Let my people go surfing

Per anni Yvon Chouinard ha tenuto quasi soltanto per sé il suo modo di agire coscienzioso e sostenibile verso le risorse umane e verso le risorse della natura. Adesso i suoi passi vengono seguiti da mega-aziende come Walmart, Levi Strauss e Nike.

Il fondatore di Patagonia è il più improbabile dei guru del business d’America
di Seth Stevenson (da The Wall Street Journal, 26 aprile 2012)
Traduzione di Luca Calvi

Un paio d’anni fa Yvon Chouinard, fondatore del marchio di abbigliamento per l’outdoor Patagonia, andò a tenere una conferenza a Vancouver in occasione di un meeting dedicato alla pesca sostenibile, al quale era stato invitato in virtù del suo impegno di lunga data nei confronti delle questioni ambientali e per la reputazione della sua azienda, nota per riuscire a trarre abbondanti profitti e per riuscire nello stesso tempo a minimizzare l’impatto ecologico. Chouinard andò e presentò la sua pappardella, ma se ne tornò a casa frustrato dalla sorprendente ignoranza del pubblico partecipante. “Non sapevano nemmeno cosa stessero facendo – racconta parlando degli imprenditori ittici – non avevano nemmeno un’idea su cosa fossero tossine o catture accidentali. Ben presto, invece, tutti i loro clienti vorranno sapere tutto al riguardo. Saranno gli stessi ristoranti a volerne venire a conoscenza!“.

Tom Frost, Royal Robbins, Chuck Pratt e Yvon Chouinard in vetta al Capitan dopo la prima ascensione di North America Wall, 1964
Frost, Robbins, Chuck Pratt and Chouinard at the completion of the first ascent of the North America Wall on El Capitan in 1964.

Così, nonostante un background pari a zero nell’industria del cibo, Chouinard decide di lanciare la propria azienda di pesca al salmone. La Patagonia Provisions, che ha fatto il proprio debutto agli inizi di aprile, vende confezioni di tranci di salmone ($12.50 per due once) vicino a giacche antipioggia, pantaloni da escursionismo e magliette di cotone biologico. Il salmone viene pescato nel fiume Skeena, nella Columbia Britannica, usando attrezzature tradizionali che l’azienda descrive come “le ruote da pesca e guadini dei tempi dei Padri Fondatori”. A tutt’oggi Chouinard ha messo dentro qualcosa come 1.3 milioni di dollari in questo curioso esperimento e ancora non ha la certezza di quando quei soldi gli rientreranno. “E’ più forte di me! – dice  – voglio solo far vedere all’industria ittica come si possa fare“.

L’idealismo, l’ambizione, la fiducia in se stessi e l’orgoglio fenomenale che sta alla base di questa scappatella con i salmoni sono tutti tratti caratteristici dello stile di Chouinard dirigente d’azienda. Il suo modo di guidare un’azienda si avvicina di più, probabilmente, ad una sorta di arte della performance — occuparsi meno dei profitti e più di tracciare una via per gli imprenditori del futuro. “Non avrei nemmeno mai voluto mettermi in affari – dice – ma rimango legato a Patagonia perché è quella mia risorsa che mi dà la possibilità di fare qualcosa di buono. E’ un modo per dimostrare che le aziende possono vivere con coscienza“.

Yvon Chouinard su Stella Marina, val di Mello, 31 maggio 1980
Yvon Chouinard su Stella Marina, 31.05.1980, val di Mello.

Quella mission è già ampiamente operativa. Il nuovo libro di Chouinard The responsible company (l’Azienda Responsabile), pubblicato questo mese, offre dettagliatissime liste di controllo per poter far soldi senza procurare inutili danni alla società. In questi giorni perfino le mega-aziende gli stanno rivolgendo attenzione. Chouinard è entrato in partnership con Walmart, davvero una strana coppia improbabile come mai si è vista in termini di volumi (il fatturato di Walmart supera di circa 800 volte quello di Patagonia) e di clientela, per consigliare il gigante del dettaglio su come ridurre gli imballaggi e l’uso di acqua nella propria filiera di distribuzione. Le due aziende si sono alleate per creare la “Coalizione dell’Abbigliamento Sostenibile”, invitando altri grandi marchi quali Levi Strauss, Nike, Gap ed Adidas ad unirsi a loro per fissare regole chiare e quantificabili per una produzione di abbigliamento responsabile nei confronti dell’ambiente. “Adoro Yvon – dice Mary Fox, dirigente responsabile per l’approvvigionamento globale di Walmart – quando abbiamo cominciato ad andare assieme in giro a cercare altre aziende da reclutare ci chiamavamo con i nomignoli di Davide e Golia, perché nel regno della sostenibilità noi rappresentavamo Davide, e Patagonia Golia“.

A 73 anni Chouinard è un uomo piccolo e scattante che ne mostra sì e no 60. Si tiene in forma e mantiene l’abbronzatura con il surfing che pratica ogni santo giorno in cui ci siano onde anche solo appena decenti. Si aggira per la sede della Patagonia a Ventura, California, per andare a vedere i nuovi progetti (mi ha fatto vedere un nuovo piumino, robusto, il cui peso sembrava essere quello di una graffetta, salvo dirmi che avrebbe preferito uccidermi piuttosto che rivelarmi come lo producono) e andare poi ad armeggiare alla sua scrivania con un leggero fornelletto da campo di sua stessa invenzione. Se solo decidesse di farlo, potrebbe semplificarsi notevolmente la vita andando a fare una vita da pensionato deliziosamente attiva. Lui e sua moglie sono unici proprietari di Patagonia, una azienda privata che ha avuto vendite per 414 milioni di dollari l’anno scorso e che ha per quest’anno in previsione un aumento del 30 per cento sempre nelle vendite. Non dovendo provare poi chissà cosa a chissà chi Chouinard potrebbe vendere l’azienda e passare allegramente il proprio tempo alla ricerca delle onde giuste (qui o nell’altra sua casa lungo la costa all’Hollister Ranch), a pescare a mosca (vicino alla sua casa di Jackson, Wyoming, usando mosche che prepara da solo), e a promuovere e fare donazioni per le sue cause ambientali preferite. Il capostipite di Patagonia, però, ha ancora da fare con la sua azienda!

Alessandro Gogna e Marco Preti in casa di Yvon Chouinard, Ventura, California, ottobre 1978California,  , Ventura, A. Gogna e M. Preti in casa di Yvon Chouinard , ottobre 1978

L’evoluzione che ha portato Patagonia a diventare un’azienda di abbigliamento ha avuto inizio negli anni Settanta, quando Chouinard, che all’epoca era un alpinista di prim’ordine e un progettista di attrezzatura per alpinismo, iniziò a importare magliette da rugby, più resistenti, e pantaloni al ginocchio in cordura da far indossare ai suoi compagni di scalata. Di lì a poco Patagonia si trovò a progettare la propria linea di abbigliamento e ben presto le vendite degli abiti superarono di gran lunga quelle dell’attrezzatura da arrampicata. Fu così che Yvon Chouinard divenne un fortuito magnate dell’abbigliamento. Questo risultò definitivamente chiaro quando a New York City le modelle iniziarono a indossare i gilet di pile di Patagonia. Non aveva la minima idea del perché e non gli faceva davvero né caldo, né freddo, ma alla fine arrivò a capire che la sua vita era cambiata.

Yvon nel suo blacksmith shop, dove ha creato materiale d’alpinismo per 3o anni. Foto: Tierney Gearon
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Nella sua casa in riva al mare all’interno di un’area chiusa e recintata poche miglia a nord della sede di Patagonia, Chouinard porta in tavola un vassoio del suo salmone, affumicato e tagliato a fette. “Questo non è roba di allevamento – dice tra un boccone e l’altro – è roba pescata di fresco“. Addentiamo mandorle tostate da lui stesso, ci versiamo da bere da una fresca bottiglia di Chenin Blanc stappata da lui e ci mettiamo a parlare di questo suo incredibile viaggio.

Chouinard è nato nel Maine il 3 novembre 1938, in una zona decisamente meno chic, da genitori franco-canadesi che si sono poi trasferiti con la famiglia a Burbank, California, quando lui aveva sette anni. Ha imparato l’inglese solo quando aveva otto anni e dice di aver passato buona parte della sua infanzia dentro e fuori il Los Angeles River, andando in cerca di gamberi tra i guadi o andando a caccia di conigli con arco e frecce. Alle superiori scoprì le scalate su roccia per poi divenire, come da sua stessa definizione, un “dirtbag” (lett. “sacco di spazzatura”, fig. persona sporca, ritenuta inutile per la società – NdT) cui piaceva affrontare ascensioni rischiose.

Ritenendo che l’attrezzatura da arrampicata dell’epoca non fosse all’altezza dei suoi standard, provò a creare attrezzatura di qualità superiore. Acquistò una forgia a carbone usata e imparò da solo l’arte del fabbro. L’attrezzatura che ne venne fuori ottenne il massimo rispetto tra gli scalatori. I prodotti che alla fine lo fecero diventare ricco, comunque, non furono chiodi e moschettoni, quanto piuttosto giacche di pile, pantaloncini da surf e camicie a quadri. A metà degli anni Ottanta Chouinard si trovò così non più a progettare attrezzatura tecnica per i suoi compagni e a sperare di finanziare le sue spedizioni e le sue scalate, bensì al timone di un marchio sulla cresta dell’onda, in rapida espansione e conosciuto a livello internazionale.

Yvon Chouinard alla sua scrivania, senza computer ma con una lavagnetta digitale Etch A Sketch dove i colleghi possono lasciargli messaggi. Foto: Tierney Gearon
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Non sapeva per certo che cosa avrebbe fatto di quel ruolo così inaspettato. “Volevo prendere il più possibile le distanze da quelle salme con le facce piene di creme che vedevo in giacca e cravatta nelle pubblicità delle riviste delle linee aeree – scrive nella sua autobiografia del 2005 Let my people go surfing (lasciate che i miei ragazzi vadano a far surf, edito in italiano con il titolo inglese da Vivalda Editori, 2009) – se proprio dovevo essere un uomo d’affari, l’avrei fatto alle mie condizioni“.

Quelle condizioni comprendevano l’adesione a ciò che lui chiama “approccio manageriale MBA”, ovvero “gestione tramite l’assenza”, il che lo vede ben distante da Ventura a volte anche per mesi interi, “a collaudare sul campo” l’attrezzatura da outdoor dell’azienda andando a scalare o a pescare. Quando si presenta in ufficio la sua uniforme abituale è costituita da jeans e una camicia casual Patagonia. Sulla sua scrivania non ci sono computer, ma solo un Etch A Sketch, cioè una lavagnetta digitale sulla quale i collaboratori possono lasciare messaggi in modo amichevole. Quando saluta i dipendenti lungo i corridoi, chiede delle loro ultime scalate e li invita ad andare a far surf a casa sua non appena le onde si mettono in moto.

Ci sono economisti che insistono sul fatto che le aziende si devono concentrare con decisione e freddezza unicamente sui profitti e che il capitalismo stesso in parte dipende da questa ferma concentrazione. Ancora nel 1970 Milton Friedman scrisse un saggio leggendario per il New York Times Magazine dal titolo La responsabilità sociale del business sta nell’aumentare i suoi profitti. Friedman esprimeva il suo disprezzo per le iniziative di beneficenza delle aziende, sostenendo che l’unico dovere di un dirigente d’azienda fosse la massimizzazione dei profitti per gli azionisti. Se i dirigenti desiderano fare del bene, sono liberi di andare a buttare i propri stipendi in opere di beneficenza. Un’azienda in quanto tale non ha competenze speciali nel far del bene e quindi dovrebbe starsene ben al di fuori di quei giochi.

Ben pochi andrebbero a incolpare un’azienda per aver incanalato parte dei propri profitti verso il proprio interno braccio caritatevole. La responsabilità sociale delle imprese (o RSI, com’è conosciuta nel gergo delle scuole d’economia), però, viene spesso trattata come una sorta di piacevole questioncina marginale, una specie di penitenza di piccola entità che viene usata dalle grandi aziende per modellare la propria immagine pubblica o per salvare le coscienze delle loro alte sfere. La RSI tradizionale ha portato a notevoli sforzi degni di ammirazione. Per esempio la Ronald McDonald House Charities fornisce aiuto alle famiglie di bambini malati o vittime di incidenti, un progetto più che degno che non ha nulla a che fare con il modello di business di McDonald’s.

Yvon Chouinard, 2004. Foto: Branden Aroyan
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Gli studiosi delle RSI sostengono sempre più che si potrebbero ottenere risultati ben maggiori se aziende come la McDonald’s prendessero in considerazione le responsabilità sociali legate alle loro linee operative di base. McDonald’s, per esempio, potrebbe analizzare l’impatto sociale della sua filiera di distribuzione, le sue politiche di assunzione e di impiego, la propria impronta carbonica e così via. Ed in effetti la McDonald’s ha fatto alcuni sforzi in questa direzione negli ultimi tempi, ma senza andare a impegnarsi in nulla che possa essere anche solo lontanamente simile a quell’autoflagellazione radicale che ha luogo quotidianamente da Patagonia.

Sì, Patagonia partecipa ad alcune iniziative tradizionali di responsabilità sociale d’impresa: dal 1985 devolve l’1 per cento del fatturato (delle vendite, non dei ricavi), per un totale di $41.5 milioni a movimenti ambientalisti locali. Nel corso degli anni è riuscita a convincere 1400 altre aziende nel mondo a unirsi a questa iniziativa dell’ “1% per il pianeta”. Chouinard, però, sostiene che questo sia solo una sorta di decima e ne parla come di una tassa sulla terra. Una trasformazione più sistematica dell’azienda ha avuto inizio nel 1991, quando un improvviso rallentamento che aveva fatto seguito ad anni di crescita al di là di ogni ambizione aveva fatto finire Patagonia nel caos.

I crediti erano stati tagliati e Chouinard racconta che il suo commercialista ad un certo punto lo aveva addirittura presentato ad un tizio della mafia che si era offerto di fare prestiti a interessi del ventotto per cento. L’azienda era stata costretta a far ricorso per la prima volta in assoluto al licenziamento di 120 dipendenti, un quinto della sua forza-lavoro. Chouinard iniziò a chiedersi se fosse il caso di rimanere o meno in gioco. Andò da un consulente di fama, il dottor Michael Kami, il quale raccomandò a Chouinard di vendere Patagonia per 100 milioni di dollari e di usare poi il ricavato per andare a fare beneficenza ambientale. “Presi seriamente in considerazione l’idea – dice Chouinard – ma così avrei fatto gli stessi errori di tutte le altre aziende. Decisi così che la cosa migliore che avrei potuto fare sarebbe stata quella di tornare a produrre profitti, a vivere una vita aziendale più coscienziosa ed a spingere altre aziende a fare la stessa cosa“.

Chouinard rimise a posto i conti e si dedicò anima e corpo a far sì che l’azienda potesse funzionare senza far ricorso ai crediti, come ora sta avvenendo. Dopodiché si mise a guardare attentamente tutto ciò che Patagonia produceva, spediva o trattava e decise di fare il tutto in un modo molto più responsabile. Cambiò i materiali, passando nel 1996 dal cotone convenzionale a quello biologico, nonostante questa scelta facesse inizialmente triplicare i costi di fornitura perché andava ad arrecare meno danni all’ambiente. Creò giacche di pile prodotte interamente da bottiglie di acqua minerale riciclate. Si dedicò quindi a creare prodotti durevoli e senza tempo quanto basta per far sì che la gente li dovesse cambiare meno spesso, riducendo così gli sprechi. Fece inserire nel sito web di Patagonia le “Footprint Chronicles” (Le Cronache delle Impronte) al cui interno sono riportati in modo chiaro ed evidente i danni ambientali causati dalla sua stessa azienda. Adesso si assume la responsabilità per ogni singolo articolo che sia mai stato prodotto da Patagonia, promettendo la sua sostituzione in caso di insoddisfazione da parte del cliente, oppure la sua riparazione (a una tariffa ragionevole), oppure ancora di aiutare il cliente a rivenderlo (Patagonia facilita gli scambi di abiti usati sul suo sito web) o di riciclarlo quando alle fine lo stesso non è più indossabile.

Il fondatore di Patagonia Yvon Chouinard in un meeting aziendale a casa sua, Ventura. Quando arrivano le onde, il team aziendale i meeting li fa così. Foto: Tierney Gearon
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A dire il vero, queste iniziative hanno anche il pregio di fungere da efficace autopromozione per il proprio marchio. Parte del fascino di Patagonia deriva dal suo impegno verso l’ambiente. Provate a prendere in considerazione l’acuta psicologia inversa della sua ultima pubblicità. Lo scorso novembre, durante il “Black Friday”, la festività non ufficiale americana dedicata all’ingordigia del consumatore, Patagonia venne fuori con una intera pagina di spazio pubblicitario sul New York Times con il titolo di testa a caratteri cubitali che diceva: Non acquistate questa giacca. Sotto la foto della giacca di pile in questione la pubblicità riportava fin nei minimi dettagli le quantità di acqua sprecata e di carbonio emesso durante la sua produzione.

Non avevo mai visto un’azienda che dicesse ai suoi clienti di acquistare una quantità inferiore dei suoi prodotti – dice meravigliato il professor Forest Reinhardt della Harvard Business School – è una iniziativa affascinante. Yvon è sicuro di potercela fare”. In effetti, Chouinard dice che quella pubblicità ha dato una grossa spinta alle vendite di Patagonia, anche se comunque sostiene che non abbia prodotto un maggior consumo totale, quanto, piuttosto, sia andata a portar via clienti già esistenti ma dei suoi concorrenti.

Reinhardt è stato il coautore di un case study della Harvard Business School dedicato a Patagonia nel 2010. Come molti altri professori delle scuole d’economia con i quali mi sono trovato a parlare di Patagonia, sembrava essere rimasto piuttosto impressionato da Chouinard, il che peraltro è logico, in quanto, in un certo senso, l’attuale successo di Patagonia deriva da principi classici delle scuole d’azienda. Il marchio ha massimizzato ciò cui le scuole di business si riferiscono con l’acronimo di WTP, ovvero “l’essere disposti a pagare”. La qualità percepita di Patagonia, assieme all’aura di beneficenza che le sta attorno, fanno sì che i clienti siano convinti che i suoi prodotti valgano bene un prezzo più alto.

La provocatoria campagna pubblicitaria di Patagonia
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Chouinard non si limita, però, soltanto ad influenzare il mercato, va dritto al posto di lavoro. La sua politica di flessibilità sui tempi permette ai dipendenti di entrare e uscire a loro piacimento, per esempio quando ci sono belle onde alte alla vicina area da surf, a patto che termini e scadenze vengano rispettati. C’è a disposizione ad ogni ora del giorno una stanza per lo yoga (mi è capitato di entrarci e di trovare il capo disegnatore dell’abbigliamento maschile intento a meditare attorno alle undici di mattina di un martedì). Su consiglio e punzecchiatura di Malinda, la moglie di Chouinard, Patagonia è stata una delle prime aziende californiane a far sì che in azienda venisse fornito un servizio di nido d’infanzia sovvenzionato. Addirittura la sparagnina capo della contabilità, la COO (Direttore Amministrativo) e CFO (Direttore Finanziario) Rose Marcario sembra essere spiritualmente in pace con se stessa. Prima, quando lavorava presso altre aziende, dice la stessa “Mi sarei messa a cercare sistemi per far girare le tasse verso le isole Cayman. Qui, invece, siamo orgogliosi di pagare la nostra giusta quota di tasse. E’ una filosofia di tipo differente. C’è una maggiore integrazione tra la mia vita ed il mio lavoro, perché tanto per la prima che per il secondo cerco di essere fedele agli stessi valori”.

Gli scettici sostengono che questo tipo di roba che ti fa sentir bene non potrebbe mai funzionare in una mega-azienda quotata in borsa o in una di quelle che non ricarica prezzi da capogiro per i suoi prodotti da intenditori. Dopo la consulenza data da Chouinard a Walmart sulla sostenibilità, però, il colosso del dettaglio ha scoperto che davvero stava risparmiando soldi con iniziative a favore dell’ambiente come ridurre gli imballaggi ed il consumo dell’acqua. “Siamo molto concentrati sul come abbassare i prezzi per i nostri clienti – dice Fox – e agli inizi sì, ci sono stati alcuni investimenti che abbiamo dovuto fare, ma il loro ritorno è stato così rapido da permetterci di rientrarne in un lasso di tempo più che ragionevole“.

Allo stesso modo Levi Strauss, con un fatturato annuo pari a più di dieci volte quello di Patagonia, ha abbracciato la politica di Chouinard volta alla creazione di parametri di riferimento basati sui dati per il miglioramento delle pratiche ecosostenibili dei produttori di abbigliamento. Levi’s ha passato gli ultimi 18 mesi a riprogettare i processi per risparmiare 45 milioni di galloni d’acqua, più tutta l’energia che avrebbe dovuto riscaldare quella stessa acqua. Ma questo non è semplice altruismo: mentre l’azienda non rende pubbliche cifre precise, Michael Kobori, V.P. responsabile della sostenibilità sociale ed ambientale per la Levi’s, afferma che “i risparmi sui costi per l’azienda sono reali”.

C’è il valore di un vero e proprio azionista al centro di molti degli ideali di Chouinard, valori che potrebbero essere applicati a tutti i tipi di impresa. Un luogo di lavoro più allegro e soddisfacente attrae e fa restare più volentieri i dipendenti, che a loro volta poi progettano prodotti migliori e sviluppano strategie più intelligenti. Pensare adesso all’impatto ambientale aiuta le aziende a prepararsi alle inevitabili normative future, permettendo di lasciare sul posto i concorrenti che non si sono preparati. E tutto questo altro non è che una buona gestione del marchio. I clienti, inoltre, sono sempre più consci dell’etica sociale delle organizzazioni.

Parecchi critici sostengono che le grosse aziende con il passare dei decenni abbiano perso la propria bussola morale, ma la nuova legislazione in sette stati, tra i quali la California, offre un modello differente. Il registrarsi come “benefit corporation” permette a un’impresa di dichiarare nel proprio statuto che l’obbligo fiduciario dei suoi dirigenti comprende la “considerazione degli interessi dei lavoratori, della comunità e dell’ambiente”, e non soltanto la voce relativa ai profitti.

Chouinard si è presentato negli uffici statali la mattina del 3 gennaio 2012, per far sì che Patagonia fosse la prima azienda a registrarsi come “benefit corporation” in California e rimane l’azienda di maggior rilievo a livello nazionale ad essersi registrata come tale a tutt’oggi. Per Chouinard il valore di questo non sta tanto nel presente, quanto nel futuro. Adesso come adesso può fare tutto ciò che crede a Patagonia senza alcuna minaccia di rivolta da parte degli azionisti se per caso sacrifica un po’ di profitto in nome di un comunitarismo etico. Ha il pieno possesso del suo posto a vita, ma per quanto riguarda la sua successione è piuttosto cauto e diffidente, e risulta subito chiaro ciò che teme: non vuole in nessun modo che Patagonia arrivi a diventare pubblica o a far leva su se stessa alla ricerca di una crescita rapida, come aveva erroneamente fatto prima. E’ convinto che diventare una “benefit corporation” aiuterà a impedire che ciò possa verificarsi.

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Anche se ha lasciato il New England quando aveva solo sette anni, Chouinard conserva ancora il portamento indifferente e un po’ sprezzante di un coriaceo uomo del Maine. Basta comunque aver a che fare con lui per poco tempo e subito è possibile vedere dentro di lui cosa realmente lo faccia ardere dalla passione. Non di certo lo stare al chiuso, si capisce subito che è uno che non si sente per nulla a suo agio sotto a un tetto. Non di certo la tecnologia, è una persona che non possiede un telefonino e che non usa i computer. Di sicuro non è il lusso, visto che gira su una station-wagon della Subaru ammaccata con più di centocinquantamila chilometri.

Le poche volte che l’ho visto illuminarsi sono state quando ha individuato alcuni gabbiani dal collare in riva al mare, vicino a casa sua; mentre mi stava mostrando un nuovo paio di ramponi in alluminio di Patagonia per i quali aveva collaborato alla progettazione; mentre mi descriveva la migliore onda che fosse mai riuscito a catturare, cosa che gli era capitata all’età di cinquant’anni nell’isola di Moorea, nel sud del Pacifico. A volte lavora ancora alla forgia in un piccolo sgabuzzino al campus di Patagonia e mi ha mostrato il suo progetto più recente, un coltello da molluschi in metallo che stava battendo per arrivare alla forma perfetta, con la lama affilata per aprire e fare leva sulla conchiglia e col manico smussato per staccare i crostacei parassiti. Non l’aveva soddisfatto nessuno dei coltelli da molluschi esistenti, così se ne è fatto uno migliore da solo e non vede l’ora di andare a provarlo nelle barene.

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Let my people go surfing ultima modifica: 2015-09-14T05:39:47+02:00 da GognaBlog

1 commento su “Let my people go surfing”

  1. 1
    stefano says:

    e’ davvero un grande, complimenti

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