L’incantesimo maschile
di Armando Ermini
(pubblicato su linterferenza.info il 14 maggio 2023)
“Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento
e messi in un vasel, ch’ad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio (Dante Alighieri)”.
Nei movimenti maschili si discute spesso, senza venirne a capo, sui motivi per i quali così tanti uomini non capiscono, o si rifiutano di capire, quale sia la loro realtà; dal punto di vista sociale, quindi nel lavoro e in famiglia, e dal punto di vista psicologico, ossia in rapporto al femminile. Alcuni di essi, i così detti intellettuali, continuano a parlare e scrivere di insopportabili privilegi maschili, di persistente oppressione e discriminazione delle donne, di situazioni di disparità che devono essere sanate in ogni modo. Altri tacciono disorientati, percependo dentro di sé disagio di fronte alla narrazione pervasiva di un maschile privilegiato e oppressore e di un femminile oppresso e “innocente”; tuttavia non osano esprimerlo per timore di essere considerati sessisti e maschilisti, come avviene immancabilmente ogni volta che qualcuno osa proporre qualche frammento di una verità diversa da quella ufficiale di tutti i media e praticamente di tutte le forze politiche, di destra di centro o di sinistra (per quel che possono valere ormai certe distinzioni).
Senza ovviamente pretendere di aver scoperto chissà quale verità, vorrei avanzare un’ipotesi che, magari insieme ad altre, contribuisca a spiegare un fenomeno che esula da ogni forma di logica e raziocinio, che pure sono tratti caratteristici maschili, per situarsi invece nel campo dello psichismo, là dove il logos si arresta per fare spazio alle emozioni, ai sentimenti, insomma a tutto ciò che si muove nell’inconscio e che determina potentemente, ancorché inconsapevolmente, i pensieri e le azioni umane.
E’ come se gli uomini fossero soggetti ad un incantesimo da cui non possono, o non sanno, o non vogliono risvegliarsi per guardare in faccia la realtà, e continuino ad illudersi di essere loro a determinare la direzione del “vasel” di cui parla Dante nel sonetto in esergo.
Partirei, per questo tentativo di decodificare l’incantesimo, da un fatto reale, inoppugnabile, che ha contrassegnato l’umanità fin dai primordi. Ai maschi, da sempre, sono toccati il compito e la funzione di esercitare la forza fisica, e quindi anche la violenza, coi connessi rischi di perdere la vita. Esercizio dal quale, al contrario, sono state sempre rigorosamente dispensate le femmine. Anche nelle antiche società matriarcali, o come le definisce Johann Jakob Bachofen ginecocratiche, in cui le donne esercitavano grande potere, direttamente in prima persona o come potere di nomina (e quindi, corrispondentemente) di revoca della guida sociale maschile, l’uso della violenza per la conquista di territori altrui o per la difesa del proprio, per la protezione della propria famiglia o clan da minacce esterne, umane o animali come nel caso dei grandi predatori, o semplicemente per procurare il cibo con la caccia, è sempre stata cosa maschile. Le donne guerriere, in altre parole le mitiche amazzoni, rimangono nell’ambito delle proiezioni mitologiche e non trovano riscontro nelle ricerche etnografiche. E quand’anche fossero davvero esistite rappresenterebbero la classica eccezione che conferma la regola.
I motivi dell’incantesimo che colpisce gli uomini possono essere più di uno, anche in combinazione fra loro. Dal più semplice e naturale, il differenziale di forza fisica fra i sessi, a motivi più articolati come la funzionalità complessiva del lavoro di cura femminile (divisione sociale del lavoro), oppure anche a ciò che potremmo definire l’istinto di conservazione della specie, in forza del quale la vita maschile è sempre stata considerata come più sacrificabile di quella femminile, potendo pochi uomini inseminare molte donne e garantire la sopravvivenza della specie stessa.
Quali che siano i motivi, rimangono i fatti. I maschi si sono assunti l’onere della violenza dispensandone le femmine, ossia proteggendole in senso ben più ampio di quello puramente fisico, nonostante che da parte di qualcuno ci si ostini a considerare questa dispensa come ulteriore prova di oppressione e prepotenza ai danni delle donne. Il punto è, a mio avviso, che l’esercizio della violenza fisica non comporta solo il rischio perdere la vita o di essere feriti gravemente dall’avversario (umano o animale che sia), ma è anche e forse soprattutto, doloroso e lacerante dal punto di vista psichico, a meno di pensare al maschio, come sembra essere di moda, come ad un soggetto in sé privo di pietas, un soggetto che può uccidere e uccidere con la più grande indifferenza morale o etica. Pensare in tal modo, inutile sottolinearlo, è non solo falso, ma si configura anche come vero e spregevole razzismo di genere che gerarchizza moralmente donne e uomini in soggetti superiori e inferiori.
La realtà ci racconta cose ben diverse, che possono essere esemplificate negli innumerevoli e commoventi episodi di solidarietà umana fra nemici durante la Grande Guerra (di cui è densa la memorialistica dedicata), quando ancora i soldati nemici si guardavano negli occhi durante gli assalti alla baionetta, o semplicemente ascoltavano i canti provenienti dalle trincee avverse che si fronteggiavano a poche decine di metri l’una dall’altra. Questi episodi, peraltro diffusi non solo nella Grande Guerra, dovrebbero a mio avviso costituire un importante capitolo della narrazione maschile di sé. E’ anche vero, tuttavia, che è difficile stare a contatto con la violenza senza farsene contaminare, cosa peraltro dimostrata da appositi esperimenti in cui uomini normali, ripetutamente ed opportunamente stimolati in ambienti ad hoc, perdono ogni freno morale e si trasformano in esseri feroci. Volendo far parlare il mito, le due figure a parer mio più emblematiche di questa lacerazione e dei rischi connessi, sono quelle di Ettore da una parte, l’eroe troiano che, causa l’amore profondo nutrito per la moglie Andromaca e per il figlioletto, pur combattendo fino alla morte per la sua terra e quindi uccidendo, mai perde la scintilla di umanità che gli brilla dentro; e dall’altra Achille, il guerriero invincibile completamente pervaso dal “furor belli” fino a negare (e negarsi) ogni senso di umana pietà verso l’avversario ormai morto e verso il suo vecchio padre.
E’ per non cadere nel vuoto del nichilismo o della disperazione, che gli uomini hanno sentito la necessità di costruire oasi di pace e di innocenza in cui rifugiarsi per rigenerarsi, e in cui dare concretezza visibile all’idea del bene. Anche per questo, ritengo, la donna è stata esentata dall’esercizio della forza e della violenza, e protetta dalle sue contaminazioni. La sua bellezza e il suo fascino ben si prestavano, e ancora oggi si prestano, a fungere da catalizzatori di questa necessità psichica. Sono significative in tal senso le parole che pronuncia il protagonista del famoso romanzo di Christiane Rochefort, Il riposo del guerriero, ” Io sono stanco. Fammi riposare. Tu sei il riposo del guerriero… Aiutami a vivere. Costringimi a vivere“. Non, quindi, la femmina puro oggetto di spasso per il maschio come vuole il femminismo, ma al contrario sua ancora di salvezza, depositaria dell’idea di purezza e innocenza. La “donna angelicata” del Dolce Stil Novo è forse l’esemplificazione più famosa dell’attribuzione al femminile di queste prerogative, che è proseguita poi nei secoli successivi, spesso centrata e concentrata sulla figura della “madre buona” (“la mamma è sempre la mamma”), incapace di nuocere ai figli. Anche da ciò, e nonostante che proprio la mitologia racconti una verità ben diversa, nasce il mito dell’Innocenza femminile, alimentato dagli uomini e immediatamente fatto proprio dalle donne con falsa coscienza. Da qui anche il corollario di questa illusione ottica: la rimozione congiunta da parte di uomini e donne, del lato oscuro e divorante del femminile, e l’attribuzione di ogni comportamento deviante o a patologie personali oppure alla nefasta influenza maschile. Modelli e stili di comportamento femminili negativi, sarebbero insomma copiati dai maschi a causa della sottomissione culturale delle donne.
Jacques Camatte, studioso di origine marxista e non certo accusabile di disattenzione o ostilità alle istanze ed alle idee dei movimenti femminili, scrive (https://www.ilcovile.it/scritti/COVILE_B_545_Camatte_5_Lettera.pdf) “… Tuttavia, la repressione non è scomparsa; così come non è scomparsa con la fine del patriarcato, e la situazione delle donne non è veramente migliorata. In realtà, ciò porterà ad esse nuove difficoltà, dal punto di vista esistenziale. Perché hanno perso un importante vantaggio che il patriarcato procurava loro, il sollievo dalla repressione assunta dagli uomini, il che ha operato una grande mistificazione. In precedenza esse potevano presentarsi come non agenti di repressione. Il che salvava il ruolo di madre. Aveva un effetto positivo sui figli, sui ragazzi per idealizzarlo, sulle ragazze per accedere a tale funzione. Ormai esse dovranno tener conto che di fatto, anche loro, reprimono, e questo da quando si è imposto il divenire di erranza. Ciò contribuisce alla messa in crisi del loro rapporto con gli uomini e in tal modo contribuisce al disvelamento della speciosi”.
Ed ancora aggiunge a proposito del patriarcato in L’eco del tempo🙁https://revueinvariance.pagesperso-orange.fr/echo.html):
“Siamo alla fine di un arco storico, e dobbiamo far capire che il patriar:cato, almeno nella zona occidentale, finisce dentro il fenomeno del capitale; siamo già oltre. Con questo intendo dire che il capitalismo non è la fase finale del patriarcato, perché il patriarcato si dissolve al suo interno. Gli uomini hanno perso ogni forza e non possono più essere decisivi. Dopo aver fatto affidamento su di loro per il loro futuro e averne pompato la sostanza, il capitale può ora tendere a usare le capacità ancora sconosciute delle donne, non per metterle al “potere”, ma per rivitalizzarsi; da qui il grande pericolo del recupero di vari movimenti femministi”.
Il Re, dunque, è nudo, e occorre prenderne atto coraggiosamente, anche se può portare dolore. Da parte femminile è necessaria, finalmente, una netta assunzione di responsabilità. Guardarsi allo specchio e riconoscere che è solo grazie agli uomini ed al tanto vituperato patriarcato che il consolatorio sentimento di innocenza è potuto nascere e svilupparsi fino a diventare un dogma dei nostri giorni, il presupposto non dichiarato perché scontato, di qualsiasi ragionamento sui rapporti fra i sessi. Occorrerebbe anche riconoscere che il capitalismo post patriarcale, da una parte mantenendo le antiche esenzioni di responsabilità e dall’altra chiamando le donne a recitare una parte di primo piano anche sul terreno economico e su quello pubblico, ha rotto il pur precario e asimmetrico vecchio equilibrio fra i sessi a tutto vantaggio del lato femminile; con ciò instaurando una gerarchia morale ineluttabilmente tendente a diventare anche materiale. La frase sulle donne che sanno fare tutto ciò che fanno gli uomini, ma meglio, questo e non altro significa, ben oltre la sua verità fattuale. Tuttavia nessuna assunzione di responsabilità da parte femminile, nessuna presa di coscienza che l’innocenza è solo una illusione ottica saranno possibili, se e finché gli uomini non avranno rotto l’incantesimo da essi stessi creato e si costringeranno, finalmente, a prendere atto della realtà. Male e bene, colpa e innocenza, carnefice e vittima, non sono incarnati in un sesso o nell’altro, ma sono dentro ciascuno di noi. Non esistono un luogo fisico e uno spazio psichico esterni a noi stessi, deputati al riposo e alla rigenerazione di sé. O meglio, possono esistere ma rappresenteranno sempre ed esclusivamente quella particolare persona, mai il sesso d’appartenenza in generale. Guardare in faccia la realtà è operazione razionale e realistica, qualità che certo non mancano ai maschi. Il fatto che in grande maggioranza non riescano a farlo, il fatto che non riescano a pensare anche se stessi come possibili depositari d’innocenza, il fatto che continuino ad assumersi colpe e responsabilità senza riconoscersi meriti, se da una parte testimonia la vocazione maschile all’universalità, dall’altro nuoce gravemente. Prima di tutto, ovviamente, agli stessi uomini, schiacciati per opera propria e per le accuse del femminismo da loro stessi incentivate e favorite, sotto il peso di una colpa irredimibile se non al prezzo della rinuncia di sé. Ma in realtà, oltre l’apparenza di una marcia che sembra irresistibile, nuoce anche alle donne. Abituate a sentirsi insieme vittime e superiori, diffidenza e sospetto nei rapporti con l’altro sesso (che di quei sentimenti sono il portato) bloccano spontaneità e fiducia, quindi condannano all’infelicità. Sarebbe ora che, proprio in nome di una autentica parità e reciprocità, come si dovrebbe fare fra adulti, gli uomini si decidessero a rompere l’incantesimo che li pietrifica, togliere le donne dal piedistallo dove le hanno innalzate e raccontare loro, finalmente, la verità per come la percepisce un maschio. Rinunciare alle illusioni è doloroso, ma storia e cronaca dimostrano che insistervi, alla lunga lo è ancora di più. Non ho soluzione se non, appunto la presa di consapevolezza maschile. E se a un certo punto gli uomini dicessero alle donne, semplicemente “arrangiatevi”?
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Vanda, è pur vero che esiste una cristallizzazione dei ruoli che ha persino fatto deviare il movimento femminista, falsando gli ideali di base.
Non è certo facendo tutto ciò che fanno gli uomini e mostrandoci forti che la nostra situazione cambia.
Magari, avesse affrontato la questione (riferibile sì a singoli soggetti, ma ben presente e diffusa) in cui l’esercizio della violenza vede come vittime le donne, ne sarebbe uscito un articolo meno fazioso e probabilmente più onestamente argomentato, forse anche con un tenore diverso sulle conclusioni.
L’autore poteva tacere le perle di sapienza qui dispensate. Comunque tutta la mia femminea solidarietà a questi poveri uomini che la cui Storia stiamo cercando di scialbare. Quanto all’espressione delle loro fragilità “nei movimenti maschili”: benvenuti nella società liquida.