Libertà e orientamento giuridico – 6
(Skialp, studio giuridico e comparato Italia-Svizzera – 6)
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Il Progetto Skialp@gsb è uno studio giuridico comparato Italia-Svizzera sulla promozione della pratica dello scialpinismo tra la Valle del Gran San Bernardo (AO) e la località svizzera di Verbier. E’ coordinato e diretto da Waldemaro Flick, Fondazione Courmayeur Mont Blanc.
La serietà con la quale in questo studio viene affrontata la complessità dell’argomento ne fa una lettura di interesse ben al di là dell’ambito locale. Abbiamo suddiviso Il Progetto Skialp@gsb in dieci puntate, nella certezza che ciascuna di queste risponderà a parecchie delle domande che da anni si fanno molti appassionati della neve.
Lo studio è articolato in tre diversi capitoli: Profili di diritto civile, Profili di diritto penale e Svizzera parte generale.
Profili di diritto penale – 02 (paragrafi 03-04)
a cura di Riccardo Crucioli (giudice, Tribunale di Genova)
(Collana “Montagna, rischio e responsabilità”, n. 24)
3. La responsabilità dei gestori di impianti sciistici
L’attività sciistica è stata normata dal legislatore statale e da quello regionale. È sufficiente scorrere brevemente la legge 363/2003 e le varie leggi regionali (ad es. la L.R. Liguria 40/2009) per enucleare la sussistenza di doveri in capo ai gestori, espressamente indicati dalle norme.
Negli ultimi anni la situazione di maggior pericolosità concreta non è però più quella prevista dalla legislazione statale, riguardante sostanzialmente lo sci in pista.
L’aumento esponenziale delle attività connesse ad una esasperata ricerca di libertà di movimento, in zone che non competono affatto al gestore degli impianti, ha portato nelle aule dei Tribunali penali questioni riguardanti le attività effettuate fuori dalle piste o dai tracciati ufficiali (162).
Si pensi allo sciatore-alpinista che intende raggiungere alcune vette sfruttando una funivia oppure il freerider che utilizza gli impianti di risalita con gli altri sciatori ma poi si allontana dalle piste tracciate o, ancora, l’appassionato di downhill che scende a forte velocità i sentieri od anche i tracciati appositi o pretende di segnare lui stesso nuove tracce di discesa.
Sul gestore degli impianti sportivi gravano particolari obblighi e doveri, alcuni dei quali assai singolari (mi riferisco ad esempio alle problematiche connesse alla c.d. pista di fatto).
L’esame di tali obblighi è dunque al tempo stesso semplice ed assai arduo.
Semplice perché i principi generali sono i medesimi già sopra indicati: si tratta di obblighi di impedire eventi dannosi connessi ai macchinari in sua dotazione; di garantire la sicurezza degli impianti ed anche delle aree connesse (ad esempio i servizi igienici).
L’esame degli obblighi è anche complesso perché con essi possono interferire agenti esterni non riscontrabili in altri settori dell’ordinamento sportivo. Anzi: è proprio la presenza di un ambiente ostile che invoglia gli sportivi ad affrontare i pendii, proprio per misurarsi con essi.
In line generale (e di prima approssimazione) è possibile affermare che la responsabilità dei gestori di impianti sciistici era prevista dal legislatore unicamente per gli infortuni occorsi all’interno delle piste sciabili per i pericoli atipici (quelli cioè che lo sciatore non si aspetta di trovare nel tracciato). Il punto verrà esaminato al §3.2 con distinzione rispetto ai pericoli tipici.
La giurisprudenza ha però iniziato ad esaminare casi nei quali la particolare tipologia della pista e/o delle situazioni esistenti al momento del sinistro hanno condotto ad eventi dannosi anche nelle zone poste immediatamente a ridosso della pista.
(162) Nel periodo 2001-2015 si sono contate 312 vittime per incidenti in valanga. Il 51% di esse stava praticando lo sci alpinismo; il 24% lo sci fuori pista; il 10% l’alpinismo. Nessuna vittima, invece, è stata causata da valanghe all’interno dei comprensori sciistici o nelle abitazioni. Le uniche vittime in abitazione (in numero di 30) si sono riscontrate il 18.1.2017 a seguito della catastrofica situazione creatasi in Abruzzo.
Si è iniziato dunque a trattare dei sinistri occorsi all’esterno delle piste. Il punto verrà esaminato al § 3.3.
Partendo dall’accertata responsabilità anche per alcuni eventi occorsi fuori dalle piste, si è iniziato ad ipotizzare l’addebito colposo per il c.d. “fuori pista”. Il punto verrà esaminato al § 3.4.
Infine si è giunti ad addebitare al gestore anche i sinistri occorsi nella c.d. “pista di fatto”, una pista cioè che per la ripetitività del passaggio degli utenti e per la diretta conoscenza di tale fatto in capo ai gestori è considerata come una vera e propria pista gestita. Il punto verrà esaminato al § 3.5.
In questa sede, e giusto per inquadrare il problema cercando di dare una catalogazione, è possibile affermare che il fuori pista può essere:
1) consapevole e volontario.
Lo sciatore sceglie consapevolmente di effettuare una discesa fuori dal comprensorio, accettando il rischio conseguente; la responsabilità è normalmente da escludersi; si tratterà il punto (fondamentale per la tematica di interesse) al § 3.6.
2) inconsapevole ed involontario.
È il caso – classico e più studiato – dello sciatore che finisce fuori dalla pista a causa di una caduta, di un malore, di una incapacità a gestire la direzione dei propri sci. In questi casi lo sciatore non solo non sa di finire fuori dalla pista, ma non lo vuole neppure. Se la conformazione dei luoghi rendeva probabile la fuoriuscita dalla pista, il gestore avrebbe dovuto assumere le cautele necessarie; è quindi probabile la sua responsabilità penale;
3) inconsapevole ma volontario.
Lo sciatore sceglie di transitare in un percorso ben individuato, credendo di essere all’interno del comprensorio sciistico gestito. È il caso trattato dalla recente sentenza 8110/19 che (essendo il punto di arrivo della giurisprudenza in materia) verrà esaminata nel dettaglio: a causa della mancata segnalazione del fine pista e della tracciatura del bordo pista, lo sciatore crede di proseguire lungo il percorso gestito ed è inconsapevole di impegnare il fuori pista. In questo caso la volontà di seguire una via gestita sussiste ma è viziata dalla mancanza di informazione corretta.
La responsabilità del gestore è probabile, poiché lo sciatore ha optato per un percorso che non è stato segnalato in modo adeguato.
È proprio in tale ambito che è sorta la teorica della c.d. pista di fatto.
3.1 La legge statale 363/2003
Per comprendere i termini della questione è doveroso iniziare ad esaminare le definizioni date dalla legge statale, che (come per gli impianti sportivi in generale) fornisce la specificazione dei termini lessicali.
L’art.2 della l. 363/2003 afferma che per “aree sciabili attrezzate” si devono intendere le superfici innevate, anche artificialmente, aperte al pubblico.
Tali aree comprendono:
– piste;
– impianti di risalita;
– impianti di innevamento;
e sono abitualmente riservate alla pratica degli sport sulla neve quali:
– lo sci, nelle sue varie articolazioni;
– la tavola da neve, denominata «snowboard»;
– lo sci di fondo;
– la slitta e lo slittino;
– altri sport individuati dalle singole normative regionali.
Il Comune (e dunque non il gestore) individua i tratti di pista da riservare agli allenamenti (qualora le aree abbiano più di tre piste servite da almeno tre impianti di risalita) e lo snowpark (area da riservare alle evoluzioni acrobatiche) qualora vi siano più di venti piste servite da almeno dieci impianti di risalita.
La legge è poi esplicita dell’escludere che il concessionario (normalmente il comune) e il gestore degli impianti siano responsabili degli incidenti che possono verificarsi nei percorsi fuori pista serviti dagli impianti medesimi (cfr art. 17).
Gli sciatori che pagano lo ski pass ed usano gli impianti per effettuare percorsi fuori dalla pista, non possono dunque confidare sulla gestione dei tratti non indicati e non tracciati.
Al gestore delle aree sciabili di cui all’art. 2 sono invece riservati gli obblighi indicati dall’art. 3 della l. 363/03; essi devono:
– assicurare agli utenti la pratica delle attività sportive e ricreative in condizioni di sicurezza, provvedendo alla messa in sicurezza delle piste secondo quanto stabilito dalle regioni;
– proteggere gli utenti da ostacoli presenti lungo le piste mediante l’utilizzo di adeguate protezioni degli stessi e segnalazioni della situazione di pericolo;
– assicurare il soccorso e il trasporto degli infortunati lungo le piste in luoghi accessibili dai più vicini centri di assistenza sanitaria o di pronto soccorso;
– fornire annualmente all’ente regionale competente in materia l’elenco analitico degli infortuni verificatisi sulle piste da sci e indicare, ove possibile, anche la dinamica degli incidenti stessi. I dati raccolti dalle regioni sono poi trasmessi annualmente al Ministero della salute a fini scientifici e di studio.
Alla legge statale sono poi seguite le leggi regionali (o delle province autonome di Trento e Bolzano) che inseriscono temi di dettaglio ma comunque rilevanti.
Basti pensare alla legge della provincia di Bolzano che espressamente definisce come pericoli tipici i cumuli di neve artificiali. La precisazione assume certamente importanza poiché lo sciatore che cade su tale ostacolo (data anche la diversa consistenza della neve artificiale) non può dolersi di alcunché, essendo indicato come pericolo tipico dallo stesso legislatore provinciale e dunque come posto a carico dello sciatore medesimo.
Trattasi di esempio illuminante sulle conseguenze (assolutamente consapevoli e basate su valutazioni anche economiche) delle norme in questo specifico ambito.
3.2 I pericoli interni alla pista: i pericoli “tipici” e “atipici”
La responsabilità penale parrebbe dunque limitata a ciò che avviene all’interno dei tracciati ufficialmente indicati.
Anche in tale ambito, inoltre, si deve effettuare una distinzione tra i pericoli connaturati ai luoghi nei quali si effettua l’attività sportiva e quelli invece non attesi, non tipicamente ed usualmente presenti in tali luoghi.
Si è già visto che il gestore ha una posizione di garanzia, connessa non solo ad una norma dettata da fonte pubblicistica o privatistica ma anche, più in generale, alla stessa natura dell’attività da lui esercitata, in quanto generatrice di pericolo (163).
Al proposito il gestore potrebbe essere chiamato a rispondere sulla base anche del solo art. 2050 cc (164), a condizione che sia fornita specifica indicazione sul perché, nel caso concreto, si debba considerare pericolosa l’attività; infatti l’accertamento della potenzialità lesiva di una attività va compiuto “ex ante” e cioè senza riferimento al fatto dannoso concretamente verificatosi, ma con riguardo alle ordinarie modalità di esercizio dell’attività considerata; la giurisprudenza civile della Corte ha reiteratamente affermato che non costituisce attività pericolosa, ai sensi dell’art.2050 c.c., la gestione di un impianto sciistico mentre è notoriamente pericolosa è l’attività sciistica in sé, ossia la pratica sportiva dello sci, che è, tuttavia, attività ben diversa e distinta da quella di gestione dei relativi impianti (165).
Pare allora più corretto individuare la fonte della posizione di garanzia non tanto nell’art. 2050 cc quanto nella responsabilità contrattuale, diversa da quella extracontrattuale di cui all’art.2050 c.c. sotto molteplici aspetti, non ultimo quello connesso alla prova liberatoria per l’onerato.
L’individuazione della fonte dell’obbligo nella norma generale ed anche nel contratto che lega i singoli soggetti pone in sintonia la Suprema Corte penale con quella civile (166).
Si è infatti visto che gli obblighi indicati dalla l. 363/03 e dalle leggi regionali sono assai generici; come tali, debbono essere riempiti di contenuto dall’opera giurisprudenziale.
Descrivere in concreto quali siano le “condizioni di sicurezza” che il gestore deve osservare è una operazione ermeneutica non neutra.
Ai sensi dell’art. 7 i gestori sono responsabili della manutenzione ordinaria e straordinaria delle aree. Un’altra differenza, e non da poco, rispetto agli altri soggetti gestori. A loro carico dunque – prescindendo dalla titolarità del diritto di proprietà dei terreni – è posta la manutenzione straordinaria dell’intera area sciabile.
I gestori debbono infatti curare “che (le aree) possiedano i necessari requisiti di sicurezza e che siano munite della prescritta segnaletica”.
(163) Ex plurimis cfr Cass. Sez. 3 Civ., n. 5341 del 29/05/1998, Rv. 515946, Casalino contro Ferma: nella fattispecie è stato ribadito che “costituiscono attività pericolose ai sensi dell’art. 2050 c.c., non solo quelle che tali sono qualificate dalla legge di pubblica sicurezza e da altre leggi speciali, ma anche quelle che per la loro stessa natura o per caratteristiche dei mezzi adoperate comportino una rilevante possibilità del verificarsi di un danno per la loro spiccata potenzialità offensiva”.
(164) Art. 2050. (Responsabilità per l’esercizio di attività pericolose): chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di un’attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati, è tenuto al risarcimento, se non prova di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno.
(165) al riguardo, cfr. Sez. 3 Civ., n. 6113 del 12/05/2000, Rv. 536456, Tomaselli contro Panarotta.
(166) basti ricordare la sentenza n. 2563 del 6 febbraio 2002, della Seconda Sez. Civile (RV. 594375, Carbognin contro Paganella) con la quale è stato precisato che il contratto di “ski-pass” (che consente allo sciatore l’accesso, dietro corrispettivo, ad un complesso sciistico al fine di utilizzarlo liberamente ed illimitatamente per il tempo convenzionalmente stabilito) presenta i caratteri propri di un contratto atipico nella misura in cui il gestore dell’impianto assume anche, come di regola, il ruolo di gestore delle piste servite dall’impianto di risalita, con derivante obbligo a suo carico della manutenzione in sicurezza della pista medesima e la possibilità che lo stesso gestore sia chiamato a rispondere dei danni prodotti ai contraenti determinati da una cattiva gestione (manutenzione) della pista, sulla scorta delle norme che governano la responsabilità contrattuale per inadempimento sempre che l’evento dannoso sia eziologicamente dipendente dalla suddetta violazione e non, invece, ascrivibile al caso fortuito art.2051 c.c., riconducibile ad un fatto esterno al sinallagma contrattuale.
Si è allora in presenza di un ulteriore obbligo, separato da quella della gestione pura e semplice, di protezione verso i clienti, che si spinge fino al posizionamento di cartelli e segnali idonei a garantire la sicurezza della pratica sportiva.
Ma non solo.
Il comma 2 dell’art. 7 prevede che i gestori debbono segnalare anche le cattive condizioni del fondo e che “qualora le condizioni presentino pericoli oggettivi dipendenti dallo stato del fondo o altri pericoli atipici, gli stessi devono essere rimossi, ovvero la pista deve essere chiusa”.
Si noti che il gestore è tenuto addirittura a chiudere la pista in caso di pericolo e comunque a rimuovere i pericoli atipici. Tale dizione rimanda ad un concetto già citato e verrà approfondito nel prosieguo.
Si deve però fin d’ora evidenziare l’estremo rigore del legislatore che evidentemente ritiene che lo sci sia uno sport pericoloso ancora più della gestione degli impianti. Tale evidenza (sottolineata anche dagli articoli della legge dedicati alla sicurezza dell’attività sportiva in sé e per sé considerata) è stata ben colta dalla giurisprudenza più recente.
Si segnalano poi ancora due obblighi:
1) quello di porre le segnalazioni dello stato della pista o la chiusura della stessa in modo ben visibile al pubblico sia all’inizio della pista sia presso la stazione a valle dell’impianto; si noti: in modo ben visibile; all’inizio della pista e (in aggiunta) nella stazione; principi che troveranno una importanza dirimente per risolvere alcuni casi concreti esaminati nel prosieguo;
2) quello di chiudere la pista non solo per pericoli inerenti al fondo (sulla base dell’art. 7 comma 2) ma per qualsiasi altro pericolo o di inagibilità (articolo 7 comma 3).
Da un lato è infatti ovvio che la messa in sicurezza delle piste deve prevedere il posizionamento di elementi di tutela e di protezione dai pericoli interni alla pista (pilastri, cunette, incroci, sopraelevazioni come il passaggio di seggiovie, pali degli impianti ed anche tunnel).
Parimenti ovvio è il riferimento ai pericoli posti nelle immediate vicinanze della pista, come alberi, impianti per l’innevamento artificiale e tutti gli oggetti fissi, infissi o anche mobili che sono o vengono posizionati ai bordi delle piste sciabili.
Per alcuni di tali pericoli si parla di tipicità: lo sciatore è ben consapevole che all’interno della pista possono essere presenti alcuni ostacoli o alcuni tratti con difficoltà di percorrenza. Si pensi ad esempio ai sassolini in condizioni di innevamento non perfette, ai tratti ghiacciati, alle curve in pendenza.
Si tratta insomma dei c.d. pericoli tipici; pericoli cioè che lo sciatore si aspetta di trovare impegnando una discesa all’interno della pista.
A fronte dell’individuazione di tale ambito, e per esclusione, è possibile individuare i c.d. pericoli atipici.
Con tale termine si intende riferirsi ai pericoli che lo sciatore non si attende di trovare all’interno delle piste. Ad esempio alberi, tralicci, buche, avvallamenti ed ogni altra insidia inusuale per una pista nella quale gli sciatori scendono anche ad alta velocità ed in situazioni meteo spesso tutt’altro che ottimali (basti pensare alle nuvole basse, alle nevicate, al vento ed alle altre situazione nelle quali la visuale è impedita).
Ricapitolando le questioni connesse ai pericoli INTERNI alla pista:
– i gestori non rispondono per i pericoli tipici, essendo onere dello sciatore o comunque dello sportivo adottare le cautele volte ad evitare insidie che normalmente sono presenti nell’ambito di attività prescelto e comunque in esso insiti e connaturati;
– i gestori rispondono per i pericoli atipici, quelli cioè che lo sportivo non si attende di trovare nella pista e che devono essere eliminati o messi in sicurezza da chi gestisce la pista.
3.3 I pericoli esterni alla pista
Passiamo all’esame dei pericoli esterni alla pista.
Con il contratto di ski pass ed in forza delle norme speciali, il gestore degli impianti non mette a disposizione dello sciatore solo il trasporto da valle a monte: il reale contenuto dell’obbligazione contrattuale è infatti garantire una discesa scevra da pericoli.
La risposta alla domanda: perché il cliente paga per salire con gli impianti? È senza dubbio: perché vuole scendere le piste divertendosi.
Il sinallagma contrattuale e le norme cogenti comprendono ed impongono allora prestazioni accessorie, costituenti un pacchetto di servizi che trascendono il mero trasporto da valle a monte e riguardano l’intera attività dell’utente, quali la messa a disposizione di piste dotate delle necessarie misure di sicurezza.
Il gestore risponderà pertanto per tutte le insidie, per tutte le mancate protezione dei clienti dai rischi, per tutte le mancanze che generino un danno ai clienti.
Ciò che rileva sono i principi generali sopra indicati: un evento di danno (morte o lesione); una omissione (di controllo, di vigilanza, di azione); un obbligo giuridico di impedire l’evento (il contratto); la colpa (violazione di legge o di clausole generali, imprudenza, imperizia, negligenza); il nesso di causa tra l’omissione e l’evento di danno; la prevedibilità e l’evitabilità.
Se il gestore avesse posizionato un materasso a protezione del palo che era in mezzo alla pista, lo sciatore avrebbe evitato di rompersi un braccio? Se il tratto ghiacciato fosse stato segnalato, lo slittino avrebbe curvato e non sarebbe finito nel fosso e il suo guidatore avrebbe evitato di spaccarsi la gamba? E soprattutto: era prevedibile che lo sciatore o il guidatore di slittino si spingessero a quella velocità in quel punto preciso? Era prevedibile la causazione di quel preciso sinistro in base a quel preciso pericolo? Sono queste le domande che si deve porre il Giudice e la risposta deve essere data sulla base della situazione che il gestore conosceva o avrebbe dovuto conoscere prima dell’evento lesivo.
Fino a questo punto, dunque, si è in presenza di una applicazione dei principi generali comuni agli altri gestori di impianti sportivi.
Il problema nasce però dal fatto che le piste da sci non sono come quelle i tracciati per le autovetture, i go-kart o le moto e neppure come le palestre: non sono delimitate da muri ed è materialmente impossibile impedire agli sciatori di uscire dalle piste tracciate lungo tutto il percorso.
Tale osservazione aveva inizialmente impedito l’addebito colposo degli eventi lesivi: se il gestore non è responsabile per gli eventi occorsi fuori dalla pista (art. 17 l. 363/03) e se è inesigibile l’obbligo di recintare le piste, non è possibile imputare alcunché ai gestori.
Infatti gli artt. 3 e ss della l. 363/2003 debbono essere letti nel senso che al di fuori dell’ambito della pista, il gestore non ha alcun potere di dominio sulle possibili fonti di pericolo per i terzi, né alcun potere di organizzazione, intervento e vigilanza su di esse, con la conseguenza che egli non ha alcun obbligo di attivarsi per impedire il verificarsi di eventi lesivi nei confronti di soggetti terzi.
Non è configurabile, quindi, in capo al gestore dell’area sciabile alcun obbligo di protezione nei confronti degli sciatori che abbiano abbandonato la pista battuta volontariamente.
Del pari, si sosteneva, la responsabilità del gestore non riguarda neppure i danni che lo sciatore si è provocato allorché sia uscito di pista anche solo erroneamente e inconsapevolmente, ad esempio per eccessiva velocità o per disattenzione.
Il terreno innevato che si trova fuori della pista da sci, infatti, è estraneo al controllo del gestore della stessa, con la conseguenza che questi non è garante dei beni giuridici esposti ad eventuali pericoli che quel terreno possa presentare.
Ne consegue che la protezione dello sciatore cessa ai bordi della pista, specie quando questa sia sufficientemente larga da consentire un percorso in sicurezza, non potendo certo ritenersi che tutto il percorso debba essere contornato da reti di protezione (167).
Dati tali presupposti, la giurisprudenza ha però iniziato ad esaminare casi nei quali lo sciatore cade sì all’interno della pista ma poi fuoriesce dal tracciato involontariamente, provocandosi lesioni in zone immediatamente contigue ad esso.
In questi casi si è iniziato ad affermare un principio perfettamente coerente con le premesse sopra esaminate: se la conformazione dei luoghi (dunque della pista in uno con ciò che la circonda) è tale da rendere presumibile la fuoriuscita dal tracciato, è allora onere del gestore porre in essere tutte le cautele necessarie ad evitare un evento che è perfettamente prevedibile.
Infatti, nel caso in cui la situazione naturale dei luoghi renda altamente probabile che si esca dalla pista, l’obbligo di protezione che è proiezione della posizione di garanzia non riguarda più unicamente i pericoli atipici (cioè quelli che lo sciatore non si attende di trovare, diversi quindi da quelli connaturati a quel quid di pericolosità insito nell’attività) ma si estende anche a quei pericoli che sono fisicamente esterni alle piste ma ai quali si può andare incontro in caso di uscita di pista.
La Suprema Corte ha affermato infatti che: “è sussistente, in capo al gestore di impianti sciistici, l’obbligo di porre in essere ogni cautela per prevenire i pericoli anche esterni alla pista ai quali lo sciatore può andare incontro in caso di uscita dalla pista medesima e ciò anche nel caso in cui la situazione dei luoghi può rendere probabile, per conformazione naturale del percorso, siffatta evenienza accidentale (nella fattispecie, la pista, battuta fino all’orlo, rendeva probabile, in mancanza di reti di protezione, lo scivolamento per il declivio al lato in caso di perdita di controllo da parte dello sciatore) (168)”.
Si gioca dunque tutto sul grado di prevedibilità dello specifico evento.
Un altro caso può essere utile a capire il concetto di estensione della responsabilità del gestore anche ai pericoli esterni alla pista che interferiscono con gli sciatori che usano normalmente la pista da sci.
Si tratta della fattispecie portata all’attenzione della Cass. 30.9.2015 n. 44796 avente ad oggetto la responsabilità del gestore per non aver apposto barriere ai lati delle piste.
(167) Cfr Cassazione Sez. 4, Sentenza n. 14606 del 15/02/2017.
(168) Sez. 4, n. 27861 del 20/04/2004, Rv. 229073, Imputato: Marchelli.
Un minore, conoscendo i luoghi, aveva notato che uscendo per un breve tratto da una pista segnata era possibile rientrarvi sfruttando un piccolo avvallamento posto proprio sul bordo della pista, facendo così un salto; nel saltare, però, il minore non si avvedeva dell’arrivo di un’altra sciatrice, che veniva così investita, riportando la lesione dei legamenti del ginocchio destro.
Il Giudice di Pace di Bressanone assolveva il gestore e l’addetto alla sicurezza dell’impianto di risalita, assumendo che difettavano sia l’elemento soggettivo sia l’obbligo per gli imputati di proteggere le piste (ma solo di tutelare lo sciatore dalle uscite di pista e da collisioni con elementi esterni, non il contrario).
La Corte di Cassazione ha annullato la sentenza affermando che la legge provinciale di Bolzano indica come obbligo del gestore quello di garantire la sicurezza e prevedendo non solo l’obbligo di delimitazione delle piste ma anche quello di protezione (art. 3: l’area adiacente deve essere protetta da pericoli atipici).
Il gestore dell’impianto e delle piste servite ha infatti a suo carico l’obbligo della manutenzione in sicurezza della piste medesime che gli deriva altresì dal contratto concluso con lo sciatore che utilizza l’impianto (169).
Il pericolo da prevenire, oggetto della posizione di garanzia, non è quindi solo quello interno alla pista.
Pur affermando che un tale obbligo di protezione non si possa dilatare sino a comprendervi tutti i pericoli esterni, si afferma tuttavia che il gestore è tenuto a prevenire quei pericoli fisicamente esterni alle piste, ma cui si poteva andare incontro anche in caso di comportamento imprudente di terzi.
È stato evidenziato dal PM appellante che quel passaggio fuori pista era particolarmente pericoloso, stante la presenza del dente che ne consentiva l’utilizzo come trampolino per immettersi perpendicolarmente nella pista, con evidente (e prevedibile) rischio per gli sciatori ivi presenti.
La pericolosità di quel passaggio era nota agli imputati o comunque essi avevano l’obbligo di esserne a conoscenza in quanto afferente, comunque, alla gestione della pista, con la conseguente necessità di apprestare le dovute protezioni o comunque di segnalare la situazione di rischio che poteva determinarsi per i fruitori della pista stessa, attesa la particolare conformazione dei luoghi.
Il medesimo ragionamento è stato seguito anche da Cass Sez. 4, n. 27861 del 20/04/2004, Rv. 229073 che ha ritenuto sussistente, in capo al gestore di impianti sciistici, l’obbligo di porre in essere ogni cautela per prevenire i pericoli anche esterni alla pista ai quali lo sciatore può andare incontro.
Il gestore deve, allora, prevenire quei pericoli fisicamente esterni alle piste, ma a cui si può andare incontro in caso di uscita di pista solamente qualora la situazione dei luoghi renda altamente probabile che si fuoriesca dalla pista battuta, per la conformazione naturale del percorso.
Certo è che un tale obbligo di protezione può ricomprendere i pericoli esterni solo quando siano derivanti da una fuoriuscita “altamente probabile” dalla pista170.
La sentenza così conclude: “appare corretto riconoscere in capo al gestore l’obbligo di recintare la pista ed apporre idonee segnaletiche e protezioni, o in alternativa rimuovere possibili fonti di rischio, anche esterne al tracciato, ma solo in presenza di un pericolo determinato dalla conformazione dei luoghi che determini l’elevata probabilità di un’uscita di pista dello sciatore, mentre apparirebbe eccessivo (e concretamente inesigibile) pretendere dal gestore che tutta la pista sia recintata oppure che tutti i massi ed i pericoli situati nelle sue prossimità siano rimossi”.
(169) Cfr. anche Sez. 4, n. 39619, 11 luglio 2007, Bosticco ed altro, Rv. 237822.
(170) Cfr Cass. sez. fer., n. 37267 del 13/08/2015.
Un’altra sentenza (171) che ha ritenuto la responsabilità penale del gestore (e delle figure professionali a lui prossime) è assai significativa avendo riguardato l’addebito di non aver fatto segnalare in maniera adeguata, stanti anche le condizioni di ridotta visibilità presenti il giorno dell’incidente, il margine battuto (tramite rete di protezione di tipo B ovvero intensificazione del numero di paline e di segnalazioni di pericolo) in maniera tale da impedire l’uscita di pista della vittima e la conseguente caduta sul masso con esito fatale.
La Difesa, tra le varie doglianze sollevate in sede di ricorso in Cassazione, ha rimarcato che l’uscita era stata volontaria e che il masso era esterno alla pista.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso affermando, con ampi richiami alla precedente giurisprudenza (172), che la posizione di garanzia che assume il gestore di un impianto sciistico in ordine all’incolumità degli sciatori prevede l’obbligo di recintare la pista ed apporre idonee segnaletiche e protezioni, o, in alternativa, rimuovere possibili fonti di rischio, in presenza di un pericolo determinato dalla conformazione dei luoghi che determini l’elevata probabilità di un’uscita di pista dello sciatore. Né pare seriamente discutibile che la presenza di una “scarpata” posta a margine di un tratto di pista in curva richieda particolari accorgimenti di sicurezza (di segnalazione e protezione) idonei a ridurre al minimo il rischio derivante da sempre possibili e non volute (per errore, stanchezza, incapacità tecnica, ecc…) uscite di pista da parte dello sciatore medio.
Concludendo sul punto:
– i gestori NON sono responsabili in modo generalizzato dei pericoli esterni alle piste, non essendo loro compito eliminare le insidie in un ambito, come quello montano, nel quale i pericoli sono innumerevoli e non gestibili;
– i gestori SONO responsabili dei pericoli esterni alle piste nel caso in cui sia probabile o anche solo possibile l’uscita di pista da parte degli utenti. In questo caso sono tenuti ad adottare le cautele rese necessarie dalla conformazione dei luoghi.
(171) Cass. Sez. 4, Sentenza n. 8110 del 13/12/2018 Ud. (dep. 25/02/2019 ) Rv. 275214 – 01 in Italgiureweb.
(172) Ed in particolare alla Cass. sez. IV 14606 del 15.2.2017 Seber rv. 26985101.
3.4 Il fuori pista
Con il termine “fuori pista” si indica un percorso esterno alle piste oggetto di gestione.
Il problema si pone perché il legislatore al capo III della legge 363, dopo aver affrontato il problema delle norme di comportamento degli utenti delle aree sciabili (173), all’art. 17 afferma: “il concessionario ed il gestore degli impianti di risalita non sono responsabili degli incidenti che possono verificarsi nei percorsi fuori pista serviti dagli impianti medesimi”.
(173) Ad esempio regole volte alla tutela dei minori di anni 14 (che debbono usare il casco), alla limitazione della velocità (che deve essere adeguata in relazione alle condizioni della pista ed alle situazioni concrete), alla precedenza, al sorpasso, agli incroci, allo stazionamento e ad altre situazioni concrete (soccorsi, transito e risalita con mezzi meccanici e/o diversi da quelli dello sci o dello snowboard).
La norma è chiarissima nell’escludere la responsabilità per ciò che avviene fuori dai tracciati gestiti espressamente. Sarà dunque responsabilità esclusiva dei c.d. freerider o degli scialpinisti qualunque incidente: sia quello autoprodotto (l’utente con lo snowboard pratica una discesa fuoripista e cade in un torrente non segnalato, ferendosi) sia quello prodotto ad altri (provocando valanghe che colpiscono altri freerider o clienti che sciano nelle piste).
Medesima regola viene dettata dalla predetta “direttiva valanghe” che nell’allegato 1 afferma che chi percorre il “territorio libero” accetta il rischio in esso insito, senza potervi rivalere verso terzi né sotto il profilo civile né sotto il profilo penale.
Nonostante la espressa dizione normativa, la giurisprudenza è orientata, per alcuni ipotesi ben determinate, in senso diametralmente opposto.
Infatti il rispetto delle norme elide la colpa specifica ma può non rilevare ai fini della colpa generica: la negligenza, l’imprudenza e l’imperizia possono certamente sussistere a prescindere dall’osservanza delle norme positive.
È tuttavia auto-evidente che la responsabilità del gestore può essere affermata unicamente in casi ben determinati, mentre è normalmente da escludere.
Vediamo il perché.
Il “fuori pista” meno problematico è quello effettuato da soggetti che effettuano la risalita con mezzi autonomi, ad esempio mediante lo scialpinismo. In questo caso i gestori degli impianti di risalita non possono essere chiamati a rispondere di nulla, non venendo coinvolti. In tali casi è invece possibile ipotizzare la responsabilità delle guide alpine o degli organizzatori ad esempio dell’accompagnamento mediante eliski o ancora di coloro che forniscono le tracce GPS del percorso o pubblicizzano l’area di freeride. Di tali aspetti si parlerà nei § 4 e 5.
Invece il “fuori pista” effettuato mediante gli impianti di risalita presenta maggiori aspetti problematici, poiché lo sciatore si affida al gestore per impegnare, in discesa, un tratto di montagna altrimenti difficilmente raggiungibile. Si pensi ad es. a Punta Indren o al ghiacciaio della “Vallée Blanche” ma anche, molto più semplicemente, ai costoni del monte posti a fianco delle piste regolarmente tracciate in luoghi definiti dagli stessi gestori o dagli enti comunali (interessati ovviamente alla pubblicità presso il pubblico degli utenti) come “il paradiso del freeride”.
Ed è proprio in tali esternazioni che si annida il problema.
La responsabilità penale è infatti da escludersi nella misura in cui lo sciatore o comunque l’utente della montagna è posto nelle condizioni di conoscere il pericolo e conseguentemente valutare il rischio che sta affrontando.
Se viene fornita un’informazione completa circa il tracciato gestito e quello non gestito, l’utente sarà posto in grado di conformare la propria attività al grado di difficoltà indicato.
Se invece si crea una situazione di dubbio a causa di un’informazione superficiale o anche troppo generalista potrebbe essere difficile distinguere l’ambito gestito da quello non gestito ma situato proprio affianco delle piste regolarmente indicate nella ski map.
La responsabilità dei gestori in questi casi dipende dal grado di informazione che viene fornito al cliente.
Infatti non sarà possibile individuare alcun profilo di responsabilità nel caso in cui il gestore dell’impianto usato per affrontare, poi, il fuori pista abbia comunicato al cliente che il tracciato è situato in una zona esterna al comprensorio gestito; che sono presenti pericoli connaturati al luogo; che non vi è alcun tracciato e/o battitura; che chi affronta la discesa deve essere dotato degli strumenti necessari per essere individuato dai soccorsi e per effettuare il c.d. auto soccorso (pala, sonda, artva in modalità passiva). Insomma: che abbia fornito una informazione piena ed esaustiva dei rischi ai quali l’utente si espone uscendo dal tracciato gestito.
Come si vedrà al § 3.6, il discrimine consiste proprio nella CONSAPEVOLE accettazione del rischio connaturato al percorso fuori pista.
Nel caso in cui, invece, non sia fornita una informazione compiuta o non siano individuati chiaramente i limiti della pista gestita, non si potrà parlare di fuori pista volontario e consapevole, con conseguente possibilità di individuare profili di responsabilità per il gestore.
Come si è avuto modo di spiegare, non si rientrerebbe più nel fuoripista consapevole e volontario bensì in quello volontario ma inconsapevole.
3.5 La c.d. pista di fatto
Abbiamo esaminato i pericoli interni alle piste (tipici ed atipici), quelli esterni e quelli derivanti dall’uscita volontaria.
Restano da esaminare eventuali responsabilità derivanti dal “fuori pista” che genera una pista di fatto.
Con tale dizione si intende un percorso inserito nell’area sciabile attrezzata che, pur non rientrando tra le piste tracciate e delimitate, viene per consuetudine utilizzata dagli sciatori (174).
Se, infatti, un gestore è pienamente consapevole che gli sciatori usano frequentemente un versante della collina o della montagna; se tale utilizzo non è sporadico ma ripetuto nel tempo; se le tracce lasciate nel corso degli anni, dei mesi o anche solo dei giorni sono tali da denotare una frequentazione assidua degli sciatori, ebbene, tale tracciato non è più un semplice fuori pista ma diviene a tutti gli effetti una pista.
Una pista di fatto. Su tale pista il gestore è tenuto alla sorveglianza, in omaggio ai criteri della prudenza e diligenza, poiché in assenza di tale attività sarà chiamato a rispondere di lesioni o omicidio colposo sia nel caso di danno autoprodotto che di quello etero causato.
Cosa succede nel caso in cui sia proprio l’utente a scegliere di sciare fuori pista? E cambia qualcosa se tale uscita – ripetuta nel tempo dai cc.dd. freerider – crea una pista parallela a quella tracciata? Ed ancora: è possibile limitare la responsabilità del gestore degli impianti in presenza di una deliberata volontà dello sciatore che consapevolmente sceglie di affrontare il rischio di sciare in un punto pericoloso?
(174) È un fenomeno agilmente riscontrabile in ogni comprensorio sciistico: basti guardare i maestri delle scuole sci che portano i piccoli allievi in mezzo ai boschetti, o nello spazio esistente tra due piste tracciate o ancora in luoghi nei quali è possibile fare “salti” mozzafiato da mostrare agli amici o anche tali da mettere in risalto le doti atletiche e lo spezzo del pericolo.
A tutte queste domande ha dato risposta la giurisprudenza, con sentenze recenti che, pur dovendo ancora trovare consolidamento in orientamenti stabili, indicano principii del tutto condivisibili.
Principii che debbono tenere conto di due elementi cardine del nostro orientamento: quello di responsabilità per colpa e quello di auto-responsabilità.
Poiché le condotte umane sono infinite e spesso imprevedibili, il gestore di impianti di risalita non potrà essere chiamato a rispondere di quelle condotte (dei clienti sciatori o comunque fruitori della montagna) che sono del tutto imprevedibili o che rispondono ad una scelta rischiosa quanto consapevole di chi la compie.
Quando invece la loro condotta è prevedibile, reiterata e nota al gestore, quest’ultimo è chiamato all’osservanza dei doveri di cui si è già detto.
È infatti noto che, qualora molteplici sciatori utilizzino un percorso di “fuori pista” in modo reiterato, il gestore non può non esserne a conoscenza. Ed allora, se i clienti sono abitualmente portati ad utilizzare un tratto di monte come pista, il gestore deve porre in essere un’azione volta o ad impedirlo (vietando l’accesso, o materialmente o ponendo cartelli) oppure mettendo in sicurezza l’area.
Secondo una sentenza del Tribunale di Genova (14.1.2015) le “piste di fatto” sono “percorsi inseriti nel comprensorio sciistico che, pur non rientrando tra le piste tracciate e delimitate, vengono per consuetudine utilizzate dagli sciatori e che imporrebbero, nella impostazione accusatoria, oneri cautelari a carico dei gestori delle piste aggiuntivi rispetto a quelli che la L. 363/03 limita alle piste, escludendo espressamente, all’art. 17, la responsabilità del concessionario e del gestore degli impianti di risalita per gli incidenti che possono verificarsi nei percorsi fuori pista serviti dagli impianti medesimi.
Pur in mancanza di una definizione normativa di comprensorio sciistico, la giurisprudenza si è orientata a riconoscere una posizione di garanzia dei gestori delle piste anche all’interno di aree sciabili non propriamente definite piste che, per la loro collocazione in prossimità delle piste e perché è facile accedervi anche per disattenzione o imperizia, vengono agevolmente e frequentemente percorse dagli utenti”.
Data la conformazione normale delle piste di sci (visibili da fondovalle, commentate dai fruitori e note ai clienti abituali) usualmente i gestori sono a conoscenza dei tratti utilizzati come fuori pista abituali e dunque come “piste di fatto”.
Se non viene vietato l’accesso a tali tratti, il gestore è tenuto a farsi carico dei rischi in essi presenti.
Se così non avviene e se un cliente, uscendo dalla pista tracciata e usando la pista di fatto, riporta una lesione o muore, il gestore è chiamato a risponderne.
È proprio il caso trattato da Cass. sez. 4 n. 39619 del 26.10.2007 nell’ambito della quale si giudicava per omicidio colposo l’amministratore delegato della società che gestiva gli impianti di risalita ed il dipendente preposto.
In un tratto del monte erano presenti due piste, quasi parallele, che si ricongiungevano a valle. A mezza costa, però, era presente un torrente, con ripe alte alcuni metri.
In condizione di innevamento normale, tale torrente era coperto dalla neve, ragione per la quale gli sciatori vi transitavano spesso, usandolo proprio come una pista.
Il giorno di cui si tratta, invece, la scarsa neve era appena sufficiente a coprire il bordo del fosso; lo sciatore usciva dalla pista (sfruttando un varco nella vegetazione che delimitava il tracciato), si avvicinava al bordo, cadeva nel torrente e moriva.
Due giorni prima del decesso dello sciatore, altri due clienti erano caduti in quel medesimo punto e i due imputati (assumendo scelte consapevoli) avevano deciso di posizionare un cartello giallo e nero (con un omino che cade in un burrone) fuoriuscente dalla neve per circa un metro e mezzo.
Nelle stazioni di risalita erano inoltre presenti cartelli che invitavano gli sciatori a non uscire di pista e a non lasciare i percorsi tracciati.
Il Tribunale condannava per omicidio colposo affermando:
a) i due imputati, avuto riguardo alle cariche dagli stessi ricoperte all’interno della società, erano venuti meno a doveri di sorveglianza in termini di sicurezza dell’impianto;
b) il varco utilizzato dallo sciatore era un percorso fuori pista, e cioè una variante annessa alle piste gestite, e notoriamente utilizzato – malgrado i cartelli inibitori – persino dai maestri di sci con i loro scolari;
c) la conoscenza da parte degli imputati di un tale pericolo, connesso alle piste gestite, era assolutamente concreto, e per giunta insidioso per l’utente (non essendo il torrente visibile), ed aveva fatto sorgere a loro carico l’obbligo di impedire l’evento dannoso;
d) la colpa contestata non muoveva da una norma specifica ma dai principi generali: la responsabilità della società non avrebbe potuto certo estendersi a tutta la montagna, ma in presenza di un pericolo conosciuto ed attuale sussisteva l’obbligo di evitare l’evento;
e) sia i cartelli di invito a non uscire dalle piste, sia quello specifico di rischio di caduta (apposto dopo gli infortuni verificatisi due giorni prima), non potevano considerarsi idonei ad inibire e prevenire il rischio: i primi perché troppo generici, l’altro perché era di mero pericolo e posto a valle del varco;
f) la condotta doverosa sarebbe stata quella di chiudere il passaggio ovvero segnalare la pista come chiusa con un cartello, vigilando sull’osservanza del divieto;
g) non appariva ravvisarle un’interruzione del nesso causale per la condotta imprudente dello sciatore, posto che, proprio per l’abitudine con cui veniva utilizzato dall’utenza quel varco, si era verificata una situazione di affidamento dell’utente poi deceduto nei confronti dei gestori dell’impianto.
Ecco i principi della pista di fatto: l’affidamento del cliente nell’uso ripetuto di un fuori pista, inteso quale variante annessa alle piste gestite, conosciuta e tollerata dai gestori come abitualmente frequentata! La Corte di Appello confermava la sentenza del Tribunale affermando:
1) il passaggio fra una pista e l’altra era, malgrado i generici inviti della società agli utenti di non lasciare la pista, di fatto permesso in altri tratti persino con un’apposita regolamentazione;
2) l’utilizzo di quello specifico collegamento fuori pista, percorso dallo sciatore poi morto, era conosciuto dai gestori dell’impianto, sia per la caduta degli sciatori avvenuta due giorni prima, sia per l’abitudine dei maestri di dare in quella zona lezioni di sci;
3) quel passaggio era altamente pericoloso perché intersecante con un torrente che, coperto in caso di innevamento copioso, era invece scoperto in caso di innevamento scarso;
4) la specifica pericolosità del passaggio, dovuta al torrente, era occulta allo sciatore, in quanto non sempre presente per innevamento ed in quanto non percepibile visivamente nel momento della decisione di abbandonare la pista;
5) consci di tale alto pericolo, entrambi gli imputati si erano attivati con la collocazione di un segnale di pericolo di caduta in un dirupo: detto segnale, regolamentare per disegno e dimensioni, era stato collocato a due metri dall’uscita dalla pista, alla sua sinistra, e a dieci metri prima del torrente, ed era visibile per chi si accingesse a lasciare la pista utilizzando quel varco ma non quelli precedenti;
6) i gestori dovevano essere ben consapevoli di farsi carico della complessiva pericolosità dell’attività svolta, anche al di fuori delle piste battute ma riconnessa al loro utilizzo: in quanto gestore dell’impianto sportivo, la società era titolare di una speciale posizione di garanzia a tutela dell’incolumità degli utenti dell’impianto;
7) non era ravvisabile alcuna colpa per la mancata adeguata segnalazione della delimitazione della pista, sia perché la pista era ben segnalata, sia per la mancanza di nesso di causalità posto che lo sciatore era uscito dalla pista consapevolmente; rilevava piuttosto il profilo di colpa di non aver segnalato adeguatamente ai margini della pista lo specifico rischio nascente dall’esistenza del torrente occulto, gravando sugli imputati l’obbligo giuridico derivante dall’attività dagli stessi svolta in quanto generatrice di pericolo: ciò in base alla generale norma in tema di responsabilità dettata dall’art. 2050 c.c., relativa ad attività pericolose, che impone al gestore l’onere di adottare tutte le misure idonee ad evitare il danno e trova fondamento nel principio costituzionale di solidarietà sociale: dovendo intendersi per pericolo anche “quello che involge l’altrui imprudente condotta” (ed è su questo punto che la Suprema Corte preciserà che non si tratta di responsabilità extracontrattuale ma derivante da contratto);
8) la sola collocazione del segnale di pericolo di caduta non poteva ritenersi misura idonea a ritenere assolto l’obbligo di garanzia degli imputati; il gestore avrebbe dovuto farsi carico del comportamento dello sciatore medio che, specie nel caso di utenza giovane, è connotato da un certo tasso di imprudenza, “qui tragicamente rappresentato dalla decisione con cui lo sciatore poi morto uscì di pista, e che lo portò a non fermarsi e dunque a non vedere il segnale di pericolo”;
9) solo una evidente e fitta palinatura (meglio ancora una transennatura con apposite strisce zebrate) avrebbe assolto in maniera adeguata all’obbligo di segnalazione del pericolo; detta misura sarebbe stata agevolmente approntabile dal gestore, e la sua omissione si era posta in nesso causale certo con l’evento: lo sciatore, attraverso i generici e contraddittori inviti a non lasciare la pista e ad utilizzare solo alcune connessioni fra le due piste, poteva dirsi sufficientemente avvisato dei generici pericoli riconnessi al fuori pista (presenza di ostacoli, asperità della neve, possibili smottamenti) ma non della presenza di un torrente, occulto alla sua vista, e con uno strapiombo di quattro metri;
10) se avesse ritrovato a sbarrargli il passo del varco un ostacolo fisso, lo sciatore poi morto avrebbe dovuto necessariamente arrestarsi, così vedendo il segnale esplicito di pericolo affisso, misura da sola inidonea ad arrestare la sua condotta.
La Corte di Cassazione, pur ricordando che l’obbligo di impedire l’evento derivava da contratto e non da altre norme del c.c., ha confermato la sentenza di condanna (anni uno di reclusione per ciascun imputato oltre al risarcimento dei danni alle parti civili).
Dunque il gestore:
– risponde dei pericoli atipici presenti all’interno delle piste quando sono avulsi dal connotato naturale di pericolosità tipico della discesa (ad es. un palo posto dentro il tracciato, non segnalato e non protetto);
– risponde anche di quelli atipici che influiscono sul tracciato delle piste (ad es. la caduta di un masso ma anche la condotta di un altro sciatore che sfrutta il bordo pista come trampolino, come visto);
– risponde poi per tutti i pericoli anche esterni alla pista ai quali lo sciatore può prevedibilmente andare incontro;
– risponde infine per i rischi connessi alle piste di fatto e cioè alle piste che sono abitualmente utilizzate dagli sciatori, anche se non espressamente indicate come piste sciabili, alle condizioni sopra indicate.
È allora lecito chiedersi se il gestore risponde davvero di ogni evento, anche qualora il rischio sotteso sia stato deliberatamente scelto dal cliente degli impianti.
La risposta è – almeno questa – negativa.
Allorché lo sciatore dotato di esperienza e di conoscenza dello stato dei luoghi, benché avvertito del pericolo al quale va incontro, sceglie di correre il rischio, l’evento lesivo non potrà mai essere posto a carico del gestore delle piste.
Il caso è stato trattato dal Tribunale di Genova con la già citata sentenza del 14.1.2015.
Un maestro di sci, frequentatore abituale di una zona sciabile, aveva deciso di effettuare un percorso fuori pista proprio in un giorno di bufera di neve. I dipendenti addetti agli impianti lo avevano avvertito del rischio ma il maestro aveva scelto comunque di sciare e di affrontare un particolare percorso fuori dalle piste.
In quel caso si era in presenza di una pista di fatto, dotata addirittura di un nome conferitogli dagli sciatori. Ciò nonostante le situazioni meteo nivologiche presentavano evidenti segnali di pericolo per l’effettuazione di una uscita fuori pista, soprattutto per un soggetto dotato di alta esperienza come il maestro di sci.
Nel contempo, la situazione non presentava pericoli per le piste normalmente praticate, dato che tutti gli indici di pericolosità (e cioè: le previsioni Meteomont, dato che la Liguria non prende parte al sistema Aineva; la situazione riscontrata in loco) non indicavano un pericolo attuale per le piste gestite.
“Non poteva pertanto esigersi dal Sindaco un provvedimento di chiusura degli impianti e delle piste non interessate da alcun rischio. Neppure vi erano gli estremi per esigere un divieto indiscriminato di accesso al comprensorio atteso che vi erano tratti non interessati al pericolo di valanghe e comunque non era in atto una situazione di forte pericolo di distacchi spontanei che potesse mettere a repentaglio l’incolumità pubblica”.
È stata dunque una scelta deliberata dello sciatore di impegnare un tratto ad alta pericolosità valanghiva; l’evento successivo non può dunque essere posto a carico del gestore: “Nel caso di specie la vittima, esperto ed appassionato di montagna ed ottimo conoscitore del comprensorio sciistico in quanto maestro di sci della scuola locale, ha affrontato con gli amici la discesa valutando la situazione contingente di pericolo, confidando nelle proprie capacità di analisi della situazione nevosa e del rischio valanghivo in un contesto che, come è stato successivamente valutato dal Meteomont, non aveva un grado di pericolo forte o molto forte, tale da precludere le discese secondo la scala di pericolo ben nota allo sciatore data la sua competenza ed esperienza, ma un grado di pericolo moderato che richiedeva buona capacità di valutazione”.
3.6 La volontaria esposizione al pericolo: l’autodeterminazione
Nell’esaminare i precedenti aspetti della responsabilità del gestore e degli amministratori pubblici abbiamo avuto modo di confrontarci, sebbene sottotraccia, con una domanda che riveste in realtà una importanza cruciale: è possibile conferire rilievo alla condotta imprudente della persona offesa? In ambito civilistico, l’articolo 1227 c.c. espressamente prevede che il concorso del danneggiato nella causazione o nell’aggravamento del danno comporta una riduzione del risarcimento. Non solo: il comportamento negligente del danneggiato può condurre all’esclusione del risarcimento per tutti i danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza.
Il comportamento imprudente del danneggiato potrà giungere ad escludere in toto il risarcimento allorché venga data dimostrazione che il pericolo era prevedibile, che l’uso di normali cautele avrebbe evitato la causazione del danno e che dunque il nesso di causalità (tra la condotta del danneggiante e l’evento dannoso) si è interrotto.
Anche nel diritto penale è percorribile tale percorso che si presenta però in modo assai più tortuoso.
L’articolo 41 cp (rubricato: “concorso di cause”) accoglie infatti la c.d. teoria condizionalistica: il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l’azione (od omissione) e l’evento.
In concreto: il soggetto che non ha tenuto la condotta alla quale era obbligato, non è liberato dalla propria responsabilità penale anche se il danneggiato ha a sua volta tenuto una condotta poco accorta.
Si è visto che è anche in ragione di tale norma che il gestore degli impianti risponde per gli incidenti occorsi fuori pista, ad esempio nel caso in cui non abbia fornito una informazione completa al freerider che decide di usare gli impianti per poi scendere in “territorio libero”.
La teoria condizionalistica ha tuttavia un limite, indicato positivamente al comma 2 dell’art. 41 cp: “le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento”; la limitazione è necessitata dall’esigenza di evitare la proliferazione indiscriminata dell’imputazione del fatto per effetto dell’eccessiva ampiezza del nesso di condizionamento determinato dal principio di equivalenza causale (causa cause est causae causati).
È proprio in tale ambito concettuale che la più recente (e condivisibile) giurisprudenza ha fatto rientrare la c.d. “volontaria esposizione al pericolo” da parte della vittima.
Infatti la Suprema Corte, elaborando i principi dell’equivalenza causale, della causalità umana e della presenza di limitazioni alla teoria della condicio sine qua non (175) ha avuto modo di precisare che la condotta della vittima, allorché sia del tutto eccezionale ed imprevedibile oltre che altamente imprudente, rende ininfluenti le condotte anche colpose degli imputati, inserendosi in una serie causale come fattore determinante l’evento.
(175) Cfr Cass. Pen. IV sez. 4.9.2014 n. 36920 pres. Sirena Est. Iannello in www.neldiritto.it, www.giurisprudenzapenale.com e www.altalex.com: “la norma (art. 41,2 cp) intende svolgere una funzione limitativa rispetto al principio di equivalenza causale espresso nel comma precedente, alludendo a concause qualificate, capaci di assumere su di sé, da un punto di vista normativo, la spiegazione dell’imputazione causale, e per ciò stesso ovviamente non esclude ma anzi presuppone l’esistenza di un collegamento condizionalistico con la condotta dell’agente (ossia per converso la non completa autonomia e indipendenza del percorso causale sopravvenuto, in presenza del quale l’esclusione del nesso causale, come detto, dovrebbe affermarsi già in ragione degli artt. 40,1 e 41,1 cp e rimarrebbe invece privo di significato il secondo comma di tale ultimo articolo”).
Dunque la volontaria esposizione al pericolo interrompe il nesso causale allorché la vittima sia stata:
– pienamente capace di intendere e volere (176);
– a conoscenza dei luoghi (177);
– consapevole del pericolo (178).
In presenza di tali condizioni, il nesso di causalità è escluso anche se fossero riscontrabili carenze nelle misure di prevenzione adottate dall’imputato.
In sostanza l’interruzione del nesso di causalità tra condotta (dell’imputato) ed evento (lesivo della persona offesa) si verifica in presenza di una causa sopravvenuta non solo del tutto autonoma ma anche non completamente avulsa dall’antecedente e tuttavia sufficiente a determinare l’evento (179); questo perché la causa sopravvenuta innesca un rischio nuovo e incommensurabile, del tutto incongruo rispetto a quello originario, attivato dalla prima condotta (180).
È con la già citata sentenza sez. IV n. 36920 del 2.7.2014 che si è giunti ad escludere la responsabilità del gestore di un impianto sciistico: la dinamica dell’incidente (181) escludeva l’evento come conseguenza della pericolosità in sé della cosa, ascrivendolo invece alla condotta consapevolmente e volontariamente rischiosa della vittima.
In tale pronuncia viene sancito il principio di “libera autodeterminazione della vittima” che “impone di considerare l’evento come effetto della scelta da parte di un soggetto, che esclude la riferibilità anche ad altro agente” in quanto “la decisione di autoesporsi al pericolo…oltrepassa la condotta del primo agente esonerandolo in linea di principio dall’accollo dell’evento”.
La Suprema Corte chiarisce anche che “non si possono imputare ad un individuo le conseguenze di un gesto assunto da un terzo in piena coscienza e volontà e sul quale non si può influire…quando si postula una governabilità della scelta della vittima si fa riferimento alla libera determinazione della stessa nelle condizioni date”.
(176) Cfr Cass. Sez IV n. 14198/1990.
(177) Cfr Cass sez IV 11311/1985.
(178) Cfr. Cass. Sez. 1 n. 11024/1998; sez. IV n. 1214/2005; sez. IV n. 20272/2006; sez IV n. 39617/2007; sez. IV n. 42502/2009.
(179) Cass. Sez. IV 19.2.2013 n. 10626 Morgando, RV 256391.
(180) Cass. Sez. IV 3312 del 2.12.2016 Zarcone, Rv. 269001; sez. IV n. 53541 del 26.10.2017 Zantonello RV 271846.
(181) Il conducente di una motoslitta, ben consapevole dello stato dei luoghi per averlo già in precedenza frequentato anche per ragioni professionali, impegnava a forte velocità un pianoro nel quale esistevano profonde buche (chiamate “inghiottitoi”); il suo scopo era saltarle per dimostrare la propria abilità anche alla donna che aveva condotto quale passeggera; il volo, però, finiva tragicamente, con la morte del conducente. Era rinviato a giudizio il proprietario del terreno, benché non prossimo alle piste da sci dalle quali era partita la motoslitta. Il primo ed il secondo grado di giudizio si concludevano con la condanna dell’imputato, “titolare di un obbligo di garanzia rispetto a chiunque accedesse all’area predetta” reo di aver colposamente omesso “a fronte di una situazione di pericolo facilmente percepibile e rappresentatagli anche dall’autorità comunale, di attivarsi adeguatamente predisponendo idonea recinzione ai margini delle depressioni o idonea segnalazione delle stesse”. La Corte di Cassazione annullava senza rinvio la sentenza con le motivazioni di cui si darà conto.
Anche in Cass. IV sez. penale n. 5898 del 17.1.2019, riguardante un caso analogo (182), si è giunti alle medesime conclusioni richiamando i predetti principi: “la persona offesa era ben consapevole del pericolo derivante dalla propria azione e la sua condotta si è rivelata del tutto anomala, eccezionale, atipica, imprevedibile e quindi assorbente e tale da interrompere il nesso di causalità rispetto alle eventuali carenze riscontrabili nelle misure di prevenzione adottate dagli imputati… la pericolosità del luogo può apprezzarsi, come fattore causale giuridicamente rilevante, solo nei confronti di chi non ne abbia conoscenza o di chi, pur avendola ben presente, si trovi nelle condizioni obbligate di doverla affrontare (es. percorso naturale che esponga al pericolo di cadute); ma non anche nei confronti di chi vi si avventuri liberamente e volontariamente proprio allo scopo di affrontarla e misurarsi con essa”.
La Corte così afferma che il ruolo causale determinante la morte non è stata tanto la conformazione del luogo quanto la deliberata scelta della vittima di accettare il rischio insito nella conformazione del terreno da lui ben conosciuta e addirittura di misurarsi con la stessa. Il “senso comune” impedisce di considerare l’evento come conseguenza della pericolosità in sé della cosa e induce piuttosto ad ascriverlo alla condotta consapevolmente e volontariamente votata al rischio della vittima.
Viene dunque accolta la c.d. teoria del rischio.
Non può essere chiamato a rispondere dell’evento dannoso neppure il soggetto garante allorché si sia in presenza:
– di una libera scelta della vittima;
– di consapevolezza del rischio liberamente affrontato;
– di una vittima pienamente capace di intendere e volere;
– di un’assenza di influenza e di governo da parte del primo agente.
L’impermeabilità della libera sfera di azione della vittima determina una cesura, una separazione dei rischi, una distinzione delle sfere di responsabilità che esclude l’imputazione oggettiva al primo agente.
L’imputazione non sarebbe invece esclusa ove la determinazione di affrontare il rischio non possa ritenersi frutto di una deliberazione completamente libera e consapevole o quando chi esponga a pericolo altri non lo informi adeguatamente su circostanze particolari di rischio.
“La chiave di lettura è l’autodeterminazione della vittima, che agisce sulla base di una scelta compiuta con la piena consapevolezza dei rischi relativi”.
Tali sentenze, in modo condivisibile e condiviso, conferiscono rilievo dirimente alla decisione di auto-esporsi al pericolo: la pericolosità del luogo, non solo nota ma addirittura voluta come presupposto dell’azione sportiva (ed anche esibizionistica), non può assumere valore causale divenendo unicamente occasione del fatto o “fattore condizionante presupposto”.
Chi vuole, liberamente e consapevolmente, sfidare sé stesso in un ambiente pericoloso, facendo improvvido affidamento sulle proprie capacità, affrontando le insidie a lui note, non può poi dolersi delle caratteristiche del luogo.
La pericolosità diviene invece fattore causale rilevante solo nei confronti di chi non ne abbia conoscenza o di chi è costretto ad affrontarla pur non volendo.
Sarà allora essenziale dimostrare di aver fornito informazioni complete e chiare poiché solo in presenza di piena consapevolezza si potrà parlare di libera scelta da parte della vittima.
(182) Si trattava di lesioni personali provocate ad un guidatore di moto da cross che, durante un corso di guida all’interno di un circuito, dopo aver assistito al briefing iniziale, al primo giro si immetteva all’interno di un’area non fettucciata, adibita a zona di sosta; invece che fermarsi, però, proseguiva nella marcia impegnando la parte della pista per il c.d. free style, cadendo poi da un terrapieno a scontrando una struttura metallica posta a sotegno di una rampa collocata dalla parte opposta. Erano rinviati a giudizio l’organizzatore del corso teorico pratico di enduro, il proprietario dell’impianto sportivo, l’istruttore tecnico; tutti condannati sia in primo che in secondo grado con sentenza annullata con rinvio.
Infatti la responsabilità del garante sussiste allorché la scelta di affrontare il rischio non sia frutto di deliberazione completamente libera o consapevole.
Può inoltre sussistere la responsabilità anche di chi espone a pericolo altri senza informarlo adeguatamente su particolari circostanze di rischio: è questo il caso del c.d. accompagnatore di fatto.
4. Una piccola digressione: l’accompagnatore di fatto
Prima di passare ad esaminare il vero punto innovativo e problematico posto dal quesito iniziale, è necessario introdurre un ultimo profilo.
È ipotizzabile una responsabilità per morte o lesione a carico di chi volontariamente si assume un compito, ad esempio di accompagnare amici e conoscenti? Se fosse presente un qualunque tipo di contratto (ad esempio quello che lega la Guida Alpina o il Maestro di sci) non vi sarebbe alcun dubbio: le lesioni che il cliente si procura nel corso dell’escursione, se addebitabili a colpa del professionista, ricadono su chi non ha vigilato, violando così l’obbligo assunto contrattualmente.
Ai profili già visti della prevedibilità, evitabilità, causalità e colpa si aggiunge infatti l’esistenza della posizione di garanzia.
Il problema si complica, e non poco, in relazione ad alcune figure (non importa se professionali o meno) che non hanno alcun contratto vero e proprio con le persone che con loro si accompagnano o che in loro ripongono speranza e fiducia.
Si pensi al caso dell’autostoppista che entra nell’autovettura del conducente altruista; o dell’escursionista che si convince ad affrontare una salita confidando nella presenza dell’amico più esperto; o del medico che, pur non avendo alcun obbligo di intervenire per la contemporanea presenza di altri professionisti, cerca di rianimare un soggetto privo di sensi; o ancora del conoscitore delle piste che accetta, alla fine della cena e dunque in orario notturno, di far rientrare a fondo pista alcuni commensali di uno chalet usando slittini.
Ebbene: in tutti i casi sopra detti non vi è alcun vero e proprio contratto che lega i vari soggetti; semplicemente si assiste ad una “presa in carico” del bene altrui da parte di soggetti dotati di maggiore esperienza o di mezzi tecnici.
Sembrerebbe arduo individuare la figura del “garante” in queste ipotesi, parallelamente alla difficoltà di cogliere una “posizione di garanzia”.
Ed invece, dopo alcune difficoltà (183), la ormai consolidata giurisprudenza ritiene che in tema di reati omissivi colposi, la posizione di garanzia può essere generata non solo da investitura formale, ma anche dall’esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garante purché l’agente assuma la gestione dello specifico rischio mediante un comportamento concludente, consistente nella presa in carico del bene protetto (184).
(183) Cfr il commento di Carmela Piemontese alla Cass. 22.5.2007 n. 25527 “fonti dell’obbligo giuridico di garanzia: un caso enigmatico, tra contratto e fatto” in Dir. Pen. e Processo, 2008, 6, 748 (nota a sentenza).
(184) Cfr da ultimo Cass. Sez. 4, Sentenza n. 37224 del 05/06/2019 Ud. (dep. 06/09/2019) Rv. 277629 – 01 in Italgiureweb Cassazione penale.
La giurisprudenza di legittimità si è specificamente soffermata sulla nozione – e sui criteri di selezione – del soggetto che versa in posizione di garanzia osservando che essa sussiste a condizione che:
a) un bene giuridico necessiti di protezione, poiché il titolare da solo non è in grado di proteggerlo;
b) una fonte giuridica – anche negoziale (185) – abbia la predetta finalità di tutela;
c) tale obbligo di protezione gravi su una o più persone specificamente individuate;
d) queste ultime siano dotate di poteri atti ad impedire la lesione del bene garantito ovvero siano ad esse riservati mezzi idonei a sollecitare gli interventi necessari ad evitare che l’evento dannoso sia cagionato.
Un soggetto può dirsi titolare di una posizione di garanzia se ha la possibilità, con la propria condotta, di influenzare il decorso degli eventi, indirizzandoli verso uno sviluppo idoneo ad impedire la lesione del bene giuridico garantito (186).
La “teoria del garante” è stata elaborata anche valorizzando il principio solidaristico di matrice costituzionale (ex art. 2 Cost.) che deve riconoscersi agli “obblighi di garanzia”, discendenti dallo speciale vincolo di tutela che lega il soggetto garante, rispetto ad un determinato bene giuridico, per il caso in cui il titolare dello stesso bene sia incapace di proteggerlo autonomamente (187).
Pertanto, guardando la questione dal punto di vista dei reali destinatari degli obblighi di protezione, è necessario valutare quali siano in concreto le funzioni esercitate dal soggetto agente. Nel caso in cui il titolare del bene giuridico protetto versi in situazione di passività, sarà poi necessario selezionare le distinte posizioni di garanzia, riempendole di contenuto in relazione agli obblighi impeditivi specifici (188).
La predetta selezione può essere particolarmente complessa nel caso dell’intervento di più soggetti con aree di competenza autonome (specialmente nell’ambito della figura della cooperazione colposa).
Ai fini dell’operatività della clausola di equivalenza di cui all’art. 40, cpv. cod. pen., nell’accertamento degli obblighi impeditivi gravanti sul soggetto che versa in posizione di garanzia, l’interprete deve tenere presente la fonte da cui scaturisce l’obbligo giuridico protettivo, che può essere la legge, il contratto, la precedente attività svolta, o altra fonte obbligante; in tale ambito ricostruttivo, al fine di individuare lo specifico contenuto dell’obbligo, si è in particolare chiarito che occorre valutare sia le finalità protettive fondanti la stessa posizione di garanzia, sia la natura dei beni dei quali è titolare il soggetto garantito, che costituiscono l’obiettivo della tutela rafforzata, alla cui effettività mira la clausola di equivalenza (189).
(185) Il profilo è assai complesso e si interseca con la teoria della c.d. negotiorum gestio oltre che con la responsabilità nascente dal contatto sociale. Non è certo possibile dilungarsi sul punto in questa sede.
(186) Cfr Cass. Sez. 4, n. 38991 del 10/06/2010, Quaglierini, Rv. 248849.
(187) Cfr Cass. Sez. 4, n. 4793 del 06/12/1990, dep. 29/04/1991, Bonetti, Rv. 191792.
(188) Cfr Cass. Sez. U, n. 9874 del 01/07/1992, Giuliani, Rv. 191185.
(189) Cfr. Cass. Sez. 4, n. 9855 del 27/01/2015, Chiappa, Rv. 26244001.
L’obbligo di protezione, inoltre, deve essere delimitato in relazione alle specifiche situazione pericolose che il garante ha l’obbligo di governare (la cosiddetta area di rischio) (190).
Il dato ormai certo è che i garanti non costituiscono un numerus clausus e che, in presenza della richiamata clausola di equivalenza e delle molteplici fattispecie ad evento naturalistico causalmente orientate, si assiste ad un costante ampliamento dell’area di responsabilità penale.
È proprio per tali motivi che dai primi anni duemila (191) è stato affermato che la posizione di garanzia può essere generata non solo da investitura formale, ma anche dall’esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garante mediante un comportamento concludente dell’agente, consistente nella presa in carico del bene protetto.
Si è dunque superata una concezione puramente formale della posizione di garanzia; il ruolo protettivo può avere una fonte normativa non necessariamente di diritto pubblico ma anche di natura privatistica, anche non scritta e addirittura trarre origine da una situazione di fatto, cioè da un atto di volontaria determinazione, che costituisca il dovere di intervento e il corrispondente potere giuridico, che consente al soggetto garante, attivandosi, di impedire l’evento (192).
Applicando tali principi è stato affermato che due medici, ponendo in essere “una istintiva, pratica attuazione dei doveri deontologici consacrati nel giuramento professionale, comprendenti il dovere di prestare soccorso nei casi di urgenza”, assumono una posizione di garanzia nei confronti di un calciatore che si accascia al suolo durante una partita di calcio. Con il loro intervento volontario hanno infatti instaurato una relazione terapeutica (193).
Parimenti è stato condannato per omicidio colposo un soggetto che si era volontariamente assunto l’incarico di controllare il rientro notturno in slittino di alcuni clienti di un rifugio di montagna, seguendoli con una motoslitta; dopo una cena in rifugio tale soggetto, che ben conosceva i luoghi (ivi svolgendo attività professionale), aveva omesso di seguire uno di essi che aveva imboccato, a causa della neve ghiacciata e della ripidità della pista, un percorso errato, andandosi così a schiantare contro un albero.
La sua responsabilità è stata affermata non solo per l’assunzione di un obbligo di tutela (affermato in grado di Appello sulla base di un accordo con il gestore del rifugio), ma anche – appunto – per la concreta presa in carico del bene protetto (194).
(190) Cfr. Cass. Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 26110701.
(191) Cfr Cass. Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, cit.; Sez. 4, n. 2536 del 23/10/2015, dep. 2016, Bearzi, Rv. 26579701.
(192) Nel settore dell’attività medica, si è poi precisato che la posizione di garanzia è riferibile, sotto il profilo funzionale, ad entrambe le categorie in cui tradizionalmente si inquadrano gli obblighi in questione: la posizione di garanzia c.d. di protezione, che impone di preservare il bene protetto da tutti i rischi che possano lederne l’integrità; e la posizione c.d. di controllo, che impone di neutralizzare le eventuali fonti di pericolo che possano minacciare il bene protetto (Sez. 4, n. 7967 del 29/01/2013, Fichera, Rv. 25443101, in motivazione; Sez. 4, n. 25310 del 07/04/2004, Ardovino, Rv. 228954).
(193) Cfr Cass. Sez. 4, Sentenza n. 24372 del 09/04/2019 Ud. (dep. 31/05/2019 ) Rv. 276292 – 01 in Italgiureweb.
(194) Cfr. Cass. Sez. 4, Sentenza n. 25527 del 22/05/2007 Ud. (dep. 04/07/2007 ) Rv. 236852 – 01.
Viene allora da chiedersi se sono presenti limiti a tale estensione del penalmente illecito.
La risposta è certamente positiva.
Per potersi affermare la responsabilità penale di un “garante di fatto” è necessario:
– accertare che senza il suo intervento o senza la sua opera il “garantito in fatto” non avrebbe intrapreso ugualmente l’attività che lo ha poi condotto nella situazione di pericolo;
– escludere che vi sia stata una piena, consapevole accettazione del rischio con auto-esposizione al pericolo;
– individuare una effettiva presa in carico del bene da proteggere (195), con correlativi poteri di impedire l’evento.
Per meglio comprendere tali concetti può aiutare una recente sentenza della Suprema Corte (196) che ha assolto un soggetto che, assieme ad altri, aveva costruito un artigianale deltaplano (usando un’ala di sua proprietà) sul quale ha poi trovato la morte un amico che vi era salito. Quest’ultimo, meno esperto dell’imputato, era però “ampiamente maggiorenne e capace di agire” e “si auto-espose volontariamente ad un significativo pericolo. Pericolo che, a ben vedere, era immanente in tutta l’attività che ruotava attorno al campo” di volo “se solo si porti l’attenzione alle seguenti, assolutamente pacifiche, circostanze: la macchina volante era stata artigianalmente costruita mediante pezzi comprati qua e là e poi assemblati; a nessun tipo di verifica o collaudo da parte di organo pubblico era stato mai sottoposto il velivolo, che in conseguenza era privo di qualsiasi omologa, certificazione, attestazione; nessuno dei piloti aveva un qualche brevetto per il volo a motore o nemmeno per il volo senza motore”.
Tutto il gruppo, compresi l’imputato e il soggetto poi deceduto, si erano dunque volontariamente auto-esposti al pericolo; il secondo, inoltre, si era posto alla guida del velivolo in modo pienamente consapevole, sapendo bene di non poter fare affidamento sull’aiuto dell’altro e più esperto soggetto “rilievo questo di centrale importanza perché rende palese che la volontaria auto-esposizione al, non lieve, rischio il giorno del volo avvenne scientemente da parte di entrambi e, soprattutto, in posizione sostanzialmente paritetica: infatti, l’oggettiva assenza di doppi comandi e la impossibilità, come si è detto, se non a costo di contorsioni estremamente ardue, da effettuarsi per di più in quota, da parte dell’imputato di agire sui comandi che erano affidati in via esclusiva” al soggetto poi deceduto “esclude radicalmente la possibilità di individuare in capo all’odierno imputato una effettiva posizione di garanzia, cioè di gestione del rischio, in accezione penalmente significativa, rispetto all’altro occupante, che indiscutibilmente rivestiva nella sciagurata occasione la posizione di conducente il velivolo.
(195) Cfr Cass. Sez. 4, Sentenza n. 48793 del 11/10/2016 Ud. (dep. 17/11/2016 ) Rv. 268216 – 01 in Italgiureweb nella quale si afferma che la posizione di garanzia – generata da investitura formale o dall’esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garante – opera purché l’agente assuma in concreto la gestione dei rischi connessi all’attività assunta, non estendendosi oltre la sua sfera di governo degli stessi. La Corte ha dunque escluso la responsabilità degli imputati per omicidio colposo in relazione al decesso di un giovane per annegamento in una piscina che, sebbene ubicata in adiacenza alla struttura ricreativa dagli stessi gestita, era separata ed autonoma nonché gestita da altri soggetti, e dunque non rientrante nella loro sfera di controllo.
(196) Sez. 4, Sentenza n. 34975 del 29/01/2016 Ud. (dep. 18/08/2016 ) Rv. 267539 – 01 in Italgiureweb.
Una cosa, infatti, è sentirsi rassicurati dalla vicinanza di un amico, magari più esperto in una determinata attività; altra e distinta cosa è, invece, essere giuridicamente garantiti, nell’accezione di cui si è detto, dal ruolo altrui.
Ragionare diversamente nella concreta fattispecie in esame equivarrebbe, in sostanza, ad aderire ad una teoria condizionalistica pura”.
Possiamo allora trarre alcune conseguenze da tali insegnamenti, onde evitare che si giunga all’inammissibile conclusione di identificare l’obbligo di garanzia con il dovere di diligenza.
La fonte della posizione di garanzia può essere l’assunzione in via di fatto della tutela del bene giuridico, ma unicamente se sussiste una presa in carico effettiva del bene.
Non è dunque sufficiente una mera, preventiva, rassicurazione.
La presa in carico effettiva è a sua volta dipendente dalla tipologia di accordo esistente tra il garante ed il garantito e dalla tipologia di pericolo che si manifesta.
Riportando i predetti principi al caso della responsabilità in montagna è ipotizzabile la responsabilità dell’accompagnatore di fatto allorché egli:
– prenda in carico effettivamente escursionisti in una situazione di pericolo, in previsione di esso o dopo la sua verificazione;
– fornisca non mere rassicurazioni ma vere e proprie informazioni sulla tipologia di percorso da affrontare e sulla propria capacità a superare (e far superare) i rischi in esso insiti, ingenerando così un affidamento che concretamente spinge l’escursionista non esperto (o meno esperto) a scegliere elettivamente il rischio.
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Cerco sul web”protezioni per palestre”persino una palestra per pallavolo o scolastica dovrebbe avere piloni e ringhiere imbottite con materiali speciali. Almeno fabbricanti di reti e materassoni si pigliano ‘na cosa di soldi pure loro.Per quanto riguarda discese in slittino o camera d’aria a ciambellone da baite ristorante..meglio non fornire a cura del gestore i materiali.Poi il passaparola e attrerzzatura fai da te tra amici di combriccola e’ loro responsabilita’. vedo a impianti ormai chiusi e smontaggio cabine e sedie di seggiovie, che gli sci alpinisti risalgono doponevicate di meta’aprile lepiste per sci alpino, comode per il fondo battuto dai mezzi ancora consistente ricoperto da 20-30 centimetri di fresca.Pare di capire che il gestore ha zero responsabilita’.