Lucide riflessioni di quasi quattro anni fa, oggi del tutto attuali.
L’identità della Sinistra come patologia politica
di Andrea Zhok
(pubblicato su mimesis-scenari.it il 19 gennaio 2016)
1. Anamnesi
Il tema della perduta, fragile, confusa e smarrita identità della sinistra italiana rappresenta da tempo un luogo comune, del pensiero politico non meno che della satira. L’afasia politica del funzionario del PCI Michele Apicella in Palombella Rossa (1989) è attuale oggi quanto un quarto di secolo fa.
Per ribadire tale condizione patologica, divenuta oramai seconda natura, possiamo ricordare la recente riunione, tenutasi quasi clandestinamente tra i quattro partiti/movimenti che oggi si muovono alla sinistra del PD (Rifondazione Comunista, Sinistra Italiana, i civatiani di Possibile e SEL). Questi gruppi, riunitisi il 14 dicembre 2015 per ‘trovare una sintesi’ in vista delle prossime elezioni amministrative, nella migliore tradizione della sinistra italiana non sono giunti ad alcun accordo. E per apprezzare appieno lo spirito tragicomico di questo fallimento è utile ricordare che questi quattro gruppi non rappresentano neppure la totalità del panorama politico alla sinistra del PD: andrebbero infatti aggiunti diversi gruppi a tutt’oggi non disciolti, anche se dallo statuto ontologico incerto, come i Verdi, l’Italia dei Valori, l’Altra Europa con Tsipras, e gli arancioni (De Magistris).
Tutto ciò ha un aspetto ovviamente comico, ma ha anche un lato tragico ben visibile se si pensa a cosa ciò significhi in termini di domanda politica priva di riferimenti credibili. Sondaggi alla mano il bacino potenziale di un partito unitario di sinistra sarebbe, persino oggi, superiore al 20%; per tacere del fatto che una gran parte dell’elettorato PD e M5S sarebbe molto sensibile a una forza di sinistra credibile e innovativa. A fronte di questa domanda, le classi dirigenti della sinistra italiana rispondono con la tradizionale inconsistenza pulviscolare, che conduce all’ennesimo suicidio politico: il moto browniano sinistrorso, che non smuoveva una foglia neppure con sistemi elettorali proporzionali, con la nuova legge elettorale non comparirà neppure come epifania televisiva dello zerovirgola.
2. Diagnosi
Ora, sin dalla svolta della Bolognina, la sinistra italiana ha manifestato due problemi, apparentemente disgiunti.
1) Da un lato una carenza di personalità di rilievo, – ma in presenza di un’ubertosa selva di personalismi (rivalità, gelosie, ambizioncelle umane troppo umane).
2) Dall’altro lato un senso di drammatica perdita di identità, – ma travestita da ‘radicalismo privo di compromessi’.
È curioso notare, a questo proposito, come faccia parte dei riflessi condizionati del discorso pubblico associare a ‘sinistra’ l’aggettivo ‘radicale’, in un ritornello preformato. Questo definizione è naturalmente del tutto obsoleta: sulla scena politica italiana quasi tutti, dalla Lega al M5S, da Forza Italia a Fratelli d’Italia, ecc. hanno da tempo posizioni di ben maggiore radicalità su quasi ogni questione rispetto alle posizioni della sinistra-sinistra. Ma l’aggettivo ‘radicale’ associato a ‘sinistra’ sopravvive a se stesso, soprattutto perché non viene contestato da chi lo incarna: esso infatti appaga l’immagine di sé del popolo di sinistra e dei suoi rappresentanti (“Siamo minoranza sì, ma a causa del nostro temibile radicalismo…”).
Questi due fenomeni (personalismi senza personalità e radicalismo identitario senza una chiara identità) definiscono il quadro sintomatico della malattia storica della sinistra in Italia.
La domanda che dobbiamo ora porci è la seguente: questi due fenomeni sono disgiunti e solo accidentalmente compresenti o c’è tra di essi un nesso di fondo?
Una breve riflessione ci può far vedere come i due fenomeni siano strettamente connessi. Per cominciare a scorgere questo nesso bisogna innanzitutto riconoscere che la politica ha sempre avuto bisogno di personalità: ciò non è un recente prodotto dell’imperio mediatico dell’immagine, che si limita ad accentuarne alcuni aspetti esteriori (fotogenia, capacità di ‘bucare il video’, ecc.). Personalità politiche forti come centro (pro-tempore) di decisione e iniziativa sono sempre state in varia misura necessarie. La ragione prima è che nella quotidianità politica c’è bisogno di formulare continuamente risposte a problemi parzialmente inediti, e queste risposte richiedono elaborazioni personali dotate di libertà di movimento e di fiducia (in sé e degli altri) per poter improvvisare e inventare.
Ma affinché esistano personalità politiche forti non è sufficiente disporre di personalità umane forti: è ulteriormente necessario che vi sia un intorno di persone disponibili a riconoscere quelle personalità. Un leader esiste solo come complemento di una diffusa disponibilità gregaria, e se per qualche motivo tale disponibilità non si manifesta, non c’è personalità naturale che tenga.
Ma quali sono le condizioni perché tale disponibilità gregaria si dia? Possono esservene molte, ma per una forza di sinistra è essenziale che una certa personalità appaia come buona incarnazione di ideali qualificanti: non ci si subordina ad una semplice personalità forte, ma si accoglie una condizione gregaria quando una certa personalità appare con una valenza generale, come convincente rappresentanza ideale. E con ciò scorgiamo il nesso tra mancanza di personalità e carenza di identità: lo stato di perenne incertezza di identità ideale fa sì che a sinistra difficilmente qualcuno si possa imporre come soddisfacente incarnazione dell’ideale medesimo. L’incapacità di lasciar emergere leader di peso nella sinistra non è un accidente antropologico, ma il sintomo di una patologia ideale.
Ma cosa questa patologia ideale sia è meno ovvio di quanto sembri. Dire che si tratta di una patologia ‘identitaria’, che rende difficile l’identificazione di un’essenza della sinistra, dice ancora molto poco. In effetti, messa in questi termini, qualcuno potrebbe credere che alla sinistra manchino alcune ‘idee supplementari’, alcuni ‘lineamenti distintivi’, che si sarebbero perduti o illanguiditi nel tempo. E la terapia dunque consisterebbe nel recuperare o aggiungere tali tratti, o nel rimarcarli.
Quest’idea è del tutto fuorviante. La tragedia della sinistra contemporanea non è il ‘tradimento dell’eredità della sinistra’, non è la ‘mancanza di memoria’. L’odierna sinistra richiama alla mente piuttosto quel personaggio di Borges, Funes el Memorioso, che ricordava tutto ed era incapace di dimenticare alcunché; la tragica fine di Funes consiste nel suo rimanere oppresso e schiacciato dal peso infinito dei dettagli mnemonici in indefinito accumulo, finendo per ridursi ad uno stato di totale passività e paralisi. Il ‘patrimonio ideale’ della sinistra somiglia insomma alle case degli ‘accumulatori seriali’, quei soggetti psichiatrici che non riescono a buttare via niente: vi si ritrova un coacervo di opinioni accumulatesi in momenti e contesti diversi, attorno a cui si sono aggregati nel tempo gruppuscoli eterogenei, gelosi custodi di certune o cert’altre tesi. Invece di un nocciolo coerente e strutturato di idee, la sinistra presenta un’infinita collazione di opinioni convenzionali, che possono essere tenute assieme dai loro portavoce solo al prezzo di infinita cautela, prudenza ed esercizio di casuistica.
Per capirlo basta gettare uno sguardo alle innumerevoli tesi che appaiono legittimamente ‘di sinistra’. Chi può negare che la sinistra sia ‘tradizionalmente’ dalla parte dei giovani; ma anche ‘tradizionalmente’ per la tutela degli anziani? O che sia ‘tradizionalmente’ per i diritti individuali; ma non meno tradizionalmente per la tutela di un’etica comunitaria? Ed è ‘tradizionalmente’ per i ‘lavoratori’, ma anche per i ‘pensionati’; per l’identità europea ma anche contro l’eurocentrismo; per la cultura occidentale, ma anche per le culture ‘altre’. È per il progresso tecnologico e industriale, ma anche per la preservazione dell’ambiente. È filoaraba, ma anche laica e illuminista. È filopalestinese, ma non antiebraica. È libertaria, ma anche antiliberale. È razionalista, ma anche post-moderna. È ‘rivoluzionaria’ e ‘radicale’, ma anche rispettosa del politicamente corretto. È ‘popolare’, ma non prova alcuna curiosità per ciò che si agita nella pancia del popolo. È con i giudici, ma contro il giustizialismo. È con Kennedy, ma anche con Fidel Castro. È con il papa, ma per lo stato laico; ecc. ecc.
Beninteso, il problema in questo guazzabuglio non è che non ci possano essere, o essere state, di volta in volta buone ragioni per prendere posizioni che possono ricadere sotto ciascuna di quelle voci. Alla sinistra è accaduto ciò che accade a tutte le tradizioni storiche quando si sclerotizzano in riti ripetitivi, sentenze, opinioni ortodosse: è rimasta solo una silloge di prese di posizione, senza più alcuna intuizione del nocciolo motivazionale che in passato le aveva giustificate. In mancanza di questa capacità di andare alle ragioni, le tesi diventano rigide, fragili, convenzionali, spesso meri riflessi condizionati. Barcamenarsi in questo oceano di frammenti convenzionali è difficile e costringe a muoversi nel discorso pubblico ingessati e tentennanti. E in effetti, il tratto più caratteristico dell’espressività pubblica dell’odierno rappresentante di sinistra è la difficoltà a identificarsi con le proprie parole, l’incapacità di manifestare con convinzione rabbia o speranza, sdegno o desiderio. La sinistra finisce per avere tutti i problemi di franchezza e chiarezza che hanno forze di governo di lungo corso (quelle forze che, dovendo mediare tra numerose istanze, hanno difficoltà a conservare una linea univoca), solo che ha questi problemi senza essere forza di governo e mediazione.
3. Terapia
Ora, in un quadro del genere cosa dovrebbe fare un leader di sinistra in pectore, un novello ‘Principe rosso’? Beh, dovrebbe fare il contrario di quello che molti predicano. Non dovrebbe aggiungere nulla al famoso ‘patrimonio ideale della sinistra’, ma dovrebbe piuttosto operare per sottrazione. Dovrebbe liberarsi della stragrande maggioranza delle ‘ovvietà di sinistra’ e concentrarsi nell’afferrare poche idee di fondo e imprescindibili, esercitandosi poi a scoprirne e spiegarne le implicazioni in contesti e situazioni attuali.
Ma giustamente, arrivati a questo punto qualcuno chiederà “quali sarebbero quelle ‘poche idee di fondo e imprescindibili’?” Ora, sarebbe ovviamente del tutto pretenzioso pensar di fornire qui un quadro non dico esaustivo, ma anche solo rappresentativo di tali idee. È ovvio che per fissare un punto così cruciale ci sarebbe bisogno di un serio lavoro argomentativo, non risolvibile in poche battute. Ma interrompere a questo punto la discussione, rinviando ad approfondimenti futuri sarebbe un gesto prudente, ma anche fastidiosamente evasivo. Provo perciò a formulare comunque, a mero titolo di suggestione, le tre idee centrali (o valori), che credo catturino il nocciolo di un’identità politica all’altezza della migliore tradizione socialista e comunista. – Chi si aspetta un’analisi articolata può senz’altro saltare, senza perdere nulla, i prossimi tre paragrafi e andare direttamente alle conclusioni.
3.1) La prima idea qualificante da tenere ferma come nocciolo fondativo di un’identità ‘di sinistra’ è uno specifico tipo di egalitarismo. Non si tratta qui dell’egalitarismo astratto (stigmatizzato già da Marx) secondo cui ‘gli uomini sarebbero tutti uguali’. È del tutto ovvio che gli uomini uguali non sono e che mai lo saranno. Si tratta invece di un egalitarismo normativo, che ha come ideale guida il mettere ciascun individuo egualmente nelle condizioni per esprimere le proprie specificità, e per dare e ottenere riconoscimento dai propri simili. Perciò ad essere rifiutate non sono le diseguaglianze intrinseche tra talenti, virtù o disposizioni naturali, ma le diseguaglianze estrinseche (non inerenti all’individuo) di sangue, denaro e potere; ed in particolare queste ultime diseguaglianze vanno censurate in quanto tramandate o in quanto ottenute accidentalmente (immeritatamente, fortunosamente, ecc.). Tali diseguaglianze sono rigettate non per gelosia o invidia, ma in quanto ostacolano la libera espressione della persona e il libero riconoscimento interpersonale. Un’analisi dettagliata potrebbe mostrare come da un tale ideale normativo siano deducibili molte prese di posizione particolari su diritti di cittadinanza, welfare, tassazione redistributiva, ecc.
3.2) La seconda idea qualificante è quella per cui il senso della propria esistenza di attori politici si gioca in un orizzonte comunitario e storico. Questo significa che il senso della propria esistenza viene giocato nella cornice di una collettività e della sua esistenza nel tempo. Ciò ha uno specifico connotato ‘laico’: forme di ‘salvezza’ individualistica e/o extra storica sono escluse dalle considerazioni utili alla conduzione dell’azione politica (possono naturalmente conservarsi in una sfera di credenza privata, ma non rappresentano la base per alcuna decisione pubblica). Scommettere su una dimensione comunitaria e storica significa leggere la propria esistenza nella cornice delle possibilità di un lascito storico, di valori che travalicano l’esistenza individuale in quanto sono storicamente ereditabili dalla (o dalle) comunità di appartenenza. Questo punto, per inciso, chiama in causa la questione cruciale delle identità sociali di appartenenza (cosa conta, o vorremmo contasse, come la ‘nostra comunità’). Qui un’analisi di dettaglio potrebbe mostrare come dall’applicazione razionale al presente di un tale ideale normativo si possono dedurre prese di posizione su temi come l’educazione pubblica, la tutela ambientale, l’accesso all’informazione, ecc.
3.3) La terza idea fondamentale è la subordinazione di principio dell’agire economico a fini sociali. Questa è una conquista teorica duratura e caratterizzante della tradizione socialista e comunista: la sfera dell’economico non rappresenta un valore in se stesso, e non è capace di autoregolamentarsi. Ergo, la sfera decisionale pubblica deve essere sempre, in linea di principio, in grado di dire l’ultima parola sui processi economici. Ciò non significa che la sfera della decisione pubblica debba dirigere passo passo l’economia, ma significa che non ci deve essere alcuno spazio per l’anarchia dei rapporti di forza economica (di potere contrattuale), né per le pulsioni all’accumulo illimitato, né per l’acquisizione di posizioni dominanti dell’economico sul politico, ecc. In questa cornice si inquadrano tesi sulla progressività della tassazione, sui limiti all’accumulo patrimoniale indefinito, sulla regolamentazione dei mercati del lavoro, delle merci e dei capitali, ecc.
4. Conclusioni
Come detto, i tratti di fondo di cui sopra sono solo uno spunto ed un suggerimento, tutto da discutere, ma il punto terapeutico essenziale non sta tanto nel condividere queste istanze, quanto nell’operazione di pulizia mentale e semplificazione cui si deve giungere. L’esercizio fondamentale che bisogna imparare a fare di nuovo è spiegare come da certi principi condivisi si possano argomentare tesi politiche concrete attraverso conoscenza (dati) e ragionamento. Bisogna cioè dare per scontato infinitamente di meno di quanto si fa ora e imparare a spiegarlo infinitamente meglio. (Provandoci, probabilmente molti sedicenti rappresentanti di sinistra scoprirebbero che non sono in grado di spiegare efficacemente alcunché perché loro stessi non hanno ben capito ciò che dovrebbero spiegare a terzi).
Così si dovrebbe cominciare a sgombrare il campo da una marea di apparenti ovvietà. Bisognerebbe avere il coraggio di capire, prima, e di dire, poi, che non esiste in natura alcuna posizione ovviamente ‘di sinistra’, ad esempio, sull’ingegneria genetica o sulla questione mediorientale, sulle armi da fuoco o sulla pena di morte, sul misticismo, sullo scientismo, sul senso dell’onore, sull’uso di cannabis, su non-violenza e pacifismo, su americanismo o europeismo, sul matrimonio gay o sul divorzio etero, su un’etica della disciplina o su un’etica edonistica, sull’identità nazionale o sull’immigrazione, sugli OGM o la macrobiotica; non esiste invero neppure una posizione ovviamente di ‘sinistra’ su ‘progresso’ o ‘conservazione’; e molto molto altro ancora.
Il problema non è quello, molto discusso e ricorrente, se si debba o non si debba andare oltre l’opposizione ‘destra-sinistra’. Porre così la questione è mera superstizione nominalista: come se decidersi o meno a tale ‘superamento’ risolvesse qualche cosa. (Spesso, peraltro, la pretesa di ‘andare oltre destra e sinistra’ si è tradotta nel passare da stereotipi sinistrorsi a stereotipi liberali, il che è come sostituire una partita di pane ammuffito con una di brioche ammuffite: arduo definirlo un progresso).
Il punto di fondo non sono le etichette, ma le istanze: se ciò che è stato noto nel ‘900 come ‘sinistra’ vuole avere non solo un nobile passato ma anche un qualche futuro deve innanzitutto fare una grande operazione di pulizia rispetto alle proprie infinite ‘ovvietà convenzionali’, concentrandosi su pochi valori qualificanti, e poi esercitandosi in fondati ragionamenti capaci di spiegare e convincere. Smettere di fingere di sapere a priori ‘da che parte stare’, e cominciare ad avere il coraggio anche di posizioni inedite (senza l’eterno timore di una qualche eterodossia).
Andrea Zhok (Trieste, 1967) si è formato presso le università di Trieste, Milano, Vienna ed Essex. Attualmente insegna Antropologia Filosofica presso l’Università degli Studi di Milano. Tra le sue pubblicazioni monografiche ricordiamo Il concetto di valore: tra etica ed economia (Mimesis, 2001); Lo spirito del denaro e la liquidazione del mondo (Jaca Book, 2006); Emergentismo (Ets, 2011); La realtà e i suoi sensi (Ets, 2012).
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