L’introduzione dei mezzi artificiali in arrampicata – 1
di Gian Piero Motti
(pubblicato in La storia dell’alpinismo) (GPM-SdA-19)
Al punto in cui l’alpinismo era giunto, si aprivano due sole strade nella sua futura evoluzione. Ci pare inutile formulare l’ipotesi di un arresto sulle posizioni acquisite, in quanto sappiamo benissimo che ciò nell’agire umano è pressoché impossibile.
In precedenza si è visto che ormai l’alpinismo aveva assunto caratteri decisamente sportivi e il livello delle difficoltà superate si avvicinava a quello che poi sarà definito (ma forse con un grande malinteso e con troppa fretta) il limite delle possibilità umane in arrampicata libera. Si è detto un grande malinteso ed anche con troppa fretta, poiché noi non possiamo certamente sapere quale è il nostro ”vero” limite: è un qualcosa a cui ci avviciniamo, ma che forse non raggiungeremo mai, proprio perché è un limite. Non possiamo sapere fin dove si può spingere l’arrampicata libera senza alcun mezzo artificiale, finché ci aiuteremo con mezzi artificiali. Forse in quell’epoca si credette di aver raggiunto il limite e con troppa fretta si passò all’ausilio artificiale, che sicuramente permise di superare quello stesso limite in arrampicata libera, ma che diede anche inizio alle degenerazioni nell’uso degli stessi mezzi. Probabilmente se ci si dedicasse con impegno totale all’arrampicata libera, curando quasi scientificamente la preparazione atletica e soprattutto quella mentale, che è la più condizionante ai fini della paura, si scoprirebbe che l’arrampicata libera ha ancora larghi spazi prima che si ricorra all’artificiale.
Abbiamo parlato di due strade: la prima è la via dei puristi, i quali rinnegarono ogni intervento artificiale e proseguirono le loro ascensioni nel loro stile «pulito». La seconda è quella di coloro che invece si dichiararono favorevoli ai mezzi artificiali e ne fecero uso. Comunemente si dice che l’evoluzione alpinistica e il progresso verso le difficoltà più elevate seguirono questa strada, ma non tutti su questo sono d’accordo.
Ma in fin dei conti all’inizio in cosa consistevano questi mezzi artificiali? Possiamo dire in ben poco, rispetto a quelli attuali. Intorno al 1910 Eckenstein produsse un rampone da ghiaccio, sufficientemente leggero per essere portato nel sacco, e questa fu la prima grande innovazione, in quanto così, sviluppando naturalmente una tecnica appropriata, il lavoro di gradinatura nel ghiaccio poteva essere a poco a poco eliminato. Per quanto concerne l’arrampicata su roccia, si sa che già da molto si ricorreva all’aiuto di chiodi rudimentali, i quali però non potevano essere impiegati per assicurare la corda in quanto mancava il ”tramite” tra chiodo e corda, esattamente il moschettone. Questa fu decisamente l’invenzione (o la scoperta) più rivoluzionaria, in quanto permetterà lo sviluppo di una vera e propria tecnica d’arrampicata artificiale, dove il chiodo poteva essere utilizzato sia come assicurazione, riducendo notevolmente i rischi di una caduta, sia come progressione diretta per superare tratti strapiombanti o levigati. Solo con il moschettone ha senso dunque parlare di manovre di corda e di mezzi artificiali. In quanto all’introduzione del moschettone, quasi tutti i pareri sono concordi nell’attribuirne il merito agli scalatori austriaci del Kaiser e soprattutto a quelli della «Scuola di Monaco». In particolare, pare che sia stato proprio uno dei più forti arrampicatori dell’epoca, Otto Herzog, detto Rambo, ad introdurne l’uso in arrampicata, a seguito di alcune osservazioni che egli aveva fatto durante le manovre dei pompieri, i quali appunto si servivano già di grossi moschettoni. Altri dicono che non fu il solo Herzog ad avere l’idea, ma che nello stesso periodo anche Dülfer e Fiechtl, celebre per aver studiato le prime fogge di chiodi moderni, già ne facevano uso. Resta comunque il fatto che la “nuova tecnica” si diffuse con una rapidità impressionante, non solo sulle Alpi Austriache, dove ben presto i risultati ottenuti dimostrarono l’efficacia della scoperta, ma anche nelle Dolomiti, dove fu accolta con favore da alpinisti come Tita Piaz e come Hans Steger. Comunque, l’avvento dei mezzi artificiali determina, come si è detto, due correnti ben distinte ed antagoniste, che trovano in Paul Preuss ed Hans Dülfer i loro più significativi rappresentanti dell’epoca.
Paul Preuss, il paladino dell’arrampicata libera
In ogni discussione di oggi e di ieri che gravita sul tema dell’arrampicata artificiale, sulla liceità o non dei mezzi di progressione, sull’evoluzione dell’alpinismo, sempre il nome di Paul Preuss è presente e citato come esempio.
Paul Preuss era nato a Vienna e fin da ragazzino aveva cominciato ad arrampicare. Nella sua non lunga carriera fece qualcosa come 1200 ascensioni di cui 300 in solitaria e 150 prime salite assolute… Sono dati sbalorditivi: Preuss lasciò una traccia ovunque sulle Alpi e praticò anche l’alpinismo invernale e lo scialpinismo, di cui fu uno dei pionieri. In seguito entreremo più nel dettaglio a riguardo delle sue imprese; per ora preme chiarificare la sua ideologia e presentare la sua etica, su cui si è sempre tanto discusso.
Preuss fu sempre contrario ad ogni intervento artificiale durante l’arrampicata, corda compresa: infatti egli si legava con un nodo particolare, che si sarebbe disciolto in caso di caduta. Quando arrampicava in cordata, usava la corda solo per assicurare i compagni di cordata e non per la sua sicurezza. Preuss fu sempre uno strenuo difensore dell’arrampicata libera e disse sempre che il vero progresso stava in quella direzione, mentre l’impiego dei mezzi artificiali avrebbe portato ad una «impasse» involutiva. Giunse a formulare sei principi fondamentali, che costituiscono il suo credo, cui seppe sempre attenersi anche con i fatti:
“1) Non bisogna essere soltanto all’altezza delle difficoltà che si affrontano, ma bisogna essere nettamente superiori ad esse.
2) La misura delle difficoltà che uno scalatore può con sicurezza affrontare in discesa senza l’uso della corda e con animo tranquillo deve rappresentare il limite massimo delle difficoltà che egli può affrontare in salita.
3) L’impiego dei mezzi artificiali è giustificato soltanto in caso di pericolo.
4) II chiodo da roccia è una riserva per casi di necessità, ma non deve essere il fondamento di una particolare tecnica.
5) La corda può essere una facilitazione ma non il mezzo indispensabile per effettuare una salita.
6) Su tutto deve dominare il principio della sicurezza, ma non l’assicurazione forzatamente ottenuta con mezzi artificiali in condizioni di evidente pericolo, bensì quell’assicurazione preventiva che per ogni alpinista si basa sul giusto apprezzamento delle proprie forze”.
I principi su esposti furono letti durante una conferenza che Preuss tenne il 31 gennaio 1912 a Monaco di Baviera. Indubbiamente è un’etica estremamente severa, ma bisogna ammettere che è fondamentalmente esatta e corretta.
Sia chiaro che nel discorso seguente non si vuole assumere nessun atteggiamento moralista, in quanto una volta di più si afferma che la libertà è il più bel dono di cui l’alpinista può usufruire nella sua azione. E nemmeno si vuole indicare una direzione da seguire, separando come in un giudizio i «buoni» dai «cattivi». Bisogna dire che per molti l’alpinismo è un gioco magnifico, dove anche l’uso dei mezzi artificiali dà sensazioni inebrianti e particolari, soprattutto quando non si sale lungo una scala di chiodi piantati da altri ma quando si apre una via nuova in arrampicata artificiale. Non è vero che in questo genere di scalata non esiste l’avventura, ma esiste soltanto durante la prima ascensione, quando il capocordata deve fare un vero e proprio studio delle fessure da seguire, dove la scelta di ogni chiodo comporta esperienza, astuzia, ingegno e intelligenza, dove esistono tutte quelle incognite di passaggio e di impossibilità di ritirata che sono presenti anche nell’arrampicata libera. A meno che si accetti l’uso dei chiodi ad espansione, nel qual caso l’avventura è veramente finita. Ma forse anche questo è un giudizio temerario ed affrettato. Però il chiodo ad espansione dà la certezza di passare ovunque e comunque, e quindi effettivamente toglie all’arrampicata il suo lato migliore, ossia quello della salita verso l’ignoto.
Nella ripetizione di una via artificiale rimane il fattore atletico, che può avere indubbiamente i suoi aspetti piacevoli e positivi ed anche la possibilità di trovarsi in ambienti di parete (enormi strapiombi, tetti, vuoto assoluto) che non sempre si presentano in arrampicata libera. Comunque, nel salire lungo una fila di chiodi già piantati da altri, oppure nel piantare chiodi sfruttando gli evidenti segni di chiodatura lasciati dalle cordate precedenti, vi è ben poca avventura, ma il più delle volte solo un lavoro noioso e monotono che non dà alcuna sensazione di libertà e di leggerezza.
Tanto più che, in genere, queste vie hanno il potere di dare una enorme tensione psicologica, che disturba parecchio l’arrampicatore, data dal fatto che non si può essere sicuri della tenuta dei chiodi trovati in parete, in quanto non sono stati piantati di proprio pugno e non si sa nulla della loro saldezza.
In che direzione marcia l’evoluzione?
Per alcuni arrampicare non è un gioco. Alcuni a tutti i costi vogliono seguire la via del progresso e dell’evoluzione alla conquista dell’impossibile e credono di marciare in quella direzione servendosi dei mezzi artificiali. Probabilmente essi sono degli illusi e stanno compiendo un perfetto giro circolare; sono partiti da Preuss e stanno ritornando a Preuss: hanno cominciato ad usare qualche chiodo, poi hanno raggiunto l’apice e l’abuso dei mezzi artificiali, ora stanno rinunciando a poco a poco agli stessi mezzi e vogliono rivalutare l’arrampicata libera da cui un tempo erano partiti. Già fin d’allora era chiaro che il vero progresso verso l’impossibile era sul cammino di Preuss. Certo, il chiodo permise di superare in arrampicata libera dei tratti di parete sicuramente più difficili di quelli superati dal viennese in solitaria in salita ed in discesa. Ora, ancora una volta, non si vuole fare del moralismo, ma soltanto si vuole essere rigorosi nel ragionamento, per chi a tutti i costi in montagna non vuole giocare, ma cerca il cammino dell’impossibile. Ebbene, per costoro vi sarà vero e reale progresso solo se sapranno prima di tutto ergersi al pari di Preuss, il che è ancora tutto da vedere: ossia se saranno in grado di effettuare le stesse sue imprese nel suo stile “pulito”; senza corda, senza moschettoni e senza chiodi.
E poi vi sarà progresso e superamento di Preuss quando le pareti che noi abbiamo vinto e vinciamo con abbondante uso di chiodi e di staffe, saranno scalate da un arrampicatore solitario senza alcun mezzo artificiale. D’altronde è il cammino che oggi si segue in California, con risultati assolutamente sbalorditivi. Allora forse scopriremo che esiste il settimo, l’ottavo ed il nono grado in arrampicata libera e potremo finalmente privarci di ogni mezzo artificiale. Resta comunque il fatto (e va ripetuto) che una prima ascensione in arrampicata artificiale, soprattutto dove non vi sia ricerca di ”performance” e dove non esistano angosce date da quote e mutazioni atmosferiche, è un’esperienza di estremo interesse: per la lentezza assoluta dell’azione, per le pause molto lunghe che separano l’azione stessa, per il controllo nervoso che la progressione richiede. Una somma di fattori che fa di una salita su una grande muraglia granitica e calcarea una sorta di ”viaggio” nel subconscio, una specie di via per autoconoscersi, che riporta alla mente le esperienze delle discipline orientali e delle religioni esoteriche. Ma questa è una forma d’alpinismo nuova, che in Europa ancora non è ben capita e poco praticata. L’artificiale in Europa è ancora un mezzo per cercare di salire dove non si passa più in libera; quindi è ancora una manifestazione volgare e poco profonda. D’altronde, a differenza delle muraglie della Yosemite Valley in California, dove perennemente splende il sole e dove qualche acquazzone è il benvenuto per placare l’arsura e il calore, sulle Alpi, a meno di usufruire di grandi palestre a basse quote, la cosa, per ovvi motivi ambientali, è pressoché impossibile. Se la salita in Yosemite dura più e più giorni e rappresenta un tentativo, più o meno riuscito, di ”uscire” dal tempo e dallo spazio, con un’azione ritmica e rallentata che assume il significato di «vita in parete» e di scoperta di un altro cosmo interno ed esterno a se stessi, la “grande corsa” alpina è perfettamente inserita nel tempo e nello spazio ed è quindi una lotta serrata contro gli elementi naturali piuttosto che un tentativo di entrata in perfetta armonia sincronica con essi. Comunque non si riesce bene a capire perché mai le due attività non possano coesistere in perfetta armonia e come invece si cerchi di opporle in rivalità l’una contro l’altra. Forse la soluzione sta nel ritornare alla purezza di un Preuss nella salita alpina (e la cosa è certamente possibile), mentre la scalata artificiale può avere un suo preciso significato ed un suo motivo di esistere se praticata nel modo che prima si è voluto chiarire.
Resta comunque un fatto reale, che sconfigge ogni ragionamento fatto con i ”se” e con i ”forse”, congiunzioni e avverbi che non dovrebbero esistere in un’analisi storica. Siamo di fronte alla realtà di un ciclo in cui i mezzi artificiali sono nati, si sono diffusi, hanno permesso la realizzazione di imprese stupefacenti, hanno creato una nuova tecnica ed un nuovo modo d’arrampicare. Questa è la realtà, ed è inconfutabile. Come ogni esperienza storica ed esistenziale, anche quella della tecnica artificiale è stata certamente utile e rinnegarla oggi sarebbe ridicolo ed infantile. La tecnica artificiale doveva raggiungere abusi e aberrazioni, certamente criticabili ma non inutili ai fini dell’esperienza, per insegnarci a scoprire un nuovo modo d’arrampicare ed un nuovo modo di servirci dei mezzi stessi.
Ma doveva soprattutto servirci a riscoprire l’esempio di Preuss e a ritornare verso quel modello nella pratica dell’alpinismo di conquista e di ricerca dell’ignoto. Più che mai, in questo preciso momento che stiamo vivendo, l’alpinismo è in crisi: ma è una crisi utile che porterà ad una chiarificazione definitiva tra arrampicata libera ed arrampicata artificiale, senza promiscuità e compromessi che ancora esistono. In sostanza l’uso e l’abuso dei mezzi artificiali, come ogni evento storico apparentemente inutile, è stato utile: ci ha insegnato a privarci dei mezzi artificiali per scoprire (o meglio riscoprire) la grande avventura dell’arrampicata libera “pulita” e ci ha insegnato pure il sistema corretto per trovare la stessa avventura (e forse delle sensazioni nuove e differenti) con quegli stessi mezzi artificiali a cui rinunceremo o dovremo rinunciare per la riscoperta della “libera” (1).
(1) Negli anni in cui Motti scriveva sembrava davvero che l’evoluzione dell’alpinismo marciasse verso l’arrampicata libera ”pulita » propugnata da Paul Preuss, ma poi, con l’avvento dell’arrampicata sportiva e la diffusione degli spit anche in montagna, i mezzi artificiali, che erano usciti dalla porta, sono rientrati dalla finestra… (NdR).
Preuss: punto di partenza e punto di arrivo
Per questo in quest’analisi la storia dell’alpinismo, almeno intesa in senso evolutivo e cronologico verso il progresso, potrebbe benissimo arrestarsi a Preuss ed infatti in un certo senso si arresta a Preuss. Dopo di lui comincerà un giro circolare, un’orbita che ci riporterà, dopo aver toccato l’apogeo, verso lo stesso Preuss: sicuramente i nostri giorni stanno segnando le ultime tappe della fase di ritorno. Certamente, durante questa orbita incontreremo uomini ed imprese eccezionali, di valore grandissimo, ma non è questo che si vuole negare, poiché anche la storia orbitante ha un suo ciclo evolutivo ben preciso. Se il paragone è concesso, è come una stella che si sia fermata nella sua corsa rettilinea per attendere il compagno o la compagna che, divenuta pianeta, deve compiere un’intera orbita circolare prima di ricongiungersi alla stella, per poi riprendere insieme il viaggio rettilineo. Se l’inizio del moto orbitale fu causa di un errore o fu appositamente voluto, pare ozioso il ricercarlo, in quanto esiste una realtà ben precisa ed anche perché il moto orbitale volge ormai al suo termine. Al punto di ricongiungimento cause, motivi ed eventuali errori o malintesi, appariranno in tutta la loro chiarezza. Per ora è abbastanza inutile condannare in blocco o difendere a spada tratta i mezzi artificiali, prima che si sia compreso esattamente il ruolo ed il gioco che essi hanno svolto da Paul Preuss fino ai giorni nostri.
Comunque, dal momento del distacco, la velocità angolare e la curvatura dell’orbita furono garantite da due forze opposte e contrastanti, che permisero e permettono tuttora la “tenuta” in curva: alla partenza e fino all’apogeo i conservatori si schierarono dalla parte di Preuss, mentre l’evoluzione e la salita verso l’apogeo erano garantite dai progressisti, che invece si dichiararono favorevoli ai mezzi artificiali. Si giunse così all’apogeo, dove l’uso dei mezzi artificiali sconfinò nell’abuso e si giunse alla degenerazione vera e propria. Da quel momento il ruolo delle forze divenne inverso: i conservatori divennero progressisti, nel dichiarare il ritorno verso il punto di partenza e la rinuncia progressiva ai mezzi artificiali. Ma per mantenere la velocità in curva fu necessaria l’opposizione (ed è ancora necessaria) dei progressisti di allora, che oggi invece diventano conservatori nel difendere l’impiego dei mezzi artificiali…!
Si è già detto che durante quest’orbita planetaria è chiaro che le imprese più prestigiose e significative del primo periodo (quello di salita all’apogeo) saranno rappresentate da scalate dove l’impiego dei chiodi dapprima è limitatissimo e poi sempre più crescente, ma proporzionale alle dimensioni e alle difficoltà che la parete presenta, fino a giungere ad un punto in cui la difficoltà verrà a diminuire con il crescere del numero dei chiodi impiegati. Poi, una volta iniziato il moto discensionale e di ritorno, la difficoltà riapparirà a poco a poco in quelle imprese dove il numero dei chiodi e dei mezzi artificiali verrà sempre più ridotto, però con la distinzione attuale di grande scalata artificiale (vedi California) e grande arrampicata libera o, per lo meno, grandi imprese che ricercano uno stile pulito (vedi Messner). Nel contesto si inserirà anche l’alpinismo invernale e quello solitario, che hanno seguito lo stesso ciclo: dapprima stile elegante e pulito, poi trionfo della tecnologia per vincere ad ogni costo, oggi nuovamente ricerca del vecchio stile elegante e pulito. Più difficile definire con esattezza il punto di apogeo, in quanto, come si è precedentemente detto, finché si è in orbita è molto difficile ottenere immagini chiare.
Puristi e artificialisti: una interpretazione possibile
Dato che quest’analisi ha qualche modesta pretesa di indagine dialettica, la figura di Preuss, il suo severo purismo e l’avvento dei mezzi artificiali si prestano ad una interpretazione sicuramente più sottile e interessante.
Molte volte ci si sarà chiesti il perché di tanta avversione verso i mezzi artificiali ed anche il perché di una linea dura ed intransigente che accusa il chiodo di profanazione e di violazione della montagna ”sacra e intangibile”. È una posizione che desta psicologicamente qualche sospetto. E desta anche sospetto la presa di posizione dei puristi, i quali, schierandosi dalla parte dei ”giusti”, si ergono a censori e giudici, anzi, a paladini e difensori della montagna che non deve essere violata dai profanatori. Se si studia attentamente l’evoluzione dell’alpinismo da Preuss in poi, si avverte tutta una tensione a salire verso un punto di profanazione vero e proprio: si tende cioè all’abbattimento dell’impossibile e a varcarne il limite, ma avvalendosi dei mezzi artificiali. Così facendo ci si trova a dover combattere una forte inibizione interiore che, se non giunge a vietarne direttamente l’impiego, ne condanna moralmente l’uso e fomenta un senso di colpa in chi si schiera dalla parte dei ”cattivi”.
Senza scandalizzare nessuno, possiamo benissimo pensare che i «buoni» siano tali soprattutto per una loro storia individuale, che li ha portati a trasferire nell’alpinismo un conflitto neurotico soggettivo. In sostanza, nel «purista» potrebbe sussistere una fortissima inibizione sessuale, derivata da traumi infantili che lo hanno inchiodato in una situazione edipica non ancora superata. Ecco allora come si spiega l’idealizzazione della Montagna (la Grande Madre) e la costrizione ad avere con essa rapporti teneri ed affettuosi (l’arrampicata libera senza mezzi artificiali) e non incestuosi ed erotici (l’arrampicata artificiale) dove il chiodo che profana, penetra e ferisce la roccia (tutta la letteratura alpinistica è zeppa di queste espressioni…) assume un chiarissimo significato fallico in termini simbolici. In sostanza, il purista è un inibito, timoroso di castrazione, che si sottomette alla propria legge interiore ed accetta la regola. L’artificialista invece non accetta affatto la regola, anzi disubbidisce e giunge alla profanazione e al ”peccato” per valicare un limite che gli è stato imposto dall’alto. Chi ha dunque ragione?
Probabilmente tutti saranno d’accordo che la conoscenza procede su schemi dialettici: non posso aver cognizione del ”bene” fin quando non avrò conosciuto tutto il ”male”. Non è sufficiente che mi si dica che questo è il bene e mi si tenga all’oscuro dell’altra metà, anzi mi si impedisca di conoscerla, o per lo meno si cerchi di bloccarmi nel tentativo di ”mangiare la mela”, ricorrendo a terribili minacce di punizione. Il tutto insospettisce troppo e sa anche di potere assoluto e gerarchico: sorge il dubbio che chi detta le regole assolute voglia essere unico a comandare e non voglia avere concorrenti e rivali tra i piedi. In campo alpinistico troviamo lo stesso atteggiamento nel purista: probabilmente la sua condanna dell’artificialismo è unicamente una paura che la sua ”amata” parete possa divenire di altri; in termini più concreti e meno simbolici, che la sua donna, con cui lui ha solo rapporti platonici e di tenera affettuosità, sia invece posseduta sessualmente da altri che, per così dire, le usano violenza per mezzo del fallo. Tutta questa difesa in fin dei conti non è che paura, grandissima gelosia, invidia fallica e timore che la propria amata scopra il piacere fallico che finora le è sconosciuto, anche perché il suo ”cavaliere” non ha il coraggio di essere lui stesso a compiere la ”profanazione” (che poi assume il significato vero e proprio di liberazione, malgrado la inevitabile punizione da scontare) in quanto teme troppo la minaccia castratoria che giunge dall’alto (in termini freudiani dal suo «super ego»). Quindi probabilmente il comportamento di Preuss e dei puristi, non è affatto una libera scelta e nemmeno la linea ideale: è soltanto il frutto di una fortissima inibizione interiore che li ha costretti in quella posizione, da cui è facile ergersi a censori, giudici e moralisti. Lasciamo perdere i motivi e le cause per cui si è giunti a questa inibizione: sarebbe troppo semplice dire che Preuss soffriva di terribili complessi di inferiorità perché era ebreo e che i puristi sono tali perché hanno vissuto in senso errato il loro rapporto con la madre durante l’infanzia, a causa di carenze della figura paterna. Lasciarne queste indagini a chi è interessato e lasciamo loro anche lo strumento psicoanalitico, che per queste è efficacissimo e quasi indispensabile. Limitiamoci ai dati più concreti. Se vi è una inibizione, questa deve essere conosciuta e liberata.
L’unico mezzo per liberarla è il procedimento dialettico, ossia se il fattore inibitorio ha causato una legge ed un imperativo categorico che obbligano a salire fino a quota 1000 in positivo, per giungere alla liberazione ed alla sintesi successiva bisognerà discendere al negativo, e quindi nell’antitesi, fino a quota meno 1000. È dunque una tecnica di disubbidienza vera e propria che comunque si paga cara, come ogni libertà: ad ogni progressione nella disubbidienza discendente verso il negativo, scattano naturalmente i meccanismi punitivi del “super ego” ed agiscono i meccanismi angosciosi di colpa come freni inibitori.
Libertà non è ubbidienza alla legge. Libertà è la fine dell’ubbidienza e della disubbidienza, la fine della contraddizione e della dialettica e quindi la fine di ogni legge. Il giusto non sta né nell’arrampicata libera pura né nell’arrampicata artificiale esasperata, posta in contraddizione ed in antitesi a quella libera. Nella lotta non vi è libertà alcuna. Il giusto è alla fine della lotta, nella libera scelta di ciò che più piace, in una atmosfera un po’ utopica (ma possibile) dove la contraddizione interna non esista più e tanto meno la legge superiore a cui ubbidire. Il gioco, il gioco vero e proprio dove ogni gesto, ogni pensiero, ogni azione sono liberi da qualsiasi critica interna ed esterna, perché inseriti in un trionfo di Eros. In questo senso la ribellione di Lucifero, l’assassinio di Bruto, il ”dispitto” di Farinata e le bestemmie di Capaneo, assumono un significato ben diverso e quasi positivo. Ed anche il famoso morso della mela si profila in una luce rivoluzionaria e magnifica, come un disperato e splendido atto di ribellione verso una legge che si serviva della trappola delle delizie per impedire il cammino verso la conoscenza e la potenza assoluta.
Forse l’incantesimo ed il trucco del Paradiso hanno funzionato fin troppo a lungo, per obbligare e convincere l’uomo a restare nella sua condizione sottomessa. Forse la via della libertà passa proprio per l’inferno, attraverso il sacrificio ed il dolore; d’altronde amare significa anche peccare e si è detto che il ”regno dei cieli” è di chi più ha amato, quindi di chi più ha peccato. Non si può giungere al bene senza aver conosciuto tutto il male. La libertà passa per la schiavitù.
Ecco che allora la nostra arrampicata artificiale, e tutta la storia dell’alpinismo fino ai giorni nostri, si profila come una magnifica e necessaria ribellione verso l’ordine e l’inibizione inferiore a «non profanare». Il cammino della liberazione ha dovuto naturalmente toccare il fondo e giungere alle sue aberrazioni: l’apogeo lo si è raggiunto nel gesto dissacratore e sacrilego di un Cesare Maestri che impugna il perforatore a motore e, a furia di buchi praticati nella roccia, viola la montagna intangibile, la montagna pura e sacra, il Cerro Torre. E sì che Maestri aveva tutte le carte in regola anche come purista; infatti le sue imprese solitarie gli permettevano sicuramente di guardare ben diritto negli occhi il ”giudice” Preuss. Ma il fremito di libertà che ribolliva in lui, il suo spirito anarchico ed insofferente, lo hanno portato a compiere l’ultimo atto di disinibizione, a ”toccare il fondo”, attirandosi naturalmente i ”crucifige” di tutti i puristi. Di più non si poteva e non si potrà fare. D’ora in poi si viaggerà sicuramente verso una sintesi.
È chiaro che non si varcherà mai il “limite” con i mezzi artificiali, ma quest’illusione è stata necessaria per compiere il viaggio fino in fondo, per liberare quindi tutta un’aggressività ed una violenza nei confronti della ”Montagna” che era prima enormemente repressa. Qualcuno potrà dire: ma se non vi è più aggressività, se non vi è più stimolo a salire, a conquistare, cosa vi può essere allora, se non il banale?
Gli si può rispondere che il destino dell’umanità, anche se sembra essere tutto in salita, potrebbe anche un giorno giungere su un altopiano, dove salire, o per lo meno aggredire per giungere ad una meta, non avrebbe più alcun senso. L’insoddisfazione non può esistere dove lo sconosciuto è stato conosciuto nella sua interezza.
Per noi, che corriamo in salita, è impossibile soltanto immaginare un’esistenza del genere.
Resta comunque il fatto che, analizzando gli eventi che seguono Preuss, è difficile dare un valore alle imprese compiute esprimendo un giudizio. Potremo dire che le imprese più difficili e rischiose sono state certamente quelle in cui l’inibizione verso i mezzi artificiali ha giocato un ruolo di primo piano. Ma non dimentichiamo, riferendoci a quanto sopra si è detto, che va anche attribuito un merito a chi ha passato delle giornate intere a riempire la roccia di chiodi. Se oggi abbiamo acquisito coscienza di una situazione, lo dobbiamo anche e forse soprattutto a loro.
È chiaro che, nel caso di Maestri, il gesto dissacratore e disinibitorio non è stato compiuto con la diretta coscienza di volere: Maestri ha voluto salire il Torre in qualunque modo e con qualunque mezzo per dimostrare che il Torre era scalabile, per dare una prova che quella montagna definita ”impossibile” si poteva benissimo vincere, ed anche per tappare la bocca a chi non gli aveva creduto in occasione della prima ascensione da lui compiuta con Toni Egger.
Ma, qualunque siano stati i moventi, il ”gesto” proibito è stato compiuto, il conflitto ha toccato la sua fase più acuta e dilacerante.
Ora non potremo che essere attori e spettatori dell’evolversi di una situazione di conflitto, che sicuramente volge ad una sintesi insperata e magnifica.
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… era solo per dire che persone diverse possono avere comportamenti diversi. Non siamo tutti uguali (detto senza dialettismi) ma forse è più corretto dire “non sono tutti uguali” riferendosi ai personaggi che fanno progredire la società.
That’s it.
Stiamo ovviamente generalizzando ma quello che volevo sottolineare è che chi è quieto e senza guizzi, difficilmente si evolverà. E su questo credo si sia d’accordo ma sinceramente la tua ultima frase non l’ho capita. Non per il dialetto, che è abbastanza comprensibile, ma per il resto. Ciao.
Cominetti, sicuramente in molti personaggi “evolutivi” si possono trovare squilibri, disadattamenti e inquietudini. Quello che mi permetto di contestare e che questi elementi debbano essere, per forza, presenti come delle specie di “marchi di fabbrica”.
Ci sono molti personaggi che hanno lasciato il segno nella nostra società senza per questo essere squilibrati o disadattati. Diverso è il tema dell’inquietudine sul quale, forse, mi sento di concordare. Nel senso che una persona “quieta”, ovvero tranquilla e non animata dal sacro fuoco del fare o del sapere, difficilmente potrà lasciare un segno “evolutivo”, che si parli di alpinismo o di meccanica quantistica.
Qui al NO si dice “suma nen tüti istes”. Non penso servano traduzioni …
Bosco, il tormento e l’autodistruzione sono cose assai diverse, anche se in certi casi coincidono.
Se guardiamo alla vita di chi ha fatto grandi cose come artisti, sportivi, politici, scienziati, ecc. è raro che non ci sia in loro una sorta di squilibrio, disadattamento e/o inquietudine, per lo meno agli occhi della società benpensante che li giudica.
Non è detto che l’evoluzione debba per forza passare dal tormento e dall’autodistruzione …
Se non ci fossero i tormentati, gli inquieti, che si fanno tante domande, che cercano sempre di andare oltre, che non si accontentano mai, molti misteri della vita , sarebbero ancora oggi misteri .
Ciao Marcello,
non ho compreso la considerazione sui doni immeritati.
I tormentati vivono costantemente nell’incertezza che è la molla per elaborare pensieri e teorie complessi che vanno sempre in profondità. L’osservazione ossessiva del prossimo crea una mole di dati che il cervello elabora senza sosta, generando pensieri che quando vengono espressi assumono l’aspetto di certezze.
Ma nel mentre, il tormentato, continua a raccogliere e elaborare dati su tutto ciò che gli sta intorno e la cosa si ripete all’infinito. Un infinito relativo alla durata della vita del tormentato.
Tali tormenti ricadono sotto il nome di inquietudine, secondo me una delle più belle sensazioni che si possono provare in vita.
Per molti sono segno di irrisolutezza e frustrazione (vedi i giudizi crovelliani) ma senza di loro l’esistenza umana non avrebbe conosciuto evoluzione.
I grandi risultati hanno grandi costi in tutti i sensi.
Per questo quando qualcuno vi regala qualcosa, senza che abbiate fatto uno sforzo per ottenerla, ci si meraviglia e si considera buona quella persona.
Ma sono abbagli.
È stato un Grande sia come alpinista che come intellettuale della montagna ma, forse, un po’ tormentato, come testimoniato dal suo gesto estremo.
In effetti La Storia dell’alpinismo risente in molti punti di considerazioni strampalate che vorrebbero addossare agli alpinisti una motivazione di natura nevrotica o addirittura sessuale.
Purtroppo Gian Piero Motti imputava agli altri ciò che forse covava nel suo animo. Per esempio, quanto scrisse su Gervasutti forse in realtà descrive la sua personalità. È ciò che rilevò Massimo Mila nella recensione dell’opera.
Ho trovato francamente un po’ imbarazzante la parte in cui viene fatta la psicanalisi dei “puristi” e degli “artificialisti” dando, in sintesi, dei sessualmente imbelli ai primi e dei gran “penetratori” ai secondi. Non so sulla base di quali dati o studi si sia avventurato per formulare quelle teorie, ma avrei preferito non leggerle. Mi hanno rovinato un po’ il ricordo di Motti de “I falliti”.
Infatti…”Maffei, Leoni, Frizzera” definiti da una passata d’ignoranti, “carpentieri” delle Dolomiti, sono stati smentiti….
L’arrampicata artificiale sarà’ sempre smentita dall’ arrampicata libera.
Come sempre, anche stavolta ho amato lo scritto di Gian Piero Motti.
Solo trovo un po’ mirabolante il paragrafo su puristi e artificialisti, che limita una o l’altra propensione alle esperienze vissute, come se noi tutti non arrivassimo con una nostra identità che ci distingue da altri.
“Libertè, egalitè, fraternitè”, ma soprattutto … “libertè” 😉
A chacun sa façon de grimper.
Et heureusement elles ne sont pas identiques.
Concordo sul fatto che sarebbe cmq considerato ma “solo” per le sue imprese (es. il Campanile Basso) e non come ideatore e fautore della sua etica rigorosa che, mi pare, tenda, però, a prevalere in termini di ricordo.
Ma anche lo stesso Tita Piaz.
Io non credo che se Preuss non fosse stato così rigoroso nel rifiuto di certe tecniche e materiali, oggi non sarebbe considerato.
Vedi altri del suo tempo, che a differenza di lui si legarono ben stretti e usarono chiodi e pendoli, sono ancora oggi molto considerati. Uno tra tutti Hans Dulfer che se l’è portato via la guerra, non la montagna.
Tanti oggi Preuss lo citano per mettere in evidenza come NON si deve fare, vista la fine che ha fatto.
Certo che per legarsi con un “nodo particolare” che si scioglie in caso di caduta, bisogna proprio avere una testa particolare … l’etica rigorosa e pura di queste scelte si scontra inevitabilmente con l’ambiente nel quale si svolge “il gioco” dell’alpinismo. E chi prevale di norma … è l’ambiente. Infatti il Preuss, a forza di praticare la sua etica rigorosa, in montagna si è ammazzato. Valeva la pena ? Forse si, considerando che ancora oggi viene ricordato e ammirato mentre se si fosse incanalato nel “mainstream” (come si usa dire oggi) dell’evoluzione dei materiali e delle tecniche, probabilmente nessun contemporaneo se lo filerebbe più. Certo che il prezzo da pagare, per guadagnarsi il ricordo immortale, è stato un po’ altino …
E niente sull’introduzione di mezzi naturali….
Credo che in realtà ciò che conta è sapere accettare che ciò che non ha senso per qualcuno può averne parecchio per qualcun altro.” Ueli Steck
Questo è vero per le vie in artificiale di altri tempi, di chiodo in chiodo. L’artificiale di oggi, è tutta un’altra cosa, è fatto di precarietà, di progressione su ancoraggi che non sono fatti per reggere una caduta. Anzi la caduta dell’arrampicatore va assolutamente evitata perchè porterebbe a delle conseguenze molte serie se non fatali. Progressione lungo il tiro molto lenta perchè ogni ancoraggio va testato prima di salirci sopra e il suo piazzamento richiede parecchio tempo. Ganci, sky hook di varie misure e forme, rivetti, coopperhed di rame o di alluminio, peker, portaledge, big-brog, sono i principali e raffinati, strumenti dell’artificialista moderno. L’arrampicata artificiale di oggi è sicuramente un genere riservato a grandi specialisti, padroni di una grande tecnica nell’uso di questi materiali, di grande autocontrollo e passione per l’adrenalina. Pochi anni fa è uscito un manuale di arrampicata artificiale “Intelligenza Artificiale” autori, Fabio Elli e Diego Pezzoli, due specialisti, dove si trova tutto: materiali tecniche, storia, nomi.