La figura dell’istruttore di alpinismo nelle sezioni del CAI
di Carlo Ventura (da Astimontagna, CAI Asti, luglio 2014, con qualche lieve modifica)
L’iter formativo degli istruttori di alpinismo in ambiente CAI è particolarmente complesso, lungo e severo. Intanto la frequenza di regolari corsi di alpinismo in scuole sezionali ufficialmente riconosciute costituisce un iniziale passaggio obbligato.
Ad esempio, un giovane per quanto atletico e brillante, pur frequentando già la montagna, non basta che dimostri delle doti naturali e predisposizione per questa disciplina: non è ammessa l’autodidattica. Ovvero dovrà comunque sottoporsi all’apprendimento delle tecniche fondamentali, collaudate, aggiornate e uniformi suggerite dagli organi tecnici centrali e periferici del CAI.
Nel frattempo, nell’ambito della scuola, acquisirà basi culturali e mentalità adatte a sua volta all’insegnamento. Dopodiché insieme agli allievi più meritevoli e, come si dice più portati e affidabili, verrà invitato a collaborare e a inserirsi gradualmente nel corpo-istruttori della scuola di appartenenza. Prima, per un periodo almeno biennale, come aiuto-istruttore, poi come istruttore sezionale. Intanto dovrà maturare un’adeguata esperienza individuale in alta montagna tale da costituire un curriculum sufficiente, sia su roccia che su ghiaccio, a essere ammesso in seguito ai corsi regionali per conseguire la qualifica di Istruttore di alpinismo. Questi sono corsi biennali di formazione e selezione che si concludono con un esame teorico-pratico piuttosto rigoroso.
A questo punto, dopo un’adeguata permanenza in questo ruolo, coloro che contribuiscono in modo più attivo alla vita della scuola sezionale, se avranno maturato un’ulteriore esperienza d’alta montagna di livello superiore, potranno essere ammessi al corso per Istruttori Nazionali di alpinismo della Scuola Centrale del CAI. Corso che si svolge solo ogni due anni e che consiste in alcuni stage in montagna, molto selettivi e di alto grado alpinistico.
A parte le energie necessarie per raggiungere tale obiettivo, ammesso che pochi sono in grado di superare una selezione così severa, se si fanno due conti, si constata che, ben che vada, occorrono minimo circa una decina d’anni per diventare istruttore nazionale e, una volta raggiunto ciascuno dei vari step sopracitati, non è che lo si mantenga automaticamente per un tempo illimitato. Nossignore, si è sottoposti a una periodica e frequente verifica circa la continuità delle funzioni didattiche nelle proprie scuole, l’attività personale in montagna, l’aggiornamento tecnico in sessioni periodiche a frequenza obbligatoria, proposte da organismi superiori.
Il tutto da conciliare con impegni personali di famiglia, di lavoro, di studio, condizioni di salute, età e quant’altro. Quindi da tutto ciò si può ben capire che per fare e continuare a fare l’istruttore di alpinismo nel CAI, oltre ad una smisurata passione per la montagna, occorrono una buona dose di costanza e di tenacia.
Altro aspetto fondamentale della figura dell’istruttore di alpinismo, come pure di tutte le altre qualifiche di istruttore ed accompagnatore del CAI, è la responsabilità sia civile che penale, ma soprattutto morale, nei confronti di chi si affida a noi.
Discorso questo molto complesso e articolato, che non si può semplicisticamente liquidare, come magari piacerebbe a qualcuno, ampliando sempre di più e perfezionando le coperture assicurative. Non c’è polizza che ci possa sollevare dalla responsabilità morale, che personalmente ritengo la più onerosa!
Carlo Ventura, sulla Placca di 40 metri della Palestra dei Laghetti (Appennino Ligure), 5 luglio 1964
Per quanto attiene invece alla responsabilità giuridica colgo l’occasione per un approfondimento di merito che magari molti sottovalutano o non considerano a sufficienza. Questo tipo di responsabilità non è mai derogabile o rinunciabile da parte di operatori qualificati e ufficialmente riconosciuti come gli istruttori del CAI, sebbene volontari non professionisti. Si badi bene, ciò vale anche se si partecipa ad attività del CAI in incognito, senza comparire tra gli organizzatori responsabili e persino durante lo svolgimento di una qualsiasi attività collettiva ricreativa e senza alcun compenso, privatamente e fuori dall’ambiente del CAI. Facciamo un esempio di tutt’altra natura: una persona qualunque, in possesso di un’imbarcazione di discrete dimensioni e titolare di patente nautica, quindi con una lunga e documentata esperienza marinaresca, viene invitato a partecipare in comitiva a una gita sulla barca di proprietà di un amico comune. In caso di disgrazia, il giudice inquirente potrebbe invitarlo a dimostrare di aver suggerito e imposto (anche con la forza e contro la volontà del proprietario dell’imbarcazione) ogni accorgimento utile e indispensabile a scongiurare, nei limiti ragionevoli del possibile, situazioni di grave pericolo. La stessa cosa vale anche in montagna. Si abbia ben presente che, in caso di grave rischio, gli operatori qualificati del CAI devono obbligatoriamente assumersi le responsabilità che la loro esperienza impone.
Infine, strettamente correlato al concetto di responsabilità giuridica, si è aperto negli ultimi tempi un vivace dibattito, che varrebbe la pena di approfondire, circa la libertà dell’alpinista su di un terreno di avventura come la montagna. Questo argomento era già stato oggetto di interessanti interventi alla assemblea nazionale di Soave del 17 novembre 2012, da parte di Alessandro Gogna, come pure dell’avvocato Vincenzo Torti e del past-president Annibale Salsa.
È stato poi ripreso e approfondito in una recente lettera dello stesso Gogna, quale portavoce dell’Osservatorio del CAI per la libertà in montagna e in alpinismo, indirizzata al Pubblico Ministero torinese Raffaele Guariniello, che indaga sulle ultime sciagure da valanga provocate dallo sci fuori-pista. Egli così si esprime: “La libertà in alpinismo… è facoltà di determinare in autonomia le scelte che ci riguardano, sia come singoli che come componenti di una collettività, ma con la consapevolezza del rischio che si corre e dei danni che possono derivarne ad altri. La libertà è un diritto essenziale di ogni persona, l’alpinismo e la montagna sono una delle massime espressioni di libertà, perché le attività alpinistiche per loro natura non possono rispondere a regole prefissate come avviene negli sport classici”.
Concludendo poi: “Dobbiamo diminuire il numero degli inconsapevoli, non aumentare il numero dei dissuasi o dei puniti”.
Reduce dall’ennesimo incidente, lasciatemi aggiungere: non sempre le disgrazie in montagna sono dovute alla fatalità. Spesso hanno la loro componente di errore umano, d’imperfezione tecnica, di sottovalutazione delle difficoltà, ecc. Critiche pertinenti che si possono accettare. Chi non sbaglia mai? Non si è mai finito d’imparare. Ciò non di meno, specialmente noi istruttori e soprattutto nella pratica didattica, dobbiamo assumere dei comportamenti, usare tali cautele di prudenza e tali misure di sicurezza da impedire assolutamente di poter essere considerati degli spericolati. Le scuole di alpinismo sono un efficace antidoto alla frequentazione selvaggia della montagna, possono e devono educare i giovani allievi a una pratica dell’alpinismo consapevole e responsabile.
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Sono molto interessanti gli spunti dell’articolo. Ed il percorso descritto per aspirare alla qualifica di IA/INA etc.. lascia ,intendere, delle figure altamente specializzate.
Una domanda, nel caso questa preparazione nell’organico istruttori, non venga riscontrata dal alcun CV relativo ad attività pratica (ultimi 24/36 mesi) ne da effettive capacità (requisiti minimi).
Chi si occupa, tolto il CAI e suoi organi, di fare una verifica?!?!?!
Premetto che probabilmente parto da preconcetti dovuti a mie idee, esperienze e carattere personale.
Tuttavia, chi è senza peccato …
Ognuno è frutto del proprio vissuto.
Per prima cosa non ho mai “sopportato” gli ambienti “comunitari” come il CAI o altre associazioni.
Certo, ci sono entrato, ma dopo un po’ piano piano (o, a volte in maniera secca) mi sono staccato; probabilmente sono un po’ poco conciliante di fronte a determinate “cazzate” che si vedono ovunque.
Anche oggi faccio parte del CAI, ma solo in conseguenza (obbligata) dell’essere membro del CNSAS.
Concordo con Alberto sul fatto che molte volte l’esperienza vale 1000 volte di più della lezioncina teorica (comunque necessaria) che spiega il “fattore 2”. A volte il fattore “E”sperienza (insieme al fattore “C”ulo) sono quelli che ti salvano la Vita, molto più del sapere a memoria la tenuta della corda singola (che se messa o passata male, si trancia comunque).
Per ciò che concerne il commento di Maurizio … beh poco da dire.
Cosa si può “contestare” ad uno come lui!!!
Difficile immaginare che gente del suo calibro e con la sua storia alpinistica, non passino prima di tutto cultura e passione. È anche vero, come dice lui, che non tutti sono così, anzi!!!
Molte volte gli istruttori fanno più le macchiette che le persone serie (anche se spiritose), fanno più apparenza che cultura, forse perché non ce l’hanno.
Le persone sono sempre persone.
Infine, riguardo le responsabilità civili e penali, è una bella “grana”!!!
Anch’io come CNSAS ne sono giustamente soggetto.
Certo è che, nonostante ciò, rimaniamo sempre volontari e non professionisti (alcuni dei quali invece a volte piangono e protestano perché devono rispondere delle loro azioni).
Riflessione conclusiva:
nel bene e nel male del CAI, del CNSAS o di altre mille associazioni di base volontaristiche (Croce Rossa, ANPAS, ecc.), ma senza queste dove cavolo andrebbe l’Italia???
Alla fine … o facciamo una bella e grossa rivoluzione, oppure smettiamo di lamentarci e rimbocchiamoci come al solito le maniche per far andare decentemente questo Paese dall’Alpi a (quasi) le piramidi !!!
Non si può fare di ogni erba un fascio ma da istruttore di alpinismo seconde me, Massimo non ha tutti i torti. Gli istruttori di alpinismo sono troppo spesso dei veri e propri “manuali viventi ” . Le formulette del fattore di caduta sono importanti ma un istruttore di alpinismo secondo me dovrebbe andare oltre, come giustamente fa notare Massimo.
Massimo nel mio piccolo, da Istruttore Nazionale di Arrampicata Libera e quindi tirato direttamente in ballo dalla tua risposta, cerco di fare le cose che dici tu. E anche i miei colleghi li ho sempre visti disponibili in tal senso e ben distanti dall’immagine di “caiano” che spesso ci vediamo appioppare per pregiudizio o più spesso per questioni di litigi che esistono in ogni ambiente. Dunque non conosco assolutamente le tue vicende con il CAI, ma bisognerebbe a priori di evitare di fare di ogni erba un fascio: le guide, il CAI, la FASI. Esistono in primo luogo le persone, poi ci sono ovviamente degli ambiti all’interno dei quali operano, sia professionalmente che a livello di puro volontariato. Ciao
Ricevo da Massimo Malpezzi:
“Come spesso accade si tralascia la parte essenziale… son tutti bravi a insegnare la sicurezza partendo dalla naturale esperienza e da canoni imposti… in questo articolo che non fa altro che elencare cosa bisogna fare per diventare istruttore partendo dall’allievo fino al nazionale, e tutta una parte noiosissima sulle responsabilità civili e penali ormai chiare a tutti. Non si parla minimamente della grande importanza dell’educazione etica, morale e ambientale di chi affronterà la montagna. Mi sono battuto fino ad essere sbattuto fuori dal sodalizio da persone frustate che pensavano a colmare i loro vuoti nella vita grazie a posizioni di comando, cercando di spiegare che oggi prima di saper fare le grandi vie in sicurezza bisogna rispettare l’ambiente, bisogna approcciarsi cercando il rispetto verso la roccia insegnando le regole etiche su come affrontarla (e mi riferisco ai corsi di arrampicata libera) bisogna insegnare che il CAI dovrebbe smantellare le ferrate che sono un inquinamento vergognoso sulle Alpi. Un istruttore ahimé spesso dimentica che bisogna raccontare la storia dell’alpinismo e non solo nell’ora dedicata alla proiezione della storia dell’alpinismo. Dimentica che all’allievo va riferito che il libro e la guida vera cartacea valgono molto di più che 4 righe gratis su internet… Insomma se si vuole fare una riflessione seria su cosa è oggi un usurato CAI facciamola seriamente, altrimenti è facile darsi dire “caiani””.