L’Est più vicino – 1
(scritto alla fine degli anni Novanta)
Ines Bozič Skok, nata nel 1962 a Capodistria, dopo gli studi classici va a Ljubljana a studiare Lettere. Oggi, assieme al marito Janez Skok, dirige la casa editrice Sidarta: un’idea che da qualche anno illustra le montagne slovene con l’amore e la competenza di chi da molto tempo le percorre e ne vive gli aspetti più intimi. Ines arrampica dal 1979 e ha al suo attivo tante belle realizzazioni. In cordata femminile, con Sanja Vranac, via Zajeda al Šite, Philipp-Flamm alla Civetta, diedro Mayerl al Sass dla Crusc; con Eva Leškovsek il diedro Cozzolino al Piccolo Màngart e con Miranda Ortar la prima ripetizione di Bolero (VI+, 500 m) al Jerebica. Dopo due spedizioni, al Rakaposhi e al Nanga Parbat, con il marito sale nel 1988 il Cerro Torre (seconda femminile) e altre difficili vie di Knez, come pure la prima invernale alla via Triestina sulla N del Triglav.
La seguente storia dell’alpinismo sloveno è una sua ricerca da me riveduta.
Gli sloveni sono emersi tardi all’attenzione dell’ambiente alpinistico: lingua e cultura tedesche contribuirono a ritardare quel risveglio nazionale che poi si espresse anche con l’alpinismo. Il primo sloveno che esplorò le montagne fu il cappellano Valentin Stanič (1774-1874). Nel 1801 vinse per primo il Watzmann e nel 1800 aveva salito il Grossglockner un giorno dopo i primi salitori. Senza sminuire il merito di Stanič o dei quattro coraggiosi di Bohinj (Lorenz Willonitzer e compagni) che nel 1778 conquistarono la vetta del Triglav, la cima maggiore delle Giulie, l’alpinismo sloveno data poco più di un secolo. Nel 1890 Ivan Berginc della Val Trenta per primo si avventurò lungo i 1000 m della parete N del Triglav, più o meno dove oggi corre la via Slovena. Non salì la parete come guida di un cliente, come pastore o cacciatore, bensì per spinta interiore. La salita doveva rimanere segreta, perché qualche gendarme poteva accusarlo di bracconaggio e imprigionarlo.
Le Alpi Giulie Orientali sono situate interamente in territorio sloveno fra il confine italiano a ovest e i rilievi affacciati sulla pianura di Ljubljana a est. I limiti settentrionale e meridionale sono costituiti rispettivamente dalla valle della Sava Dolinka, nella quale si trova Kranjska Gora, e la valle dell’Isonzo.
Questo comprensorio montuoso può essere diviso in 5 gruppi principali autonomi e ben delimitati: Gruppo del Triglav, Gruppo del Razor, Gruppo del Martuljek, Gruppo dello Jalovec e Gruppo del Krn. L’orografia dei versanti settentrionali è caratterizzata da profonde e lunghe vallate in gran parte boscose che si spingono fino ai circhi terminali generalmente occupati da impressionanti pareti calcaree. Più solare, ma anche più aspro il lato meridionale ove le valli appaiono più selvagge e ripide, il bosco meno presente e continuo mentre permane inalterato lo scenario di grandi pareti che da ogni lato piombano nelle valli. Il versante meridionale del Triglav, dall’orografia assai complessa, è formato da una serie di conche carsiche, valli e altopiani che si succedono per diversi chilometri quadrati. In questo comprensorio vi sono anche alcuni laghi di origine glaciale la cui concentrazione maggiore si trova nella Valle dei Sette Laghi. Immediata è l’impressione di un ambiente estremamente selvaggio e solitario e, sebbene l’altezza sul livello del mare di questi monti possa apparire irrisoria, i dislivelli che bisogna affrontare per raggiungerne la vetta sono fra i maggiori delle Alpi.
Gli intellettuali sloveni come quelli stranieri, da Julius Kugy a Henrik Tuma, visitarono le montagne accompagnati dalle guide, che poi descrivevano come persone gentili, fidate ed indistruttibili. Kugy alla guida Andrej Komac della Val Trenta riconobbe persino che «fu lui, dalle cime delle Giulie, a guidarlo verso gli onori più alti». Fino alla fine della prima guerra mondiale, il primato sulle Giulie Orientali apparteneva agli stranieri; tra le due guerre invece cominciò la competizione discreta per le vie nuove fra gli alpinisti stranieri e quelli sloveni. Uno dei personaggi fu il dr. Klement Jug (1898-1924). Negli anni 1922-24 sistematicamente salì le più importanti pareti delle Giulie e gli studi filosofici gli fecero capire quale potenziale aveva l’alpinismo per una piccola nazione desiderosa di crescere. Jug studiò con la psicologia il comportamento degli alpinisti, ma la sua grande forza di volontà lo tradì, portandolo oltre nel terreno in cui non si riconoscono più i limiti. Cadde infatti in un tentativo solitario al pilastro del Triglav che in seguito ebbe il suo nome (V-, 900 m).
Ma il fenomeno di quel tempo fu una donna, Mira Marko Debelak (1904-1948), che il 5 e 6 settembre 1926 salì interamente da capocordata assieme a Stane Tominšek la via diretta alla parete N dello Špik (V+, 900 m). Ma la Debelak non era sola ad aprire vie nuove in un mondo maschile. Pavla Jesih (1901-1976) le rispose con un’altra via nuova sulla stessa parete. È un fatto storico, che in quegli anni le donne fossero in netto anticipo sui tempi.
Nel giugno del 1945 Joža Čop e Pavla Jesih salirono il pilastro centrale della parete nord del Triglav. Dopo gli stenti degli anni di guerra, a due terzi della via, la Jesih aveva perso le forze e Čop, a 52 anni, salì da solo gli ultimi strapiombi del pilastro. Dopo aver corso fino a valle per chiamare soccorso, tornò con gli altri in cresta per aiutare la sua compagna, dopo un’odissea di cinque giorni. In seguito alle prime ripetizioni nel 1948, l’ascensione fu più compresa: la salita più difficile e canto del cigno della generazione dell’anteguerra. E il 1948 vide anche la ripetizione di Rado Kočevar della via aperta già nel 1934 dagli austriaci Paul Aschenbrenner e Hermann Tiefenbrunner sulla parete N del Travnik (VI-, 800 m). Con ciò l’onore nazionale era salvo!
Negli anni ’50 i migliori alpinisti himalayani del mondo tenevano conferenze in Slovenia in sale strapiene di gente. Purtroppo era tutto ciò che i possibili candidati sloveni potevano permettersi. La generazione di Rado Kočevar, Igor Levstek, Ljubo Juvan, Milan Šara, France Avčin e Janez Krušic salì fino al 1956 le grandi pareti e gli itinerari diretti che ancora mancavano sulle montagne di casa. Krusič e Janko Šilar salirono la via Krušiceva (VI-, 900 m) sullo Špik, Šara e Levstek il gran diedro della parete nord del Šite (VI, 550 m). In quel periodo si realizzarono le prime invernali sulle pareti nord del Triglav (Kočevar-Zupan) e dello Špik (Blažej-Švegelj), ma iniziarono anche le visite slovene all’estero. Così, per esempio, Levstek e Kilar produssero una delle prime ripetizioni della via Rebitsch alla Laliderwand, allora conosciuta come la via più difficile delle Alpi Orientali.
Ci vollero molti anni per arrivare ad un «comitato himalayano»: mentre gli sloveni puntavano a squadre affidabili, la federazione jugoslava spingeva per spedizioni con due partecipanti per ogni repubblica. Il risultato fu un ritardo enorme. Soltanto Aleš Kunaver e Ante Mahkota poterono resistere fino ai primi anni ’60. Nel 1955 questi avevano salito in quattro giorni e in condizioni invernali e drammatiche la via Dolga Nemška, 1500 m sulla Nord del Triglav. I soccorritori furono allertati, ma era oggettivamente impossibile aiutare i due alpinisti: ci fu un’eco enorme a questa impresa, molti la considerarono una cosa da pazzi. Kunaver era un visionario, sulle tracce ideali di Levstek, altro uomo di grandi idee. Quando sul bollettino Planinski vestnik fu scritto ai primi degli anni ’60 che ormai «il treno era partito» e che nessun Ottomila era stato conquistato da sloveni, Kunaver osservò: «Se vuoi prendere il treno che è partito, devi correre più veloce di lui!» e parlava apertamente di pareti sud del Makalu e del Lhotse. Nel 1968 lo vediamo protagonista, assieme a Stane Belak e Tone Sazonov, della prima invernale del Pilastro di Čop, 1000 m. Negli otto giorni di salita caddero 150 cm di neve, ci vollero 58 ore di arrampicata effettiva per raggiungere la cresta. Ed è curioso come l’opinione pubblica, ormai desiderosa di vittorie slovene sugli Annapurna II e IV, vedesse Kunaver e compagni come eroi nazionali e non più come pazzi. I protagonisti invece, che prima di quest’invernale pensavano all’allenamento per l’Himalaya, al ritorno dagli Annapurna avevano invertito l’ordine di importanza delle cose. Belak, che in seguito doveva fare grandi imprese sull’Himalaya ed essere coinvolto nella terribile odissea della Sud del Dhaulagiri, disse più tardi che proprio sul Pilastro di Čop e non altrove era giunto veramente al limite.
Tra le prime ascensioni di rilievo di quel periodo segnaliamo anche la via di Kunaver e Kazimir Drašler sulla Sfinge della N del Triglav. Negli anni ’70 le grandi vie a nord sono sistematicamente ripetute d’inverno, concludendo un ciclo di esplorazioni ed exploit.
Ormai gli sloveni si erano imposti al mondo. Loro è la prima salita della parete sud del Makalu (1975), cui seguirono il pilastro sud-ovest del Gasherbrum I e la cresta ovest dell’Everest. Imprese riuscite per la grande abilità dei componenti e per la coesione dei gruppi. Uno spirito del collettivo che sarebbe durato poco: già nel 1985, dopo lo Yalung Kang, il veterano e capospedizione Tone Škarja disse che i suoi ragazzi erano stati davvero bravi, però dubitava che con loro avrebbe potuto salire la cresta ovest dell’Everest. Il primo segno di nuovi tempi più individualisti.
(continua con https://gognablog.sherpa-gate.com/lest-piu-vicino-2/)
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Interessantissimo articolo storico, colma una lacuna in termini di divulgazione a tutti dell’attività alpinistica slovena. Qui fra noi “occidentali” nei decenni fra ’70 e ’90 spesso non c’era chiarezza fra le diverse anime dell’alpinismo jugoslavo e, anzi, si tendeva a fare una gran confusione fra i vari alpinisti dell’Est (ceki, polacchi ecc), considerandoli frutto di una sola grande scuola alpinistica. Solo in un secondo momento i polacchi assunsero una loro autonomia grazie ad alcuni personaggi di spicco e alle loro eclatanti performance in Himalaya. Ma fra gli alpinsiti jugoslavi rimaneva difficile distinguere le diverse anime. Dopo la guerra civile, furono più marcate le differenze, ma le ferite della guerra frenarono per un po’ l’attività internazionale di alto livello. Alla fine, però, nessuno ha più dubbi sull’importanza mondiale della scuola slovena. Certo a vedere e conoscere le Giulie Orientali (con le loro repulsive pareti così ben rappresentate nelle foto di questo articolo) viene da fare un parallelismo con i selvaggi Monti Tatra: gli alpinisti sloveni sono duri e tosti perché modellati da queste montagne dure e toste, come i polacchi lo sono dai loro Tatra…