicurazione alcuna, fidando esclusivamente nei propri mezzi fisici e morali e aprendo così il cammino a chi segue agevolato dalla corda.
L’arrampicata generalmente, più che esterna e di equilibrio, è tutta interna e brutale, anche perché come linea di salita si scelgono diedri e fessure e soprattutto perché si arrampica con scarponi ferrati. Va ricordato invece che in Dolomiti già si conosceva l’uso della pedula con la suola di feltro, la quale solo più tardi entrerà nel «bagaglio» dell’alpinista occidentale.
In tema di chiodi si registra il buio più completo. Bisogna dire che a volte, in determinate situazioni scabrose, si ricorreva all’impiego di vere e proprie caviglie di ferro, le quali però non potevano garantire alcuna assicurazione, in quanto l’uso del moschettone era ancora sconosciuto. A volte, piuttosto, si usavano certi chiodi ad anello (soprattutto nelle Alpi Orientali), in cui si passava direttamente la corda (quindi senza moschettone) ricorrendo alla manovra molto pericolosa di slegarsi per introdurre la corda e rilegarsi al di sopra del chiodo. Anche in discesa, la manovra della corda doppia era pressoché sconosciuta.
Va infine ricordata l’invenzione del rampone da ghiaccio Eckenstein, che creò una vera e propria rivoluzione nell’alpinismo sulle Alpi Occidentali, permettendo la realizzazione di imprese non solo più difficili, ma anche condotte a termine in tempi molto minori. Naturalmente, come tutte le innovazioni, il rampone subito non incontrò favore da parte di tutti e fu osteggiato soprattutto da puristi e conservatori. Ma poi, verificata sul terreno la sua indiscutibile praticità, divenne di uso generale su tutta la catena alpina.
Ancora una volta, quindi, nel giudizio di queste imprese, si ricordi sempre il modo e lo stile in cui esse furono compiute. Anche se in seguito, per ovvi motivi di evoluzione, l’alpinismo toccherà traguardi prestigiosi (grazie anche all’introduzione dei mezzi artificiali su vasta scala), tuttavia quest’epoca resta come un qualcosa di irripetibile e di leggendario, un momento «magico» dell’attività umana, in cui uomini di montagna e di città, quindi appartenenti a diverse culture, seppero esprimere il meglio di loro stessi realizzando imprese che, a quel tempo, giunsero veramente oltre un limite che pareva insuperabile. Certo, se oggi l’alpinista moderno scorre le pagine di una guida e legge le note tecniche di queste imprese, vi leggerà graduazioni che non vanno oltre il IV superiore o eccezionalmente il V grado (Piaz e Dibona…!). Ma ricordi che essi diedero veramente il meglio di loro stessi e ricordi soprattutto che essi si muovevano verso l’ignoto arrampicando con la sola sicurezza morale, cosa che nelle ascensioni superassicurate dei giorni nostri non accade più.
L’esplorazione del versante meridionale del Monte Bianco
A differenza del versante francese, prevalentemente glaciale e un po’ bonario anche se imponente, il versante italiano del Monte Bianco è selvaggio e grandioso: una parete quasi «feroce» e tormentata, che non ha eguali su tutta la catena alpina. Due grandi creste, quella di Peutérey e quella di Brouillard, incorniciano questa parete, dove i due ghiacciai di Brouillard e di Frêney discendono stretti e rinserrati tra pareti granitiche levigate ed altissime, spaccandosi in mille crepacci e dando vita a cascate di seracchi in continuo movimento. Tra questi due ghiacciai, si delinea il contrafforte dell’Innominata, una bella cresta che nella parte superiore si apre a ventaglio formando una parete di carattere eccezionale: la parete terminale del Bianco, dove si individuano alcuni pilastri di rosso protogino, di bellezza pressoché indescrivibile, divisi da orridi canaloni di ghiaccio. Le proporzioni e i dislivelli sono di stampo himalayano; la sensazione di isolamento, di lotta e di grandiosità che danno queste creste e queste pareti è unica. Qui, oltre alla pura capacità tecnica dell’alpinista, si richiedono soprattutto le sue doti morali: la capacità di resistere in caso di cattivo tempo, di non smarrirsi d’animo di fronte alle difficoltà ambientali, il coraggio e la fermezza per sentirsi a proprio agio in ambienti che schiacciano e deprimono per la loro durezza (certamente non priva di grandissimo fascino e di bellezza), la calma di fronte alle difficoltà di una ritirata a volte quasi impossibile.
La storia alpinistica del versante meridionale del Bianco e delle sue creste annovera alcune pagine dove l’avventura con la A maiuscola regna sovrana. Soprattutto le prime imprese e il primo contatto esplorativo, dove i mezzi tecnici ed artificiali ancora non erano comparsi. Ma anche quando i mezzi artificiali saranno introdotti, le imprese realizzate su questo versante si staccheranno sempre per il loro carattere severo e «d’envergure» (per dirla alla francese) che le pone ad un livello decisamente superiore. Stupisce quindi il vedere che già nel 1877 fu aperta la prima via di salita lungo questo versante: il 30 e 31 luglio di quell’anno James Eccles con le guide Michel Clément e Alphonse Payot risalgono il Ghiacciaio di Brouillard, poi valicano il Col du Frêney e si portano con un percorso orizzontale verso il Colle Eccles, posto sul contrafforte dell’Innominata. Di qui risalgono diagonalmente tutto il pendio posto sotto i piloni, esposto quindi alle scariche di sassi e di ghiaccio, per prendere infine un canalone di neve e di ghiaccio posto a sinistra del tratto terminale della Cresta di Peutérey, uscendo alla vetta del Bianco di Courmayeur. L’impresa, eccezionale, aveva scelto il percorso più facile, la linea forse più debole della parete, inoltrandosi in essa con un percorso tortuoso e complesso che poi non fu più seguito.
Tuttavia ancora ai giorni nostri, quando il tratto terminale della Cresta di Peutérey è in cattive condizioni, qualcuno preferisce scegliere come linea di salita il canalone di ghiaccio del 1877, detto appunto oggi il Couloir Eccles. Va anche ricordato che sul Colle Eccles oggi vi è un piccolo bivacco fisso, che facilita notevolmente l’approccio a questo versante.
È suggestivo invece pensare alle salite di quei pionieri, che partivano a piedi da Entrèves, risalivano la Val Veny, poi con lunghe marce tutto il contrafforte al sommo del quale oggi sorge il magnifico e moderno rifugio Monzino. Allora non vi era nulla. Dopo un bivacco alla «bella stella» si inoltravano nei ghiacciai di Brouillard e di Frêney, dove nessuno ancora aveva messo piede. Certamente il sapore di queste imprese desta un po’ di nostalgia ed è comunque irripetibile in ogni senso.
Un grande protagonista: la guida Émile Rey di La Saxe
Nessuna guida italiana fino a quel momento si era portata al livello di un Anderegg o di un Burgener, ma ben presto a Courmayeur si venne a creare un nucleo di guide estremamente determinate, assai abili, che nel giro di poco tempo portarono la situazione in pareggio, anzi, a volte si assicurarono imprese di livello decisamente superiore.
Il primo esponente di questo gruppo è Émile Rey, di La Saxe, protagonista di imprese determinanti, tra le più significative del secolo XIX. Figura quasi leggendaria, Rey è il capostipite di una lunga dinastia di guide, i Rey al cui nome è strettamente legata la storia alpinistica del Bianco. Pur essendo assai forte e preparato, Émile ancora non era stato scoperto dai clienti inglesi e doveva accontentarsi di ruoli da portatore accanto ad altri. Ma poi nel 1877 è l’inglese lord Ralph Gordon King Noel Milbanke-Wentworth che lo scopre e insieme compiono la prima impresa di rilievo: viene conquistata per la prima volta la vetta dell’Aiguille Noire de Peutérey, superba cattedrale di granito ben visibile dal fondovalle, naturale coronamento del panorama che appare sopra i tetti dei casolari di Entrèves.
Poco dopo l’ormai affermato ed apprezzato Émile Rey giunge ad un altro successo di prestigio: il 13-15 agosto 1880 con Georg Gruber e Pierre Revel apre una nuova via lungo il complesso versante meridionale del Bianco, sulle tracce di Eccles che per primo vi si era addentrato. La novità sta nell’aver raggiunto il Col de Peutérey lungo uno sperone roccioso (i cosiddetti Rochers Gruber) che fiancheggia la fantastica cascata di seracchi del ghiacciaio superiore di Frêney, che precipitava verso il tratto mediano e pianeggiante dello stesso. Fu anche la prima volta che il Col de Peutérey venne raggiunto. Anche questa via oggi non è più seguita. A volte qualche cordata diretta verso i piloni del Bianco si porta al Col de Peutérey, risalendo appunto i Rochers Gruber, oppure gli stessi vengono percorsi in discesa da cordate che si ritirano dal versante meridionale del Bianco.
Se l’Aiguille Noire è superba e grandiosa per le sue torri di roccia bruna e rossiccia, l’Aiguille Blanche de Peutérey, sua sorella maggiore, è inconfondibile per la candida calotta nevosa che si distende poi in una lunga ed elegante cresta di neve, che pare quasi il bordo di un lenzuolo steso ad asciugare tra le sue due vette di ghiaccio. L’Aiguille Blanche era l’ultima grande cima del Bianco a non essere ancora conquistata: il 31 luglio 1885 è ancora Émile Rey che si assicura il successo, con Henry Seymour King, Ambros Supersaxo e Aloys Anthamatten.
Si può ben dire che tutta la Cresta di Peutérey sia legata al nome di Émile Rey. Soprattutto con l’impresa capolavoro del 1893, data in cui fu realizzato il primo vero percorso della cresta. A commento di questa salita, riportiamo il giudizio espresso sulla Guida dei monti d’Italia, Monte Bianco:
«La più grande impresa alpina del secolo XIX, tanto più ammirevole quando si pensi che a quel tempo gli attuali ramponi non erano ancora stati inventati, né si poteva disporre dell’attuale equipaggiamento da bivacco. Partiti da Courmayeur la mattina del 14 agosto, i primi salitori (Paul Güssfeldt, Émile Rey, Christian Klucker e César Ollier, NdA) posarono il loro primo preventivato bivacco a circa 3200 metri; disponevano di legna e coperte, essendosi fatti accompagnare da tre portatori. Ripartirono alle 4.30 del 15 agosto e, tagliando numerosi gradini nella ghiacciata cresta finale, raggiunsero la vetta della Blanche “un po’ prima delle 11”. Di qui non avanzarono che “tagliando gradini”; quantunque il Col de Peutérey non sia a più di 100 metri sotto la Blanche e che la cresta sia relativamente regolare, occorsero più di due ore per scendere ai 4000 del colle (Renato Chabod, Laurent Grivel, Silvio Saglio, Guida dei monti d’Italia, Monte Bianco, CAI-TCI, 1963)». Verso le 15.30, risalendo la Cresta di Peutérey, erano a «meno di 700 metri dalla vetta del Bianco di Courmayeur. Quanto tempo occorrerà per raggiungerla? Ciò dipende dalle condizioni della cresta sulla quale dovremo risalire per continuare la nostra ascensione. Se essa ci offre una buona neve in alto, quattro o cinque ore basteranno: ma se la neve si cambia in ghiaccio ne occorreranno da sei a otto. Nei due casi, la notte ci sorprenderà per via. Viaggiare di notte per cattivi passaggi, non è cosa impossibile quando si è spronati da necessità. Ne ho fatto l’esperienza con Rey al Monte di Scerscen. Ma si corre gran rischio, soprattutto tra i 4400 ed i 4800 metri! Vi rinunciamo ed approssimandoci alla parete raggiungiamo una roccia situata a 4250 m, al piede della quale noi bivaccheremo per la seconda volta su un suolo di pietre ricoperte di frantumi. I preparativi consistono unicamente nel posare i sacchi e tirare fuori le magre provviste rimasteci… Ad un’ora di notte Rey intona con voce chiara la “Lysette” di Béranger, che è diventata il nostro canto di guerra dall’ascensione di gennaio alle Grandes Jorasses. Questa improvvisa apparizione dell’elemento femminile nel nostro bivacco ci riscalda tutti a dispetto del freddo persistente… Partiti verso le 6 del mattino (del 16 agosto), riprendiamo dopo una buona mezz’ora la Cresta di Peutérey verso i 4320 m, ossia 440 m sotto il Bianco di Courmayeur. Ohimè, niente neve. La cresta che si innalza davanti a noi, è di duro ghiaccio, nel quale Rey attacca tosto a gradinare. Quest’uomo è così poco abituato ad avere per compagni guide del suo valore, che prende sempre su di sé ciò che si ha di più difficile. La presenza di Klucker non cambia nulla, benché noi abbiamo potuto apprezzare le sue rimarchevoli qualità. Ogni volta che il suo compagno gli offre di rimpiazzarlo, Rey risponde sempre “Oh, non ne vale la pena”. Alle otto e mezza cionondimeno Klucker prende la testa e taglia fino alle 9. Avevamo dunque impiegato due ore e mezza per innalzarci di 200 m lungo quella cresta di ghiaccio, ossia 80 m per ora. Rimanevano 250 m da superare per toccare la vetta. In queste condizioni e tenuto conto della fatica crescente, sarebbero occorse almeno 5-6 ore. Abbandoniamo pertanto la cresta e cerchiamo “au petit bonheur” un passaggio verso sinistra sulle rocce. Nuove prove ci attendono su questa via. Il protogino si allontana sempre più dalla sua forma granitica e diventa scistoso. Diminuiscono le buone prese per le mani e l’arrampicata diventa d’altrettanto più difficile… la parete è in parte ricoperta di vetrato, di modo che la piccozza fa di frequente risuonare i suoi colpi… a mezzogiorno e cinque minuti siamo sul Bianco di Courmayeur. Nel momento sentiamo qualche detonazione lontana salire dalla Val Veny: è l’oste della “Cantine” della Guérison che usa la voce del cannone per esprimere la sua riconoscenza e soddisfazione. La nostra spedizione gli ha procurato durante due giorni dei piccoli buoni guadagni. Dei forestieri sono venuti in gran numero da Courmayeur alla osteria per seguirci per mezzo del suo cannocchiale. Il tragitto che ci rimane da fare non presenta più alcuna difficoltà… Io cammino lentamente per arrivare fresco e disposto alla vetta… verso le due giungiamo al punto finale della nostra ascensione, la cima del Bianco propriamente detta. Allora soltanto mi rendo conto dello stato di eccitazione nel quale siamo vissuti e provo una viva riconoscenza per la fortuna della quale abbiamo goduto durante la nostra rude impresa (Paul Güssfeldt, Der Mont Blanc)».
Questa fu dunque la più grande impresa di Rey, una guida che fu «… gloria di Courmayeur e della Val d’Aosta, degno rivale di quant’altre guide siano esistite… Egli era tale uomo da poter orgogliosamente rispondere a quell’inglese che lo aveva richiesto per accompagnarlo nella banalissima traversata della Mer de Glace dal Montenvers: “Voilà Monsieur”, indicando con la mano un gruppo di cosiddetti “pirates”, “voilà les guides pour la Mer de Glace: moi, je suis pour la grande montagne!” (Renato Chabod, Le Guide, in I cento anni del Club Alpino Italiano, 1964)».
Di Güssfeldt e del suo valore molto si è già detto in questa trattazione: ancora si può ricordare una difficile impresa condotta sempre sul Bianco, da lui portata a termine con Émile Rey, Laurent Croux e Michel Savoye il 16 agosto 1892. Si tratta della risalita di un ripidissimo canalone di ghiaccio che sfocia sullo sperone della Brenva, sul versante est del Bianco, oggi detto appunto il Couloir Güssfeldt.
Piuttosto è necessario parlare di Christian Klucker, anch’egli una delle più grandi guide alpine dell’epoca. Non ci si lasci ingannare dal fatto che in quest’impresa egli giuochi un ruolo di secondo piano rispetto a Rey. Tra le guide dell’Engadina era sicuramente il migliore; infatti la sua carriera alpinistica annovera ben 44 prime assolute, accanto a 88 nuove vie di salita su tutta la catena alpina. Sebbene vanti un’attività alpinistica di primissimo piano, Klucker si stacca assai dal modello di guida valligiana che solitamente ci viene proposto in questo periodo dell’alpinismo classico. Maestro di scuola, ispettore scolastico, era un uomo colto e raffinato, profondo conoscitore della topografia e della storia alpinistica oltre che eccellente geologo, botanico e biologo. Seppe sempre conservare equilibrio e serenità, tanto da potersi permettere, ultrasettantenne, la prima ascensione di alcune vette della sua valle.
Era comunque capace di imprese magnifiche e di rara audacia per quei tempi: le grandi pareti nord della Val Bondasca (Alpi Centrali) furono teatro di alcune sue imprese eccezionali. La salita dei canali di ghiaccio del Colle del Badile e del Badiletto, la salita e discesa del couloir del Pizzo Cengalo e la solitaria ricognizione sulla parete nord est del Pizzo Badile, attualmente considerata tra le più difficili della catena alpina, testimoniano non solo il valore di Klucker, ma anche la sua apertura lungimirante nello scoprire problemi che saranno risolti solo in futuro e con mezzi artificiali. Ma ancora bisogna ricordare tra le sue imprese la parete nord del Pizzo Roseg, la parete nord-est del Bernina, la parete nord del Piz Tschierva e la discesa della Fuorcla Tschierva-Scerscen.
Di certo come guida è al pari di figure come Lochmatter, Knubel e Pollinger; e se di questi non acquisì la fama, ciò si deve esclusivamente alla sua grande ed innata modestia.
Rey dunque fu il capostipite delle grandi guide di Courmayeur. Accanto a lui altri nomi vengono alla ribalta: i Croux, i Petigax, i Brocherel, tutti uomini di polso e di indiscusso valore, che però espressero il meglio della loro attività sui monti extraeuropei, come in seguito vedremo nella trattazione dedicata a questo specifico filone dell’alpinismo. Comunque «… a Courmayeur, fra il 1900 e la Prima guerra mondiale tengono il campo, oltre ai già menzionati himalayani, Laurent Croux, Joseph Croux e César Ollier, mentre si affermano i due figli di Émile Rey, Adolphe ed Henry, degni continuatori della tradizione paterna. Le guide di Courmayeur contribuiscono efficacemente alla sperimentazione ed al primo impiego dei moderni ramponi, partecipando alle relative prove indette da Oskar Eckenstein sui seracchi della Brenva: è questo, indubbiamente, un notevole contributo che diventerà poi ancora più notevole, verso il 1930, con la invenzione dei ramponi a 12 punte da parte di quel geniale artigiano e grande guida che risponde al nome di Laurent Grivel (Renato Chabod, Le Guide, in I cento anni del Club Alpino Italiano)».
Tre cordate leggendarie: Fontaine-Ravanel, Ryan-Lochmatter e Young-Knubel
Se Émile Rey fu la più grande guida italiana di quel periodo, accanto a lui agirono, sempre nel massiccio del Bianco, altre tre guide leggendarie, che praticamente risolsero gli ultimi problemi che i sistemi classici (ossia senza mezzi artificiali di sorta) potevano permettere. Essi formarono con i loro clienti delle cordate di rara efficacia, assai omogenee, dove anche il cliente sicuramente sarebbe stato in grado di prendere il comando della cordata in ogni istante dell’ascensione.
Nato nel 1869 nei pressi di Argentière, un bel villaggio a pochi chilometri da Chamonix, Joseph Ravanel, detto «il rosso», è la prima grande guida francese che opera nel Monte Bianco, capace di ergersi al pari di un Burgener. Suo cliente e compagno di ogni ascensione fu Émile Fontaine: insieme essi completarono praticamente l’esplorazione delle Aiguilles de Chamonix, conquistandone i picchi più arditi e difficili e superando difficoltà d’arrampicata veramente notevoli. Così ad una ad una furono espugnate l’Aiguille du Fou (1901), la Dent du Crocodile, l’Aiguille des Pélerins, la Dent du Caïman, l’Aiguille du Peigne e Les Ciseaux. Naturalmente queste torri granitiche furono salite per il versante più facile, ma già di per sé notevolmente difficile. Famose furono anche due altre imprese di Ravanel: innanzi tutto la traversata dal Petit al Grand Dru, giudicata più volte impossibile malgrado i numerosi tentativi precedenti. Fu merito di Ravanel l’aver intelligentemente scoperto e superato un passaggio risolutore, che mediante un sistema di traversate, permetteva di superare quel «mauvais pas» che aveva respinto anche il forte Émile Rey. Il passaggio, detto a «Z», rimase famoso e per molti anni fu giudicato tra i più difficili del Bianco. La seconda impresa di grande valore è la conquista (1901 e 1903) di due eleganti e difficili torri di granito, dette poi l’Aiguille Ravanel e l’Aiguille Mummery, che per molti anni saranno teatro di scalate sui loro diversi versanti.
Franz Lochmatter e il fratello Joseph (ma soprattutto Franz) sono tra i grandi protagonisti dell’alpinismo classico sulle Alpi Occidentali dal 1900 al 1914. Fu Joseph Pollinger ad introdurre i Lochmatter nell’ambiente degli alpinisti inglesi. In un breve margine di tempo i Lochmatter seppero acquistarsi la fiducia e la stima dei loro clienti britannici. Soprattutto Franz, sin dall’inizio della sua attività in qualità di guida, diede prova di essere un alpinista d’eccezione in tutti i sensi; era un vero e proprio uomo di punta, capace di risolvere le situazioni più complesse: ciò che stupiva in lui era il perfetto equilibrio psicofisico, la tenacia e la resistenza, unite ad una serenità ed una semplicità che si rivelarono soprattutto essenziali nelle spedizioni extraeuropee, dove il carattere dell’alpinista viene messo a dura prova dalle severe condizioni ambientali.
Il suo controllo nelle situazioni di pericolo era quasi leggendario. Alcuni, per il suo modo di avvicinare la montagna e per la maniera in cui realizzava le sue imprese, lo definirono un vero e proprio artista della montagna. Certo la sua audacia ed il suo spirito d’avventura potevano sembrare un po’ temerari ed incoscienti, ma in realtà il tutto era equilibrato da un fortissimo senso di responsabilità e di assoluta coscienza del pericolo. Si è parlato di artista della montagna: va detto che proprio in questo periodo inizia anche un certo senso estetico nella ricerca degli itinerari di salita, ossia comincia a sorgere il concetto di logicità ed eleganza di un tracciato. Naturalmente a quell’epoca i problemi più evidenti restavano ancora tutti insoluti e quindi non si richiedeva da parte dell’alpinista una particolare intuizione nello scoprire un tracciato «naturale» su una parete vergine. Per ora la linea di salita è ancora data da creste, speroni, spigoli, canaloni di ghiaccio, grandi versanti glaciali. Comunque, sull’esempio di ciò che andava accadendo sulle Alpi Orientali, anche nel Bianco il concetto di «parete» cominciava ad avere un suo senso e ad essere accettato come realizzabile (vedi la parete est del Grépon).
Dal 1903 al 1907 e poi ancora nel 1914, Franz ed il fratello Joseph, ogni stagione, furono ingaggiati dal capitano Valentine John Eustace Ryan, col quale formarono una cordata veramente formidabile che nel giro di pochi anni seppe risolvere i più difficili problemi della catena alpina e soprattutto del massiccio del Bianco, infrangendo un limite posto all’uomo nell’arrampicata su roccia. La stessa cosa, come in seguito vedremo, verrà detta per la cordata composta da Young e da Josef Knubel, ma «vi è un’importante differenza nei rapporti fra guide e clienti in questi due gruppi. Ryan, proprietario terriero irlandese, aveva un temperamento piuttosto freddo e trovava difficoltà nell’instaurare rapporti umani. Era un estraneo in mezzo alle sue guide e si aspettava che esse facessero tutto il lavoro (intagliare i gradini nel ghiaccio, portare i sacchi e l’attrezzatura e prendere decisioni relative all’ascensione). Young invece era legato a Knubel da una relazione del tipo di quella che univa Mummery a Burgener, basata sul mutuo rispetto e sulla considerazione per le rispettive capacità. Young aveva una notevole esperienza di alpinismo senza guida, ma la sua amicizia per Knubel lo spinse a mantenere viva quella collaborazione che generò la migliore cordata di quei tempi (Doug Scott, Le grandi pareti)».
Comunque delle ascensioni effettuate dai Lochmatter con Ryan poco si sa di preciso, in quanto il capitano irlandese lasciò sempre e solo brevissime note su ogni salita. Al più vi si leggeva che Franz era stato magnifico e brillante. Ma si sa che anche la capacità alpinistica di Ryan era fuori discussione.
Il loro capolavoro unanimemente è riconosciuto nella prima salita dell’Aiguille du Plan (Aiguilles de Chamonix) da nord-ovest, lungo un itinerario di pura roccia, splendido e difficile, ancor oggi definito come una delle arrampicate più belle ed eleganti della catena alpina. La via è giustamente famosa ed apprezzata: ogni alpinista che la percorre, per quanto abile egli sia, non può non essere ammirato per il coraggio e la capacità dimostrata dai primi salitori nel superare alcuni passaggi decisamente difficili, sia ben chiaro in scarponi ferrati, senza alcun chiodo e quindi privi di qualsiasi assicurazione per il capocordata.
Per altri, invece, l’impresa più significativa è la prima salita della parete sud del Täschhorn nel 1906, superata in condizioni ambientali assai difficili a causa di una bufera di neve. Di certo si sa che durante questa salita Franz Lochmatter dette il meglio di se stesso, se si pensa che ancor oggi i moderni artisti dell’arrampicata, con chiodi e suole di gomma, si trovano impegnati in modo assai serio, tanto da rendere quasi incredibile l’exploit di Lochmatter, che invece saliva senza assicurazione alcuna e in scarponi ferrati. Non per nulla, Young (che con Knubel prese parte a quest’impresa) nel suo libro On high hills dedica parecchie pagine al racconto della salita e non è certo avaro di apprezzamenti e di lodi nei confronti di Lochmatter.
Notevolissima anche l’attività extraeuropea di Lochmatter, della quale però parleremo a parte nella trattazione specifica. Basti ricordare che anche in questi frangenti Franz seppe dimostrarsi come l’uomo risolutore di ogni situazione. Comunque, a differenza di Knubel che agì sempre su invito di clienti, Franz Lochmatter si dimostrerà più personale e creativo, aprendo la strada ad una figura di guida che non solo agisce di proprio conto e per la propria passione, ma giunge ad invitare il cliente scegliendo e suggerendo la meta e la via di salita.
Geoffrey Winthrop Young: un alpinista completo sotto tutti gli aspetti
Abbiamo già parlato di Young e di Knubel. Del primo si può dire che è sicuramente una delle personalità più complete ed interessanti di tutta la storia dell’alpinismo, la cui attività non è che un continuo crescendo, troncata solo dal tragico evento della Prima guerra mondiale, dove Young fu gravemente ferito e dovette subire l’amputazione di una gamba. A differenza di altri alpinisti classici dell’epoca, Young avrebbe potuto benissimo realizzare tutte le sue ascensioni anche senza guida, tale era la sua bravura ed il suo coraggio. Ed infatti fu anche alpinista senza guida. A proposito ebbe a dire: «Ammetto che ho scalato con guida. È una confessione che mi dispiace fare, ma è necessaria. Questa scelta è derivata da una ricerca di sicurezza; io trovo infatti che la presenza di una guida mi mette nelle migliori condizioni di forma, anche se raramente le guide arrampicano meglio degli scalatori dilettanti con un solo mese di vacanza (Geoffry Winthrop Young, Two days with a guide, 1909)».
Con questo non si vuoi togliere nessun merito a Joseph Knubel che appunto di Young fu la guida abituale. Ma Young forse aveva già una mentalità tipicamente cittadina, seppe individuare i problemi ancora insoluti, seppe anche condurre egli stesso le salite in numerose occasioni. Forse non osò fare il «passo» definitivo per portarsi al di là della barricata, o forse più semplicemente il rapporto che lo univa a Knubel non era assolutamente di dipendenza, ma si trattava di una vera e profonda amicizia. Resta comunque il fatto che i due individuarono e risolsero i maggiori problemi alpinistici dell’epoca e passarono dove altri invece avevano rinunciato. Dal 1900 al 1914 non è che un succedersi di prime ascensioni sulle Alpi Occidentali e su ogni terreno: roccia, ghiaccio e misto. Anche se Knubel non se ne rese mai conto, il posto che occupò nella storia dell’alpinismo è di primissimo piano. Leggendaria era la sua capacità di risalire le strette fessure di granito incastrando a più riprese il manico della piccozza e poi issandosi sullo stesso a forza di braccia. Proprio con questo artificio un po’ agghiacciante, risolse il passaggio chiave all’uscita della parete est del Grépon, superando una fessura (detta poi «Fissure Knubel») che per molto tempo sarà valutata come il più difficile passaggio di roccia del Bianco. Le realizzazioni della fortissima cordata sono tutte di rilievo e richiederebbero una lunga trattazione per ognuna di esse. Comunque non possono essere tralasciate salite come la prima del versante nord-ovest della Dent d’Hérens, delle pareti est e ovest del Weisshorn, della parete est del Rothorn, delle pareti sud-ovest del Dom e del Täschhorn. Magnifica la prima ascensione realizzata lungo la cresta del Kleine Triftij sulla parete nord del Breithorn; una salita quasi perfetta, che ancora oggi resta nel numero delle grandi classiche su terreno misto di tutta la catena alpina.
Tuttavia fu il Monte Bianco ad essere teatro delle loro più grandi realizzazioni. Vanno ricordate la prima della Cresta di Brouillard dal Colle Émile Rey e il percorso completo della difficile ed elegante cresta ovest delle Grandes Jorasses (1911), già parzialmente percorsa da Ryan e Lochmatter e dal Duca degli Abruzzi. Restava comunque da compiere il tratto più difficile: «… fu Joseph, mi pare, che trovò la fessura chiave. Egli apparve dietro di noi sul torrione e, con una impressionante solennità, – non era forse quello il punto in cui avevano abbandonato gli incomparabili Lochmatter? – ci fece segno di ritornare un po’ verso ovest… (Geoffry Winthrop Young, Nouvelles escalades dans les Alpes)».
Le Grandes Jorasses li vedono ancora protagonisti sulla inviolata Cresta des Hirondelles, meta ambitissima che aveva respinto attacchi estremamente qualificati, quali quelli di Mummery, di Émile Rey, di Lochmatter e del Duca degli Abruzzi. Ma tutti si erano arrestati al famoso «intaglio a V», al di là del quale una fessura verticale pareva insuperabile con i normali mezzi dell’epoca. Young e Knubel, con Humphrey Owen Jones e Laurent Croux, effettuano la prima discesa della cresta, impresa già di per sé più che notevole, ma giudicano impossibile la risalita della fessura e quindi rinunciano all’impresa. Invece la fessura sarà superata dal grande Adolphe Rey: a Knubel rimarrà il rammarico di aver giudicato un po’ troppo superficialmente il passaggio, senza neppure averlo tentato. È pur vero che Adolphe per passare dovrà piantare un paio di grossi chiodi, ma si sa che Knubel era maestro nell’incastro di piccozza e chissà, forse grazie alle sue eccezionali doti fisiche, avrebbe potuto anche passare… L’impresa che comunque li rese più famosi è la prima salita della parete est del Grépon, di cui abbiamo già parlato a proposito della fessura terminale.
Molti reputano Young non solo il più grande alpinista britannico ma anche il più forte e preparato di quell’epoca. D’altronde il paragone con Mummery riesce molto difficile, proprio perché i due agirono in epoche differenti. Si può dire che Young fu superiore a Mummery per il numero di realizzazioni e per la difficoltà delle stesse, ma non bisogna dimenticare che Young venne sulla scia di Mummery. Egli seppe utilizzare la sua guida (Knubel) al massimo, sfruttandone intelligentemente le eccezionali doti atletiche. Va anche sottolineata la notevole forza di carattere di Young e la sua estrema determinazione, per cui di fronte al problema alpinistico sapeva porsi da pari a pari, quando non in condizione di superiorità, senza lasciarsi intimorire da alcuna inibizione. Gli va anche attribuito il merito di aver affrontato e superato soltanto quei problemi che potevano essere risolti con purezza di stile e con eleganza, lasciando ai posteri la soluzione degli stessi con ricorso a mezzi artificiali. Egli è l’ultimo dei grandi alpinisti inglesi che agisce sulle Alpi: l’avvento dei mezzi artificiali, il sorgere di competizioni e rivalità nazionalistiche allontaneranno l’alpinismo britannico per un lungo periodo dalla catena alpina.
Unica eccezione saranno le imprese della formidabile cordata Thomas Graham Brown e Frank Smythe sul versante della Brenva, realizzate comunque in puro stile classico, seppur senza guide.
Bisogna anche ricordare i meriti di Young in qualità di scrittore, di certo non inferiori a quelli di alpinista. Al suo nome è dedicata una delle punte delle Grandes Jorasses.
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Eccezionale articolo!
In aggiunta al consiglio di lettura aggiungo altri due molto ben fatti da gogna e ascenzi GUIDE E CLIENTI ma ancora più (per me) L’ALBA DEI SENZA GUIDA
Toujours passionnant.
La narrazione di Gian Piero Motti avvince; la sua Storia dell’alpinismo è tra le piú ponderate che io conosca. Tuttavia alcuni le imputano il difetto di essere parca di nomi e date.
Inoltre, l’analisi psicologica di Giusto Gervasutti non corrisponde al vero e sembra descrivere semmai qualche tratto del carattere dello stesso Motti. Lo rilevò Massimo Mila (Verità e miti dell’alpinismo, 1978) in una sua recensione, obiettando che chi aveva conosciuto di persona il Fortissimo respingeva come fantasiosa la figura che di lui era stata tratteggiata.
E a me pare che, nel giudizio sulle varie concezioni dell’alpinismo che si sono succedute via via nel corso del tempo, l’autore si sia lasciato influenzare un po’ troppo dalle proprie idee.
Detto ciò, leggete il libro!
Nomi leggendari, grandi alpinisti, grandissime guide di quei 40-50 anni, ma a colpirmi per l’ennesima volta, è il modo, la precisione, la scorrevolezza, l’impedire di smettere la lettura, ecc. della scrittura-racconto di GP Motti, per me, in assoluto, la migliore e affascinante “penna” di questo genere di letteratura.
Questa doveva essere la premessa: “in genere l’eventuale caduta del capocordata è sinonimo di catastrofe, in quanto non si ricorre ad alcuna manovra per trattenerlo. La fiducia nel primo e nella guida sono assolute”
”
Con certi clienti che non sanno fare sicura e che non riescono a imparare a farla, è ancora oggi così. E non è di certo per fare onore a nessuna tradizione!