L’ipocrisia del linguaggio inclusivo

L’ipocrisia del linguaggio inclusivo
di Yasmina Pani
(pubblicato in yasminapani.it nel 2022)

Da molto tempo ormai ci sentiamo ripetere quotidianamente che l’italiano è una lingua maschilista, che invisibilizza le donne (recentemente si è cominciato a parlare anche di invisibilizzazione delle persone non binarie). Da questo (che in realtà, a sua volta, deriva da battaglie iniziate dal movimento femminista negli Stati Uniti, che spesso hanno avuto risvolti grotteschi [1]), derivano le linee guida stilate da Alma Sabatini nel suo Il sessismo della lingua italiana del 1986, che ancora circolano ormai ovunque: cercare di evitare il maschile non marcato (di cui ho parlato in questo video e in molti altri) e prediligere le forme doppie (tutte e tutticolleghe e colleghi); promuovere l’uso dei femminili di mestiere; evitare di usare uomo con il significato di essere umani e scegliere invere persona, ecc.

Yasmina Pani

Queste forme, benché decisamente discutibili (sia per la ragione che ha indotto a idearle, sia per gli effetti che si presume producano), sono ormai entrate nell’uso, nella lingua dei media ufficiali (giornali, televisione, radio) e, in parte (molto più limitatamente), nella lingua usata in modo informale. Questo è accaduto anche perché ultimamente è diventato molto popolare l’adagio secondo il quale la lingua è uno strumento per plasmare le menti, e addirittura modificare la struttura della società [2]! Questa, che in linguistica è soltanto un’ipotesi (del tutto screditata dalla comunità scientifica nella sua formulazione più radicale, che è appunto quella che invece sta andando di moda ora), viene presentata come un fatto assodato: dobbiamo fare attenzione alle parole che usiamo (anzi, anche alle strutture morfosintattiche!), perché nel farlo costruiamo una mentalità e una visione del mondo.

Bene: date queste premesse (fallaci), ci aspetteremmo che questo linguaggio, massimamente attento alle distinzioni di genere quando necessarie e, viceversa, a non farle quando potrebbe essere dannoso, si comportasse sempre in questo modo. Insomma ci aspetteremmo che la cosa valesse per tutti: che si usasse sempre la doppia forma; che si mettesse in evidenza ciò che riguarda gli uomini e ciò che invece riguarda le donne, quando i due sessi hanno problemi diversi; e che, al contrario, non si facesse alcuna distinzione di genere quando i problemi sono uguali per tutti.

È facile invece osservare che questo non accade affatto. Esiste un macroscopico doppio standard, che emerge in quelle situazioni nelle quali sarebbe necessario mettere in evidenza il genere maschile, poiché riguardano problemi e sofferenze che colpiscono soprattutto gli uomini. In questo articolo cerco quindi di mettere in evidenza il diverso modo in cui si parla di uomini e donne in base alla convenienza della situazione, e dunque l’ipocrisia di certi battaglieri, che misteriosamente tacciono quando parlare non porterebbe acqua al loro mulino.

Premetto, per chiarezza, che questa non è una ricerca, ma è solo uno spunto di riflessione, partendo da alcuni dati che ovviamente sono incompleti: una ricerca seria si fa consultando corpora estesi e non scegliendo solo gli articoli che ci fanno comodo. Questo lo dico non solo per prevenire chi criticherà la mia metodologia dimenticandosi che questo non è un articolo scientifico o un libro, ma soprattutto per ricordarvi, anche se già lo dissi quando recensii il libro di Michela Murgia, di fare molta attenzione quando leggete certi libri che commentano il linguaggio giornalistico: attenzione a quanti articoli menzionano e attenzione alla presenza o meno di una spiegazione sui corpora a cui hanno attinto e in che modo. Io evidentemente non mi metterò qui a fare questo, perché di ricerca ne sto facendo un’altra [3], ma voglio qui solo evidenziare alcune incongruenze e ipocrisie che incontestabilmente esistono e che tutti ignorano accuratamente. 

Partiamo dall’argomento nel quale questo è più evidente: i morti sul lavoro. Le percentuali in questo ambito parlano chiaro: si tratta di un problema maschile. Infatti, i morti sul lavoro sono per il 90% uomini [4]. Tuttavia questo non è un dato che si reperisce facilmente: digitando su Google “morti sul lavoro”, troverete solo articoli che parlano in modo generico di “lavoratori” (molto raramente troverete la doppia forma “lavoratori e lavoratrici”: questo come dobbiamo interpretarlo? È un normale maschile non marcato o questi morti sono tutti uomini?), senza menzionare le differenze di genere.

Ma la cosa più divertente è che se, invece, cercate “morti sul lavoro uomini”, non solo non troverete nessun titolo che menzioni questa percentuale sconvolgente, ma addirittura troverete articoli che parlano delle donne morte sul lavoro [5]! Insomma, per scoprire che gli uomini sono la stragrande maggioranza dei morti sul lavoro – e che quindi questo è un problema di genere – bisogna evincerlo in negativo: cioè dagli articoli che menzionano quel 10% di donne morte sul lavoro. Sembra uno scherzo, ma esistono davvero [6], e alcuni di questi si trovano proprio nella prima pagina dei risultati per la ricerca “morti sul lavoro uomini”.

Qualsiasi persona dotata di un minimo di logica capirebbe che è assurdo dedicare articoli alla minoranza che muore invece che alla maggioranza: sarebbe come se, dinanzi a una situazione in cui a essere vittime di bullismo sono per il 90% bambini di provenienza estera, venissero scritti articoli per parlare del 10% di bambini figli di genitori italiani vittime di bullismo [7]. Possiamo tutti immaginare le reazioni di quella stessa area politica e sociale che, senza accorgersi della sua spettacolare ipocrisia, scrive questi articoli sulle donne morte sul lavoro.

Tuttavia questo non è solo un problema di logica e di intelligenza, ma è anche un problema linguistico: cioè riguarda il modo in cui vengono formulate le notizie. Gli attivisti femministi e gli amanti del linguaggio inclusivo non fanno che dire che il linguaggio è fondamentale: che dire dunque di un linguaggio di questo tipo? Un linguaggio evidentemente mistificatorio, che pone l’attenzione su una minima porzione delle vittime, distogliendola quindi dal genere che è maggiormente colpito da questa piaga sociale.

Non trovate che sia curioso? È obbligatorio che una donna venga chiamata architettasindacaassessora, insomma che il suo genere venga evidenziato, anche quando ha evidentemente già ottenuto una condizione sociale tale da permetterle una certa parità con l’uomo; ma non è obbligatorio, anzi pare assurdo, che si metta in evidenza il genere quando a morire (e quindi a subire non solo una condizione di disparità ma letteralmente a rimetterci la vita) sono principalmente gli uomini.

Dunque il linguaggio è importante solo quando fa comodo a noi. Così come il patriarcato è malvagio solo quando fa comodo a noi, ed è chiaro che le due cose sono strettamente connesse, in questa grande pagliacciata che è la rivoluzione linguistica contro il maschilismo. È inevitabile osservarlo in questo momento, in cui la maggioranza delle notizie, ogni giorno, riguarda la guerra. La faziosità con la quale si parla di uomini e donne in questo contesto sarebbe sbalorditiva, se non fosse in realtà perfettamente in linea con l’ipocrisia oggetto di questo articolo.

Partiamo dal fatto che dall’Ucraina arrivano, in tutta Europa, profughi che per lo più appartengono alle categorie donne, bambini e anziani. Giustamente, di queste persone si parla tanto, anche perché è necessario un piano per accoglierle. Tuttavia, ben più di rado leggiamo le storie di coloro che in Ucraina sono rimasti: cioè coloro che sono costretti a combattere, e non hanno avuto la possibilità di lasciare il Paese. Chi sono costoro se non gli uomini? E non sono forse costoro a soffrire maggiormente, dato che combattono, mentre i loro parenti e amici (o meglio: le loro parenti e amiche!) hanno potuto almeno scappare [8]?

Anche in questo caso, sono interessanti le ricerche su Google: cercando “guerra in Ucraina vittime” si trovano articoli che rispettano la regola dell’inclusività di genere, e quindi si parla genericamente di “morti” (maledetto maschile non marcato!) e “vittime”, senza menzionare le percentuali in relazione al sesso, sebbene anche qui, probabilmente, una bella disparità ci sia.

Cercando “guerra in Ucraina uomini” notiamo un fenomeno interessante: la parola “uomini” viene usata come sinonimo di “soldati” [9]. Secondo l’ipotesi del determinismo linguistico potremmo scrivere interi trattati su questo! Ma naturalmente, questa sinonimia viene data per scontata e non disturba nessuno. Comunque, gli articoli che compaiono sono per lo più di “normalissime” notizie sulla quantità di soldati caduti o sulle strategie messe in campo dalle due nazioni.

Proviamo a cercare invece “guerra in Ucraina donne”: per prima cosa compaiono delle notizie riguardanti degli stupri che sarebbero stati commessi da russi ai danni di donne ucraine. Subito dopo però abbiamo titoli come “Guerra in Ucraina: le donne russe che hanno espresso dissenso” [10] o “Volti e racconti delle donne costrette a lasciare l’Ucraina” [11], o “Tutte le donne icona della guerra russo-ucraina” [12], o ancora “Guerra e Ucraina 8 marzo: il messaggio delle donne al fronte” (la piaga sociale che è l’8 marzo non manca di colpirci anche in tempi così drammatici), o addirittura – il migliore! – “I tavoli di guerra, dove le donne non ci sono” [13].

Gli esempi tratti da Google rispecchiano perfettamente il tipo di linguaggio usato anche sui social media, in televisione e in radio: in sostanza, quando si tratta di uomini non abbiamo storie di “persone”, di “individui”, di “esseri umani”, ma per lo più pedine su una scacchiera, evidentemente sacrificabili. Quando si tratta di donne, invece, abbiamo storie strappalacrime, esempi di fulgido coraggio (si veda questo su tutti, davvero così ridicolo da essere delizioso) che evidentemente mancano tra le migliaia di uomini ammazzati dai fucili e dalle mitraglie.

Tutto questo ci riporta al grande classico dei tempi di guerra: il motto “prima le donne e i bambini”. Motto che dovrebbe essere visto dai femministi come un oltraggio, esempio trasparente della cultura patriarcale che vede la donna come più debole! Eppure, siamo circondati e assordati da un plateale silenzio. Sono persino andata a controllare le pagine Facebook delle maggiori associazioni e personalità femministe d’Italia, per vedere se avessero scritto qualcosa su questo, insomma sul fatto che le donne e gli uomini sono uguali, che ne so: invece no, sono stata purtroppo sotterrata da una pletora di fotografie delle manifestazioni sull’8 marzo (per il quale vale quanto detto sopra), ricche di cartelloni alquanto disturbanti o, nei migliori dei casi, arlecchineschi, nessuno dei quali però menzionava niente del genere. Anzi, semmai l’andazzo era “il femminismo non ha mai ucciso nessuno”, “le donne non fanno la guerra” e altre amenità simili. Parrebbe dunque che la disparità tra uomo e donna sia accettabile, quando ha come conseguenza la salvezza di queste ultime.

Inutile dire che su questo tacciono anche le associazioni LGBT, che pure potrebbero domandarsi se tra quei soldati ci sia qualche omosessuale, che quindi forse, secondo il loro criterio, meriterebbe una menzione speciale.


Note
[1] Pensiamo al pensiamo alla battaglia per trasformare mankind in humankind, ignorando che il man di quella parola non sia “uomo” bensì un termine del germanico comune, ancora esistente in tedesco, che significa genericamente “essere umano” e che ha infatti valore di indefinito.

[2] Ho parlato in questo articolo dell’ipotesi Sapir-Whorf e in questo di come essa viene applicata al genere grammaticale.

[3] Una ricerca riguardante lo schwa.

[4] Si vedano i bollettini pubblicati ogni trimestre dall’Inail: https://www.inail.it/cs/internet/comunicazione/pubblicazioni/bollettino-trimestrale-inail.html

[5] Questo è attualmente il primo risultato: https://www.lmconsultingsnc.it/blog/morti-sul-lavoro-le-percentuali-di-uomini-e-donne-in-italia/

[6] Questo è attualmente il secondo risultato: https://www.vegaengineering.com/comunicati/morti-sul-lavoro-quasi-100-decessi-al-mese-e-il-10-sono-donne/

[7] Sto completamente inventando, non ho idea di quali siano le percentuali sul bullismo, e non è evidentemente questo il punto della questione.

[8] So bene che ci sono anche donne che sono rimaste a combattere così come uomini che sono riusciti a scappare, ma direi che vale quanto detto sopra circa i morti sul lavoro.

[9] Per es.: “Russia a corto di uomini e tattiche” (https://www.corriere.it/esteri/22_marzo_16/aggiornamento-militare-guerra-ucraina-putin-sta-cercando-via-d-uscita-82a3d2aa-a532-11ec-8f73-d81a6d7583fb.shtml)

[10] https://tg24.sky.it/mondo/2022/03/20/guerra-ucraina-donne-russe-dissenso

[11] https://www.rainews.it/photogallery/2022/03/volti-e-racconti-delle-donne-costrette-a-lasciare-lucraina-611882c2-bb78-41f0-bfbc-38b8d6a3863f.html

[12] https://www.iodonna.it/attualita/storie-e-reportage/2022/03/16/dalla-reporter-russa-contro-putin-alla-bambina-col-fucile-e-il-lecca-lecca-tutte-le-icone-della-guerra/

[13] https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/guerra-russia-ucraina-le-donne-non-ci-sono-a-decidere-ma-la-subiscono

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L’ipocrisia del linguaggio inclusivo ultima modifica: 2023-02-19T04:34:00+01:00 da GognaBlog

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25 pensieri su “L’ipocrisia del linguaggio inclusivo”

  1. MG al #23: sono completamente d’accordo con te.
    Al mio commento #19, non avendo competenze sufficienti per controbattere l’esimio etologo torinese, mi accontentavo di notare che quand’anche la natura fosse “matrigna” (cosa che, ribadisco, NON credo assolutamente) sarebbe comunque molto “comodo” (leggasi meschino) nascondersi dietro quel paravento per giustificare o, peggio, legittimare tutte le disparità/ingiustizie che ben conosciamo.
    Ciao

  2. Crovella al #21 (il commento risale a quasi un anno fa, ma le cazzate non invecchiano)

    Nella nostra società occidentale ed evoluta quelle a carico del genere femminile (ndr: si parla di disparità, ingiustizie, squilibri) sono ormai così esili che fa ridere parlarne.

    Se non per decenza, almeno per onestà intellettuale lascerei che a dirlo fossero le donne.

  3. @crovella “Non sono un linguista.”
    @placido “Trovo poi che sia quanto meno opportunista (eufemismo) chiamare in causa la “natura matrigna” per giustificare, quando non addirittura legittimare, le disparità, le discriminazioni, i pregiudizi, i privilegi che permeano la nostra società.”
    non entro nel tema che non mi appassiona per nulla. trovo orripilanti e poco sensate le forme femminili di determinati sostantivi, ma se a qualcuna piace o fa sentire meglio farsi chiamare avvocata o ingenera, lo faccia.
    Trovo invece desolanti alcune storture che vanno prendendo piede come la schwa
    Rilevo tuttavia che “more solito”  chi premette  non sono un linguista sparge poi  carrettate di ignoranza becera su ogni tema, passando per postulato ogni idea balzana (rectius malsana) che attraversa quella scatola cranica: sostenere che la natura non sia inclusiva e legittimi talune condotte che sarebbero per l’appunto connaturate alla stessa esistenza della vita sul pianeta è una scemenza colossale (che fa il paio con le scempiaggini giuridico sociali scritte  sulla questione della pista da bob  di cortina, dove si identifica democrazia con dura lex sed lex e via di questo passo e non si distingue la legittimità giuridica di un atto  dalla sua inopportunità sociale, oltre a scrivere una nutrita serie di panzane sulle impugnative di atti).
    Invece  la natura ha esempi di inclusività e socialità (che a mio avviso attengono alla sostanza e non certo alla desinenza la femminile) che sono assai più elevati della beceraggine umana (di cui uno che dice di cancellare una professionista perché si fa chiamare ingegnera è un ottimo esempio): i lupi hanno una struttura sociale e di accudimento assai  inclusiva e che l’uomo si sogna, le leonesse accudiscono i figli collettivamente (e non credo si pongano il problema del nome al maschile o al femminile), lo stesso fanno  molti anatidi , e così molti primati hanno strutture sociali assai elaborate e complesse anche sotto il profilo della inclusività, per non parlare delle api o delle termiti, mentre non si contano esempi di solidarietà rispetto e talvolta  soccorso  interazziale.
    un bellissimo libro su tali temi è “la saggezza dei lupi” di Radinger.
    Prima di dar fiato alle trombe, dovendo sempre dir la propria senza sapere di cosa si parla, spaziando dalla criogenesi  all’ingegneria spaziale  al diritto nelle sue diverse declinazioni (par di capire con predilezione del costituzionale, accingendosi a riformare addirittura la carta)  sino alla immunologia,  integrando ogni volta il teorema di Umberto Eco , sarebbe buona cosa documentarsi (ammesso che se ne sia in grado) e – quasi sempre – tacere,  evitando  di scrivere scemenze su temi che non ci appartengono e sui quali si dimostra ogni volta di ignorare i fondamentali. Sarebbe già un ottimo punto di partenza.
    Solo gli stolti hanno sempre la verità in tasca.  
     

  4. ———  LA  SAI  L’ULTIMA?  ———
    Secondo quanto riferisce l’autorevole rivista Nature, alcuni paleontologi hanno chiesto una revisione dei nomi affibbiati ai dinosauri. L’intenzione è di introdurre un sistema che permetta una nomenclatura “più inclusiva”.
    Ora si stanno esaminando i nomi di tutti i dinosauri cercando di scoprire se, nelle scelte, vi sia stato sessismo rettiliano. Ciò, comunque, è pressoché certo, in quanto i nomi usati sono maschili all’87%.
     
    Dal Tyrannosauro Rex si passerà dunque a una Tyrannosaura Queen? 
    E i poveri Tyrannosaur* transessuali? Nessuno pensa a loro?
     
    P.S. Questa notizia è talmente demenziale che mi sembra un pesce d’aprile arrivato in anticipo. Qualcuno può smentirla? O l’essere umano è già rimbecillito a tal punto?
     

  5. Come ho argomentato nel commento 8, le disparità, le ingiustizie, gli squilibri fannino parte della vita e della Natura, per cui sempre ci saranno. Nella nostra società occidentale ed evoluta quelle a carico del genere femminile sono ormai così esili che fa ridere parlarne. Anzi fra un po’ dovremo preoccuparci di tutelare il genere maschile…
     
    In ogni caso non è il terreno della lingua quello da cui si possono ottenere i cambiamenti profondi di mrntalita e quindi nei comportamenti sociali. Questi ultimi derivano da evoluzioni culturali che a loro volta si concretizzano con i cambi generazionali: i figli hanno una mentalità diversa dai padri.
     
    Imporre modifiche nel linguaggio è obiettivo davvero poco intelligente. Non per la difesa della purezza della lingua, ma proprio per il risvolto sostanziale. Infatti se viene imposto di dire “persona di colore” al posto di “negro”, non è detto che tutti elaborino in cuor loro il concetto sostanziale. Anzi ci sarà qualcuno che, stizzito dall’imposizione linguistica, sara’ maggiormente spinti a direirà a voce “persona di colore” e invece, silenziosamente, penserà addirittura “sporco negro”, anziché limitarsi al semplice “negro” che avrebbe detto senza imposizioni.
    Sostituite, al colore della pelle, il genere e il parallelismo è bello che fatto.
    Per cui chi è veramente interessato ai cambiamenti profondi nella mentalità dovrebbe addirittura dimenticarsi della cosiddetta battaglia linguistica. Quest’ultima si limita alla superficie, è cosa ipocrita e da superficiali.

  6. Si può ovviamente discutere della praticità, dell’efficacia, della forma, dell’uso, ecc. di un linguaggio (più) inclusivo, sperabilmente cercando di evitare che la discussione diventi un semplice pretesto per negare, sminuire, irridere le istanze di chi di quel linguaggio sente l’esigenza.
    Personalmente trovo che la “purezza della lingua” sia una scusa risibile.
    Trovo poi che sia quanto meno opportunista (eufemismo) chiamare in causa la “natura matrigna” per giustificare, quando non addirittura legittimare, le disparità, le discriminazioni, i pregiudizi, i privilegi che permeano la nostra società.

  7. @16 Agisco così sulla base dell’esperienza da imprenditore. Per esempio il titolate di un  ristorante sa perfettamente cosa devono fare i suoi collaboratori in ogni loro compito. Il cuoco deve fare quello, il cameriere quell’altro, il lavapiatti quell’altro ancora. E con quale livello qualitativo: basta guardare l’output.  Quando ciascuno di costoro svolge il suo compito, il titolare vede al volo se lo fa bene o male. Se il titolare non capisce al volo la qualità dell’output dei suoi collaboratori, allora è lui l’incapace.
    Da imprenditore, dopo decenni di attivita’, so cosa dece fare, nella fattispecie, un ingegnere in una ogni situazione di progetti imprenditoriali che mi coinvolgono. Le altre caratteristiche personali  come essere sveglii, preciso, duttile ecc scc ecc ono altrettanto importanti ai miei occhi e compongono il quadro sul quale formo la mia valutazione. In genere uno tecnicamente capace è anche tutto il resto e viceversa. Cmq ma me piacciono quelli che sono contemporaneamente capaci e anche il resto. Vale per ingegneri,per avvocati, per notai, per commercialista eccecc, tutte figure professionali che, nei diversi ruoli, coinvolgo nella mia attività.
     
    @17. Non sono un linguista. Sei tu che non hai afferrato il senso del mio ragionamento. Peraltro ti capita sempre così. Io non sono interessato a cosa prevedono le norme della  linguistica. Io ho sempre detto certe cose in un certo modo e mi ribello al fatto che mi si possa imporre di cambiare termini. Per es go sempre detto “ingegnete”anche quando mi rivolgo a una donna. Non mi pongo minimamente il problema se sia politicamente corretto o meno. Continuero’ cosi e del politicamente corretto me ne sbatto alla grandissima. Tanto se una donna è sveglia, se ne sbatte anche lei e continuiamo a lavorare con reciproca soddisfazione. Se invece iniziano a emergere divergenze fin fa cose marginali come la terminologia quando ci rivolgiamo l’un l’altra, vuol dire che non c’è sinergia fra di noi, quindi costei non è utile per le mie esigenze. Ovviamente se ci sono di mezzo dei contratti non è che li risolvo per differenze di vendite sulla terminologia (devono esserci motivi più serie più gravi). Ma difficilmente ricoinvolgero’ di nuovo un individuo con cui non vado perfettamente d’accordo. Questo è un approccio che seguo indistintamente con qualsiasi controparte, che sia maschio o femmina non rileva in nessun modo. Diciamo infine che dopo quasi 40 anni di lavoro, ho un’esperienza tale per cui è molto raro che io coinvolga un collaboratore “sbagliato”. Inoltre ho già i miei fornitori consolidati, per cui è ulteriormente raro che io debba andare a scegliere fornitori nuovi. Però ogni tanto capita e se ho di fronte una donna la tratto senza differenze, cime se fosse un uomo. Questa è la vera parità.

  8. Se io arrivo a giudicare un ingegnere “non capace”
    Mi piacerebbe proprio sapere come potresti mai giudicare tu un ingegnere “incapace”.
    Fesso, magari, antipatico, non dubito…ma incapace? Tu?!
     
    Quanto al genere, dio non va mai qualificato per genere, ma solo con appositi sostantivi che lo sostanzino.

  9. Senza nessuna acredine né prevenzione verso individui come Gionti, spero che il mondo NON diventi MAI come lo desiderano loro. Lo stesso vale per il linguaggio, sia scritto sia di uso spicciolo e colloquiale.
     
    Per questioni di lavoro io ho a che fare abbastanza frequenemrnte con ingegneri. Sempre più spesso sono donne: accipicchia se sono in gamba! Ma io mi rivolgo sempre dicendolo “ingegnere” anche se è una donna. Se c’è un gruppo, dico sempre “signori ingegneri”, anche se nel gruppo ci sono donne. Sulla base della mia esperienza, che non è certo totalizzante per analizzare l’umanita’ nel suo complesso, ma si articola su decenni di lavoro (fra poco sono 40 anni), non ho mai, dico MAI, conosciuto una donna, capace nel suo lavoro, che esigesse di farsi chismare “ingegnera”, “avvocata/avvocatessa”, “presidentessa” ecc ecc ecc.
     
    Come reagirei se una donna pretendesse di farsi chiamare da me “ingegnera”? Semplice: lì per li non starei a fare questioni (in genere nelle riunioni di lavoro ci son già troppe grane in ballo…), ma nella  mia  testa mentalmente tirerei una riga sopra il suo nome. Non la coinvolgerei più in mie attività.
     
     
    Ribadisco: una donna deve sapersi far apprezzare perché è capace, non perché è donna. Se è capace, non ha bisogno di assistenza terminologica (“ingegnera”, ecc). Se cerca/esige tale assistenza terminologica, significa che e lei la prima che non si considera capace. Se io arrivo a giudicare un ingegnere (che sia maschio o femmina non importa) “non capace”, io cerco un altro ingegnere. Lo stesso vale per avvocati, commercialisti, notai, ma anche per i miei collaboratori diretti, giovani di studio ecc. Così deve girare il.mondo e io verifico che le donne capaci sono le prime a voler che le si tratti cosi come ho raccontato. Questa è la vera parità, nella vita come nel linguaggio.

  10. Con menzione sia del genere femminile che maschile:
    “Care mediche e guide alpine e cari medici e guidi alpini, oggi tutte voi e tutti voi sarete impegnate e impegnati in un salvataggio che richiederà le competenze di ciascuna e di ciascuno. Sarete depositate e depositati dall’elicottero sulla cima e poi tutte e tutti scenderete in corda doppia fino alla cordata in pericolo. Trattasi di un’alpinista incrodata e di un alpinista incrodato sulla Via degli Amici (e delle Amiche). Ognuno dovrà dare il massimo come soccorritore e ognuna come soccorritrice. Se riusciremo a salvarli, ciascuno di voi e ciascuna di voi sarà premiato e sarà premiata”.
     
    Domanda: che succede se qualcuno dei soccorritori non si sente né maschio né femmina?
     
    … … …
    Col genere neutro:
    “Caru medicu e caru guidu alpinu, oggi tuttə voi sarete impegnatə in un salvataggio che richiederà le competenze di ciascunə. Sarete depositatə dall’elicottero sulla cima e poi tuttə scenderete in corda doppia fino alla cordata in pericolo. Trattasi di due alpinistə incrodatə sulla Via du Amicu. Ognunə dovrà dare il massimo come soccorritoru. Se riusciremo a salvarli, ciascunə di voi sarà premiatə”.
     
    P.S. Spero di non aver fatto errori di Nuova Ortografia.

  11. A Fabio Bertoncelli commento 12
    Fabio non siamo, come forse puoi intuire, d’accordo su moltissimi aspetti ma l’unico che mi sta a cuore è quello del maschile neutro.
    Il maschile neutro è maschile.
    Non include le donne.
    Se in un’aula ci sono 9 studentesse e un solo studente e l’insegnante si rivolge a loro dicendo “ragazzi” in quel momento tutte le studentesse scompaiono, smettono di esistere ed essere rappresentate nel linguaggio.
    Poi anche io tante volte per brevità – e perchè a seconda dell’interlocutore penso che non capirebbe uno sforzo inclusivo – dico “tutti”. Ma non è una cosa buona, che produca effetti positivi.

  12. Alessandra, c’e stato un equivoco: io accetto “ingegnera”, “la presidente” (meglio di presidentessa), “sindaca”, “assessora”, “ministra”, “segretaria” (nell’accezione di segretaria di Stato), “soldata” (meglio di soldatessa), “avvocata”. Non mi sono ancora abituato ad “architetta”. “Medica” non esiste ancora.
     
    Ti domando: ritieni corretto che si debba parlare di “sentinella”, “vedetta”, “guardia carceraria”, “guardia giurata”, “guida alpina”, quando nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di maschi?
     
    Difendo il maschile non marcato, altrimenti detto maschile neutro. Per esempio, quando dico “Buonasera a tutti” è ovvio che mi riferisco a tutte le persone presenti, siano esse maschi, femmine, transessuali o che altro. È una questione di brevità; in caso contrario il linguaggio diventerebbe ampolloso e prolisso.
     
    Ciò che invece detesto o trovo ingiusto è quanto segue:
    1) Il comune in cui sono nato e vivo (Castelfranco Emilia, Modena) ha deciso qualche mese fa di adottare la schevà nelle sue pagine sociali. È il primo caso in Italia.
    2) “Genitore 1” e “genitore 2”: pazzesco!
    3) Che si debba discutere se nelle preghiere sia corretto o no usare il genere maschile nel rivolgersi a Dio.
    4) Che in guerra i maschi debbano combattere in prima linea e le femmine no (vedi per esempio l’Ucraina).
    5) Che le donne possano andare in pensione prima dei maschi.
    6) Eccetera eccetera.
     
    Spero di essere stato chiaro.

  13. @9 Io personalmente ho una visione “dura” dell’esistenza e sono convintissimo che, alla fin fine, siano le regole della natura che dominano davvero su tutto il resto (non è estranea a questa mia convinzione la parallela convinzione che la montagna è scuola di vita: se in montagna vai alla caxxo, ci resti secco). Però non mi dilungo che questa altre tema  ci distrae rispetto al punto di specie, ma dico solo che  non sono allineato a quanto hai scritto.
     
    Torniamo sul pezzo: vogliamo dare una pennellata di buonismo a tutta la vita? E’ proprio lì il punto chiave, sul significato “vero” che attribuiamo a questa invenzione artificiale che è il concetto d’inclusione. Il significato “morale” del termine. Dici che dobbiamo comportarci in modo più “umano” di quanto farebbe la natura rispetto, per esempio, ai disabili?Concordo, non credere. Ma è lì che vengono al pettine le lamentela delle Gionti di turno. Case signore avete bisogno di un trattamento di favore? Allora voi stesse vi ponete in una categoria “da proteggere”. Invece volete essere stimate per le vostre effettive doti, capacità, intelligenza? Se è così, non avete bisogno di “protezioni”, meno che mai di questioni fatue come i termini al femminile.  Bastano le vostre capacità oggettive per farvi apprezzare.
     
    L’impressione è che la Gionti della situazione (sia chiaro: io non ho nessun conto aperto con lei, non la conosco neppure, la prendo solo come esempio, NdR) preferisca che uno le dica “ingegnera” pur sapendo lei per prima che gli interlocutori la disprezzano come una frignoga, piuttosto che conquistarsi l’oggettiva stima degli astanti, stima che arriverà proprio quando gli astanti si rivolgeranno a lei dandole dell’ingegnere come se fosse un uomo.
     
    Quando io stimo una donna (e, ripeto, sono tantissime le donne che godono della mia stima oggettiva, in numero crescente da decenni, mentre sono sempre meno i maschi che io stimo), dicevo quando io stimo una donna, NON la tratto diversamente da come la tratterei se fosse un uomo: questa qui (quella che seguo io) è la “vera” parità. La cosiddetta parità che cercano le varie Gionti non è vera parità: è solo ipocrisia, lamentele, desiderio di attirare l’attenzione su di sé. Alla fin fine è proprio nella loro stolta battaglia che si annida la differenziazione a loro scapito. Se non lo capiscono, si scaveranno la terra sotto ai piedi.

  14. Per Fabio Bertoncelli al commento 9
    Fabio, quello che tu trovi demenziale per me racchiude il racconto di tutta la mia vita.
    Per me potermi definire ingegnera è una conquista bellissima.
    Significa potermi identificare con la mia professione, che esercito con competenza e autorevolezza, e allo stesso tempo rivendicare con orgoglio che sono una donna.
    Che anche una donna può lavorare nell’ingegneria con risultati eccellenti.
    Ti sembrerà superfluo ma per me che mi sento dire sul lavoro frasi come “non riesco a parlare con una donna di simulazioni agli elementi finiti” – sottintendendo che quando ci parla quell’uomo riesce a vedere quella donna solo come oggetto sessuale – capisci bene che nulla è scontato.
    Per tanto tempo ho rifiutato il mio essere donna. Già da bambina intuivo che l’essere donna mi avrebbe condannata a umiliazioni e mi avrebbe precluso opportunità.
    E così in effetti è stato.
    Potrei raccontarne mille, dal colloquio in cui mi hanno chiesto se avevo un collega bravo come me, che sapesse le lingue come me ma “maschietto” perché nell’ufficio per cui mi ero candidata donne non ne volevano.
    Oppure il capo che mi disse che non mi avrebbe mai portata in viaggio di lavoro perché la moglie non glielo avrebbe permesso. E poi in viaggio di lavoro, sui cantieri, in Europa e fuori Europa, ci sono andata, da sola.
    O quello che a un altro colloquio mi ha detto che le donne poi restano incinte per cui avrebbe dato parere negativo per la mia assunzione.
    Ma davvero potrei raccontarne molte molte altre.
    Ci ho messo molto tempo a far pace col fatto di essere nata donna, a sentirmi anzi felice e orgogliosa di essere donna.
    E di essere una donna che lavora nell’ingegneria e si distingue nonostante tutti gli ostacoli addizionali che l’essere donna comporta.
    Quello che a te sembra demenziale per me e tante donne come me racchiude un universo di significati.

  15. Carlo, la natura seleziona in modo drastico e crudele.
    Tuttavia spetta alla specie umana, se vuole distinguersi dalle belve, non selezionare allo stesso modo. Per esempio, bisogna includere i disabili nella vita sociale e, ancor prima, assicurarne la sopravvivenza fisica, il che nei secoli e millenni passati riusciva inconcepibile.
     
    Però anch’io considero demenziale l’«inclusione» cosí come concepita dal “politicamente corretto” (espressione presuntuosa che detesto).
    Si tratta solo di intendersi sul significato che attribuiamo alle parole.

  16. E’ opportuno mettere un punto fermo. La vita in sé, la Natura, l’esistenza, non è “inclusiva”. Un leopardo sopravvive se uccide la gazzella, non se fa convivialità con essa, invitandola per un tè “inclusivo”. La gazzella vive se mangia (e quindi “uccide”) l’erba e i germogli dei rari alberelli della savana. E così via. Poi anche chi sta in vetta alla catena alimentare a un certo punto termina la sua esistenza, il cadavere viene smembrato dagli elementi della natura (vento, sole, oppure altri animali – es avvoltoi – fino ai batteri), diventa “cibo” per la terra e quindi andrà ad alimentare nuove piante, ovvero nuove gazzelle (che si cibano delle nuove piante), ovvero nuovi leopardi (che si cibano delle nuove gazzelle). Il ciclo è perenne, ed è questa la “magia” della vita, dell’esistenza, della Natura.
     
    Che c’entra tutto ciò con il tema del linguaggio inclusivo/esclusivo? C’entra, c’entra, solo gli stolti non lo focalizzano (o quelli in malafede).
     
    Dunque abbiamo detto che l’esistenza è “esclusivista”, cioè tende ad escludere, non a includere. L’inclusione è solo un’invenzione umana, un concetto astratto che in natura non esiste. E’ aria fritta, che ai livelli cui è giunta (nella società del politically correct) produce solo scocciature se non addirittura danni alla quotidianità dei singoli individui.
     
    Se l’inclusivitàà come concetto è roba astratta, inventata e senza fondamento oggettivo, di conseguenza  il linguaggio inclusivo è a sua volta cosa astratta che non ha fondamento nella realtà oggettiva.
     
    Io non sento il bisogno di dire “ingegnera” per esprimere considerazione positiva verso una donna. Se la donna è oggettivamente brava, capace, intelligente e preparata (e ne conosco tante, anzi tantissime!), certo che la stimo, ma la stimo come persona, non  perché donna e quindi non è necessario chiamarla “ingegnera”.
     
    All’opposto se una donna è incapace, ignorante (nel senso che ignora le nozioni della sua profesione), poco sveglia, ecc ecc ecc, non la stimo proprio. Non la stimo come persona, non perché donna. In quel caso, se io mi rivolgessi a lei con il titolo di “ingegnera” lo farei solo per piaggeria ipocrita (non sono ipocrita e quindi non seguo queste abitudini). Quindi il linguaggio cosiddetto inclusivo è solo ipocrisia allo stato puro. Obbligo falso e artificiale che tenderebbe a imporre la visione del politically correct.
     
    Le donne che sanno conquistarsi uno spazio nel mondo non solo NON richiedono il linguaggio inclusivo, ma addirittura lo respingono. Moltissime donne che conosco e che occupano posizioni di rilievo (nella vita professionale, culturale, politica, ma anche all’interno del CAI) ESIGONO che le si chiami “direttore” e NON “direttrice”. Per questioni di riservatezza non faccio qui nomi e cognomi, ma di donne così potrei stilare un elenco che riempie dieci pagine del Blog. Cito un caso pubblico: Giorgia Meloni sui fa chiamare il Presidente del Consiglio, non la Presidentessa del Consiglio.
    La conclusione del ragionamento è che le donne che invocano il linguaggio “inclusivo” lo fanno solo per coprire proprie magagne esistenziali. Anziché battere su questo punto (che, tanto, con maschi della vecchia scuola non ci cavate niente…), smettetela di frignare, tiratevi su le maniche e conquistare anche voi il “diritto” di esigere che vi si chiami, con rispetto oggettivo, “direttore”, “presidente”, “ingegnere” ecc.
     
    Non volete farlo? Preferite proseguire in questa stolta battaglia sul linguaggio inclusivo e sui collaterali che essa comporta? Ma per carità, liberissime di optare per la scelta, “comodosa” e ipocrita, di pretendere l’inclusività. Però, così facendo, non otterrete davvero la stima che state cercando, e anzi si consoliderà maggiormente la disistima che l’universo intero (maschi quasi tutti + le donne “capaci)” nutre delle donne che frignano per il linguaggio inclusivo. A insistere con queste pretese, vi date solo la zappa sui piedi.
     

  17. Mi sono presa un poco di tempo per valutare se intervenire o meno in risposta a questo articolo. Nei giorni successivi a quando Alessandro ha pubblicato il mio contributo sulla Commissione Uguaglianza di genere tornavo a controllare se c’erano commenti a cui rispondere e ho visto questo articolo e il piccolo dibattito che ha scatenato.Prima di tutto osservo – in modo scollegato dal tema specifico – che una modalità comunicativa che giudica chi la pensa in un certo modo oppure che classifica come stupida una certa idea è di per sè una modalità intollerante ed escludente, poichè implica che chi sta comunicando ritiene se stesso metro di correttezza di pensiero e tutto quanto esula dal proprio pensiero è bollato come indegno di rappresentazione. Quindi chi la pensasse in modo contrario dovrebbe prima superare questo scoglio di provare a tirarsi fuori da questo ghetto degli stupidi. Questa cosa può generare vari tipi di reazioni, c’è chi può rispondere con altrettanta aggressività del tipo “no guarda che quelle che dici/scrivi tu sono sciocchezze” ed è a quel punto una escalation di aggressività. Oppure c’è chi potrà rinunciare del tutto a esprimere un pensiero contrario, non volendo appunto farsi carico di esprimerlo senza prima essersi difeso dall’accusa di essere stupido per il solo fatto di pensare in un certo modo. È una modalità quindi che non produce nulla di buono ai fini del confronto e presuppone che ci sia una sola visione del mondo possibile e giusta. È una modalità intollerante ed escludente in sintesi, come scrivevo in apertura.Ora mi rivolgo in particolare ad Agnese che ha scritto che il linguaggio inclusivo è ridicolo. Questa cosa a me sembra nello specifico particolarmente spiacevole perché implica la pretesa che quello di cui non sente lei esigenza per se stessa, non abbia senso in assoluto rivendicarlo. Ecco, io non sono una intransigente del linguaggio inclusivo, mi piace definirmi ingegnera ma se qualcuno si riferisce a me come ingegnere non ne faccio un dramma e non ho nessun problema ad utilizzare la forma maschile per le donne che lo preferiscono. Credo che ogni persona dovrebbe poter idealmente decidere come preferisce essere definita. Quello che trovo spiacevole tuttavia nel ragionamento di Agnese è implicare che se ci sono donne che preferiscono che sia usata la forma femminile questa esigenza non abbia senso. Agnese per me va benissimo che tu non senta per te stessa questa esigenza, ma, mi chiedo, come fai a presumere che se altre donne lo ritengono invece importante non se ne debba tenere conto e lo si debba considerare “ridicolo”?A me sembra come ti dicevo spiacevole questa pretesa che ciò che una singola persona non ritiene importante per sè non debba essere importante per nessuno.Magari tu sarai a tuo agio quando si useranno forme maschili per riferirsi a te e va bene, ma perché mi chiedo senti il bisogno di sminuire (definendo il linguaggio di genere “ridicolo”) una esigenza diversa di altre donne che possono avere motivazioni e percorsi diversi dal tuo?

  18. Il linguaggio inclusivo è ridicolo. Oltre a spezzare il ritmo del pensiero espresso e a essere estremamente noioso non ha alcuna utilità pratica. Non basta riempirsene la bocca per smettere di discriminare le donne in tutti quei contesti in cui lo sono ancora. Certo, la discriminazione non va mai fatta, e occorre evitarla anche in senso opposto; ma nei confronti degli uomini (termine da non intendersi in senso generico) è evidentemente molto più contenuta e ha molte meno ripercussioni.
    È vero in guerra muoiono, in genere, più uomini che donne. È anche vero che le guerre, in genere, le scatenano gli uomini, non le donne.

  19. neanche i pensieri dell’autrice sono molto lineari”
    direi che questo è uno dei migliori esempi di understatment mai sentiti.
    I pensieri dell’autrice sono solo un’accozzaglia di affermazioni nate da e per dimostrare una posizione ideologica, che vorrebbero sembrare oggettive ma in realtà proprio false fin dall’incipit:
    ultimamente è diventato molto popolare l’adagio secondo il quale la lingua è uno strumento per plasmare le menti, e addirittura modificare la struttura della società! Questa, che in linguistica è soltanto un’ipotesi (del tutto screditata dalla comunità scientifica…”
    Non credo che ci sia qualcuno che seriamente pensi che la lingua si definisca come strumento per plasmare le menti.
    Il linguaggio è uno strumento (lo strumento) per comunicare tra esseri umani e come tale nasce e si evolve in una società di esseri umani, quindi è eminentemente legato al tipo di rapporti, esperienze e valori che ha quella data comunità. 
    Altrettanto evidentemente però un linguaggio indirizza e plasma la mente di chi lo parla, rendendo possibile o facile la comunicazione di alcune cose e difficile quella di altre. Intere popolazioni del centro Africa non hanno una parola per dire “nebbia” (perché li non esiste): provate a spiegargliela; oppure provare a tradurre le varietà di neve di un lappone o di un inuit.
    Il linguaggio può quindi essere usato per indirizzare il pensiero di chi lo usa, cioé per plasmarlo: basti pensare all’uso fatto storicamente di parole come “totalitario” o “democrazia” e la differenza di significato e di  impatto psicologico nel tempo.
     
    Prendo gli esempi di Crovella: “presidentessa” è evidentemente sessista e frutto di ignoranza perché in italiano esiste “la presidente”, che ha la medesima valenza e correttezza de “il presidente”, essendo derivato dal participio presente di un verbo (come anche dirigente, cantante, ecc.)
    L’uso pare sia dell’800 (epoca decisamente sessista) per evitare che si potesse equiparare in alcun modo il ruolo di “una presidente” di comitato benefico a quello di “un presidente” di tribunale, cosa evidentemente disdicevole e pericolosa!
    Quindi presidentessa è proprio un esempio chiaro di uso strumentale della lingua!
     
    Stessa identica cosa per “Avvocatessa”, visto l’esistenza di “avvocata” addirittura dal latino liturgico (Advocata nostro, illos tuos misericordes oculos…)
    A onor del vero però avrei dei dubbi sull’uso di “architetta”, ma per motivi di altro tipo.
     
    Non sono proprio d’accordo con Crovella che ”si ha perfetta parità fra uomo d donna quando NON si va più a specificare la loro distinzione inventando il femminile del termine”
    semplicemente perché l’italiano, come per esempio il tedesco, è una lingua sessuata e il non volerne tenere conto è de facto manipolatorio (cioè strumentale)…provate a spiegare a un inglese perché la luna debba essere femminile (in italiano, non in tedesco però dove è maschile!)
    Dire che la perfetta parità sarebbe la mancanza di distinzione sessuale, mi pare come affermare che saremmo immortali se non usassimo i tempi verbali!
     
    E d’altra parte scommetto che Crovella (e l’autrice) sia fieramente contrario all’uso di genitore 1 e genitore 2…peraltro evidente uso del linguaggio per plasmare le menti, sia per i pro che per i contro!

  20. D’accordo che si dà accento a questioni che a mio avviso non rivestono importanza.
    Io continuo a parlare come facevo prima che cominciasse il grande show, dando sempre più spazio ai temi che mi stanno più a cuore e non curandomi delle direttive del burattinaio.
     
    Mi permetto di dire che neanche i pensieri dell’autrice sono molto lineari rendendo laborioso ciò che invece non lo è: le parole sono importanti, ma ancor di più lo sono le percezioni dell’uditorio (Alessandra Gionti docet). 

  21. Cincordo con tesi dell’autrice. Inizialmente ero infastidito dal tentativo di modificare le regole linguistiche ma più che altro per motivi di “linguitica”. Cioè scrivere architetta, avvocatessa, presidentessa mi apparivano errori pari a quello dell’uso errato di un congiuntivo o di un apostrofo.
     
    Purtroppo ora assistiamo al dilagare incontrollato del linguaggio politically correct, che è in realtà l’apoteosi dell’ipocrisia. Chi ci crede pensa che scrivere presidentessa sia il massimo del riconoscimento della parità di genere.
     
    Invece è vero il contrario. Lunguisticamrnte domina il “ruolo”, la “carica”, la “mansione”. Si ha perfetta parità fra uomo d donna quando NON si va più a specificare la loro distinzione inventando il femminile del termine.
     
    Da circa un paio di anni registro la diffusione, fra le donne capaci, di preferire e addirittura esigere la definizione della loro persona secondo la linguistica: il Direttore Pinca Pallina. Provate a chiamarla “direttrice”: vi mette subito a posto e sottolinea la cosa, in modo che non si ripeta più.
     
    Questa è “vera” parita.

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