Litigiosità nei social – 1

Pubblichiamo una serie di otto articoli a tema “Litigiosità nei social”. Chissà che non riusciremo a scoprire quali sono le recondite ragioni per le quali anche in GognaBlog spesso si verificano veri e propri litigi, che a volte si trascinano per settimane.

1 – Superficialità e conflittualità nell’era dei social network
(Superficialità, degrado intellettuale e conflittualità nell’era dei social networks)
di Fabrizio Marchi
(pubblicato su conoscenzealconfine.it il 17 novembre 2016)
Fonte: http://www.linterferenza.info/

Riflettevo sul fatto che quanto più un post su facebook (o su qualsiasi altro social e in generale in rete) è breve, due o tre righe al massimo, tanto più è apprezzato, indipendentemente dal suo contenuto. La qual cosa è indicativa della condizione di inquietante superficialità, incapacità/non volontà di approfondire e quindi di degrado intellettuale in cui la maggior parte delle persone si trova oggi.

Del resto, tenere le masse in una condizione di ignoranza e superficialità è sempre stato l’obiettivo di tutti i sistemi dominanti che si sono succeduti nel corso della storia. Quello attuale è soltanto infinitamente più sofisticato rispetto ai precedenti, ma la sostanza non muta di una virgola.

Oggi vorrei invitare a riflettere su un altro aspetto, intimamente collegato a quello di cui sopra, che certamente tutti avranno già notato. E cioè il tasso di litigiosità e di rissosità presente sui social e su facebook in particolare.

Assisto con frequenza pressoché quasi quotidiana a gente che si azzuffa e si insulta invece di confrontarsi, magari anche aspramente, come è giusto che sia, ma civilmente, e comunque sempre nel merito di ciò che si sta discutendo. Una prassi deprimente che ovviamente impoverisce e il più delle volte uccide il dibattito per ovvie ragioni, che è del tutto superfluo spiegare.

Molti sostengono, con spirito di rassegnazione, che tutto ciò sia “normale”. Io non la vedo così. Ho svolto attività politica per lungo tempo e posso garantirvi che la discussione interna in un partito o in un’organizzazione raggiungeva, a volte, dei livelli di conflittualità parossistici. E tuttavia questa conflittualità, spesso esasperata, si accompagnava sempre ad un elevato livello di discussione e di tensione politica. Questo faceva sì che anche i diverbi e le polemiche personali, la competizione, l’invidia, il rancore, le piccole o grandi miserie individuali e chi più ne ha più ne metta (siamo tutti esseri umani…) si esprimessero all’interno di un contesto “alto” e, devo dire, molto più ricco dal punto di vista culturale e intellettuale e quindi anche umano.

I partiti di massa, checché ne dicano i moderni rottamatori e i sostenitori dei partiti “leggeri” o “liquidi”, hanno rappresentato un momento di formazione e di crescita culturale, intellettuale e umana straordinaria per larghe masse popolari. Una vera e propria scuola di vita. E non a caso sono stati distrutti. L’esaurirsi della conflittualità sociale (per lo meno in questa fase storica) è andata di pari passo con la distruzione delle forme politiche, che quella conflittualità rappresentavano. Gli effetti di questo devastante processo sono sotto gli occhi di tutti, per lo meno di chi vuol vedere.

In questo vuoto di “forme politiche”, i social network potrebbero rappresentare uno strumento utile, un‘occasione preziosa per dare modo a tutti quelli che non ne hanno la possibilità sui mezzi di comunicazione ufficiali, cioè a quasi tutti, di esprimersi, di confrontarsi e quindi di crescere, di arricchirsi reciprocamente. Tutto ciò diventa tanto più importante se pensiamo appunto che i media istituzionali, “pubblici” o privati che siano, e in primis le televisioni, perseguono scientemente l’obiettivo di passivizzare e di addormentare le menti e le coscienze (quelle che ancora non sono state spente…).

Per questo è ancor più desolante constatare come una possibile opportunità, che in fondo la tecnica stessa ci fornisce, venga gettata alle ortiche in un modo così stupido. Questo non significa che la rete sia libera e impermeabile al controllo mediatico-politico, però indubbiamente lascia degli spazi, né potrebbe essere altrimenti, per lo meno finché esisteranno dei margini di libertà e agibilità democratica, sia pure con tutti i limiti che ben conosciamo. Io credo che questi spazi debbano essere “occupati” e utilizzati al meglio e in modo intelligente. Dispiace constatare che molti/e non riescano a cogliere questa opportunità, specie in un contesto che non ce ne offre moltissime.

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Gli indici di litigiosità in Italia hanno un andamento strano: altissimi nell’800, scendono per tutto il ‘900 fino agli anni ’70, quelli della crescita, del consumismo e della televisione in ogni casa, quando di colpo riprendono a salire. Poi con l’arrivo della crisi e di internet si stabilizzano.

2 – Sono i social che seminano zizzania? Tutte cazzate
di Andrea Coccia
(pubblicato su linkiesta.it nel novembre 2017)

A questo mondo esiste un parametro per tutto ormai. Ce n’è persino uno che cerca di definire l’esatta dimensione di un sentimento che di questi tempi va per la maggiore in Italia e in tutto il mondo occidentale: la conflittualità tra gli individui che condividono uno spazio, ovvero, in soldoni, i vicini di casa.

L’Istat l’ha chiamato Indice di litigiosità, lo calcola mettendo in rapporto le cause civili intentate in un dato territorio di competenza di un dato tribunale e la popolazione residente per 1.000 e se oggi ce ne occupiamo è perché il Sole 24 Ore, per compilare il suo ultimo rapporto annuale sulla vivibilità delle province italiane, ha deciso di inserire nel paniere dei suoi calcoli proprio questo dato, con almeno un risultato notevole: tutte le grandi città, per la loro intrinseca grandezza e densità di popolazione, hanno registrato tassi da primato di litigiosità, finendo in fondo alle classifiche tematiche e, di conseguenza, perdendo posizioni nella classifica generale.

L’esempio più clamoroso riguarda Milano, che perde ben sei posizioni nella classifica generale, superata dalle province di Belluno, Sondrio, Bolzano, Trento, Trieste e Verbano-Cusio-Ossola. Ma più che l’impatto di questo indice sulla classifica finale, che resta comunque una di quelle classifiche di fine anno, da prendere, come tutte queste classifiche, con il beneficio di inventario, ci interessa la sua evoluzione nel tempo.

La guerra dei Roses

L’indice in sé, infatti, parziale e approssimativo come tutti gli indici statistici, mostra un andamento storico decisamente curioso. La “litigiosità” degli italiani, stando ai calcoli dell’Istat, avrebbe avuto il picco massimo intorno alla fine del 1800, con l’indice a 72 cause ogni 1000 abitanti e poi si abbassa per tutta la prima metà del Novecento fino ad arrivare agli anni Settanta, punto minimo di tutta la serie con circa 9 cause ogni 1000 abitanti. Da lì in poi sembra tutta in salita, arrivando, negli ultimi anni a una sort di plateau. Sì perché, a vedere i numeri dell’Istat, pare che i tasso di scazzo tra gli italiani sia rimasto quasi invariato dall’inizio degli anni Novanta ad oggi.

Cosa è successo di così influente nella società italiana da invertire una tendenza che fino al 1970 si stava riducendo? Qual è l’elemento che ci sta mettendo uno contro l’altro con sempre maggior frequenza, tanto da aver fatto triplicare l’indice relativo dello scazzo tra i cittadini in tutta Italia nel giro di tre decenni? Di questi tempi di certo la prima risposta che ci viene in mente è Internet, in particolare i Social Media — Facebook in primis, dove ormai l’hate speech è diventato il modus discutendi standard — che stando all’interpretazione di molti, sarebbero la causa, oltre che di tutti i mali del pianeta, anche dell’odio sempre più vistoso ed evidente tra le persone.

Aldo Cazzullo, Michele Serra, Massimo Gramellini, persino Umberto Eco qualche anno fa; in tanti opinionisti e intellettuali della vecchia guardia stigmatizzano internet e i social network, colpevoli per loro e per molti altri di aver, se non seminato zizzania tra gli italiani, quanto meno di aver amplificato le tensioni, liberando un sacco di rabbia repressa sulla Rete. E invece Internet apparentemente non c’entra, anzi, sembrerebbe proprio tutto al contrario visto che, sempre stando a questo bislacco indice, sembra che negli ultimi 15 anni il tasso di litigiosità degli italiani sia rimasto in media sostanzialmente stabile.

E allora che cosa ci rende più litigiosi? Difficile dirlo ma, stando all’evoluzione temporale dell’indice, sicuramente la colpa non è della crisi economica degli ultimi anni, né dell’avvento dei social network, né tantomeno di internet. Al contrario, forse è stato proprio il sopravvenuto e diffuso benessere degli anni Settanta, la contemporanea crisi del tessuto sociale, economico e politico — ovvero delle reti sociali quelle vere, che proprio in quel momento si iniziarono a disgregare — e, se proprio vogliamo parlare di media, della televisione, che negli anni Settanta aveva già smesso di essere un momento di ritrovo comunitario da condominio ed era entrata in ogni casa, desertificando le strade e le piazze delle grandi città, lasciando nuclei familiari sempre più ristretti — stava cominciando la grande stagione dei figli unici — nell’isolamento sempre più angusto dei propri salottini.

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Social network, tra tutela della libertà d’espressione e linee guida. La natura del rapporto sinallagmatico come possibile lente interpretativa.

3 – Libertà di espressione e social: qual è il confine?
di Arianna De Conno
(pubblicato su altalex.com il 16 marzo 2022)

Com’è noto, i social nell’ultimo decennio hanno assunto un ruolo sempre più significativo in molti aspetti della società, dalle relazioni interpersonali fino al mondo della politica. Essi pongono ovviamente un ampio ventaglio di questioni delicate anche sul piano del diritto.

Arianna De Conno

La stessa società Meta (proprietaria di noti social come Facebook e Instagram), nel proprio rapporto annuale inviato il 3 febbraio 2022 da Meta Inc. alla Sec (Security and Exchange Commission), l’autorità statunitense garante del mercato, ha evidenziato come la propria attività abbia un significativo impatto su aspetti che vanno dalle questioni legate alle pratiche di e-commerce fino alla protezione dei dati personali, la tutela dei minori, le questioni legate ai diritti civili e al contrasto alla corruzione.

A questi aspetti deve poi aggiungersi una fondamentale questione, quella della tutela della libertà d’espressione.

Libertà d’espressione e “linee guida” dei social
La questione della tutela della libertà d’espressione si pone, in particolare, rispetto al “potere” dei soggetti gestori dei social network di rimuovere o meno determinati contenuti dalla propria piattaforma, o di limitare in vario modo la possibilità di utilizzo del social stesso da parte degli utenti per un periodo più o meno lungo.

I soggetti gestori dei social network hanno infatti progressivamente elaborato proprie “linee guida”, degli standard per la community in base ai quali determinare quali contenuti siano o meno ammissibili sulla piattaforma, e quali conseguenze comporti per l’utente la violazione di tali regole di utilizzo della piattaforma.

Rispetto al tema della tutela della libertà d’espressione sui social, appare possibile, con una certa dose di semplificazione, distinguere due ipotesi.

La prima è quella che riguarda contenuti qualificabili come fattispecie criminose; in tal caso, infatti, una volta accertata la natura criminosa della condotta (processo non sempre agevole, peraltro, come dimostra la ricca giurisprudenza italiana sul tema, ad esempio, della diffamazione per mezzo dei social), il problema dell’eventuale tutela della libertà d’espressione viene meno. La questione della tutela della libertà d’espressione, dunque, si potrebbe porre in fase di accertamento della natura criminosa o meno della condotta, ma una volta accertato che questa viola una norma penale, la rimozione in sé del contenuto dal social network non pone particolari questioni in termini di tutela della libertà d’espressione sul piano giudiziario. Subentreranno senz’altro altre questioni, legate ad esempio alla responsabilità del soggetto gestore del social, o ai tempi e alle modalità di rimozione del contenuto stesso.

La seconda ipotesi che può verificarsi riguarda invece quelle condotte che, pur non violando alcuna norma, violano comunque le linee guida del social, che dunque “sanziona” l’utente, ad esempio rimuovendo il contenuto postato o limitando la sua possibilità di utilizzo del social stesso.

È in quest’ultima ipotesi, in particolare, che si pone una delicata questione di tutela della libertà di espressione, che costringe a chiedersi in che misura e quali condizioni l’utente possa chiedere tutela giudiziale avverso la condotta “sanzionatoria” del gestore del social, e dunque in che misura tale condotta possa essere qualificata come legittima o debba essere qualificata invece come una lesione della libertà d’espressione.

Un’interessante risposta in tal senso è giunta con la sentenza 9 novembre 2021, n. 1659 della Corte d’appello di L’Aquila, il cui nodo centrale è rappresentato proprio da una riflessione in merito a quale parametro debba essere preso in considerazione per determinare la legittimità o meno delle azioni “sanzionatorie” adottate dai gestori dei social network sulla base delle proprie linee guida.

Il caso
Con ordinanza pubblicata il 29 gennaio 2020, il Tribunale di Chieti ha accolto il ricorso ex art 702 bis c.p.c. con il quale un utente del social network Facebook aveva chiesto la condanna di Facebook Ireland ltd al risarcimento di € 15.000,00 a titolo di danno non patrimoniale, sotto forma di danno morale nella sua veste di danno relazionale, per la violazione e l’erronea applicazione degli “standard della comunità” previsti dal social network, secondo il ricorrente, in violazione dei suoi diritti costituzionalmente garantiti di espressione e di manifestazione del pensiero. Il ricorrente, in particolare, affermava che tra il 2018 e il 2019 erano stati rimossi contenuti da lui postati perché considerati non rispettosi dei c.d. “standard della comunità”, con conseguenza la sospensione dell’utilizzo dell’account; i contenuti in questione erano, in particolare, una fotografia ritraente il dittatore Benito Mussolini nel giorno del compleanno, accompagnata da una didascalia; un’immagine della bandiera della Repubblica Sociale Italiana, una fotografia che riproduceva il Monte Giano, sul quale, nel 1939, era stata riprodotta la scritta “DUX”, attraverso la potatura di una pineta; l’immagine di un pilota di guerra, corredata da una didascalia descrittiva della sua tragica morte, e infine un’ulteriore immagine ritraente Benito Mussolini con annessa didascalia “W Mussolini”.

Al ricorrente era stata inoltre notificata la sospensione dell’account per ulteriori trenta giorni per aver pubblicato un commento (rivolto ad un terzo soggetto) che non avrebbe rispettato gli standard della comunità in tema bullismo e intimidazione.

Il ricorrente aveva dunque denunciato l’illiceità della condotta della società convenuta sotto due profili: l’illegittima sospensione dell’account Facebook per oltre quattro mesi, in un arco temporale di quattordici mesi complessivi, in violazione del diritto costituzionalmente garantito della libertà d’espressione; violazione dell’art. 617 sexies c.p. (falsificazione, alterazione o soppressione del contenuto di comunicazioni informatiche o telematiche) poiché la società convenuta avrebbe, secondo il ricorrente, creato un pregiudizio, interrompendo le sue comunicazioni con altri utenti con la illegittima sospensione dell’accesso al social, impedendo così le sue abituali relazioni sociali sulla piattaforma informatica.

Il Tribunale adito ha accolto integralmente le domande dell’attore, condannando la società convenuta al pagamento di € 15.000,00 a titolo di risarcimento del danno, oltre agli interessi legali dalla domanda al saldo e alla refusione, in favore di parte attrice, delle spese di lite.
L’azione è stata qualificata dal giudice come di origine contrattuale.

Per motivare la propria decisione, il giudice ha innanzitutto evidenziato come senz’altro l’ordinamento democratico della Repubblica italiana rifiuti ogni ideologia contraria alla Costituzione, la quale, in particolare, alla XII disposizione transitoria e finale vieta “la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista.”; tale principio costituzionale ha trovato attuazione con la cd. legge Scelba del 1952, normativa in relazione alla quale si è formato un orientamento giurisprudenziale che afferma che, sulla base del combinato disposto tra la XII disposizione transitoria e finale e lart. 21 della Costituzione, le condotte apologetiche, per divenire illecite, devono concretizzarsi in comportamenti fattivi di pericolo (quest’ultimo inteso come probabilità del verificarsi dell’evento dannoso) di ricostituzione del partito fascista. Posto ciò, secondo il giudice adito le condotte poste in essere dall’attore, pur essendo senz’altro relative all’espressione di un pensiero di adesione all’ideologia fascista, rappresentano semplice espressione di convinzioni personali, senza concretizzarsi però in iniziative concretamente volte a supportare l’ideologia fascista nell’ottica di un’espansione del consenso tale da concretizzare il pericolo di una sua riaffermazione. Di conseguenza, le condotte oggetto di causa non potevano, secondo il Tribunale, concretare la violazione degli standard, come eccepito dalla società convenuta, rappresentando un mero esercizio del diritto costituzionale di libertà di manifestazione del pensiero. Sotto tale profilo, il giudice ha dunque ritenuto di accogliere la domanda dell’attore, affermando che, affinché possa essere posta a base di un giudizio di inadempimento contrattuale, senza tuttavia violare il diritto fondamentale alla libera manifestazione del pensiero, la condotta dell’utente in questione avrebbe dovuto concretizzarsi, appunto, in iniziative concretamente volte a supportare ed elogiare l’ideologia fascista.

Con riferimento invece al commento rivolto ad un altro utente, il giudice ha ritenuto che questo non rappresentasse una violazione degli standard della comunità ma, tutt’al più, un pensiero espresso con un tono fortemente polemico.

In conclusione, il Tribunale ha condannato la società Facebook Ireland ldt a pagare al ricorrente i 15.000,00 euro richiesti a titolo di risarcimento.

La pronuncia in questione è stata allora impugnata dalla società dinnanzi alla Corte d’appello di L’Aquila.

Come già anticipato, l’obiettivo della presente trattazione non è valutare la condivisibilità o meno delle opinioni dell’utente del social network protagonista del caso in esame, quanto proporre una riflessione, seppur breve, a partire dall’analisi di una recente pronuncia, su quali aspetti del rapporto tra social e utente debbano essere valutati in un giudizio per stabilire quale sia il “potere sanzionatorio” del social stesso nei confronti dell’utente, e come valutare la legittimità del suo operato in un’ottica di tutela della libertà d’espressione, diritto tutelato, lo si ribadisce dalla Costituzione stessa. Tale riflessione, per altro, potrebbe applicarsi anche a casi relativi all’espressione di altre opinioni o a contenuti di natura diversa, ma comunque “sanzionati” per violazione delle linee guida dei social.

La pronuncia della Corte d’appello: il rapporto sinallagmatico (1) tra Facebook e l’utente
Il giudice dell’appello ha dichiarato l’appello proposto dalla Facebook Ireland ltd parzialmente fondato.

Ciò che appare particolarmente rilevante ai fini della presente riflessione è come anche il giudice d’appello abbia posto l’attenzione sulla natura e le caratteristiche del rapporto sinallagmatico tra Facebook e l’utente come criterio dirimente per valutare la legittimità o meno delle “sanzioni” irrogate dal gestore del social network per violazione delle linee guida.

Anche secondo il giudice dell’appello, dunque, la questione deve essere ricondotta nell’alveo della responsabilità contrattuale e richiede un’analisi delle specifiche caratteristiche del contratto.

Secondo il giudice dell’appello, una volta affermato che ci si trova in ambito negoziale ed in tema di responsabilità contrattuale, il contratto deve essere qualificato come “contratto per adesione”, stipulato mediante il ricorso a moduli on line predisposti unilateralmente dal fornitore, le cui clausole, quindi, dovendosi applicare la legge italiana, essendo «… inserite nelle condizioni generali di contratto, o in moduli o formulari predisposti da uno dei contraenti, si interpretano, nel dubbio, a favore dell’altro» (art. 1370 c.c.) .

Secondo la Corte, il contratto è inoltre qualificabile come oneroso e a prestazioni corrispettive.

A conferma di ciò, il giudice ha richiamato innanzitutto l’incipit della pagina online che descriveva le Condizioni d’uso, in cui era possibile leggere che, anziché richiedere all’utente un pagamento per l’utilizzo di Facebook o degli altri prodotti e servizi coperti dalle Condizioni in esame, Facebook riceve una remunerazione da parte di aziende e organizzazioni per mostrare agli utenti inserzioni relative ai loro prodotti e servizi. Dunque, utilizzando i Prodotti di Facebook, l’utente accetta che il gestore del social possa mostrargli inserzioni selezionate come pertinenti per l’utente e per i suoi interessi utilizzando i dati personali dell’utente stesso per aiutare a determinare quali inserzioni mostrare all’utente. Facebook si impegna poi a non vendere dati personali dell’utente agli inserzionisti e non condividere informazioni che identificano direttamente l’utente con gli inserzionisti senza l’autorizzazione specifica dell’utente. Secondo la Corte, dunque, l’adesione dell’utente comporta il sorgere di obbligazioni corrispettive che, dal lato dell’utente, vanno individuate nella concessione a Facebook della facoltà d’uso dei dati personali (con le limitazioni sopra specificate) e, dal lato del gestore, nella messa a disposizione di strumenti che, come si leggeva nelle Condizioni d’uso, “consentono agli utenti di connettersi fra di loro, creare community e far crescere aziende”.

Alla luce di tali condizioni d’uso, e in base anche alla ricostruzione proposta dalla sesta sezione del Consiglio di Stato nella sentenza 29 marzo 2021, n. 2631, il contratto deve qualificarsi come oneroso e la facoltà d’uso dei dati personali concessa dall’utente al social network deve essere considerata alla stregua di una controprestazione a contenuto patrimoniale.

Detto ciò, la Corte ha proseguito l’analisi del caso, statuendo che la clausola contrattuale che attribuisce a Facebook poteri di rimozione dei post e di sospensione degli account non possa essere ritenuta nulla, come sostenuto dall’appellato, che aveva riproposto le questioni di nullità della clausola nell’atto di costituzione e risposta, sia sotto il profilo codicistico che sotto il profilo della tutela consumeristica.

La previsione in capo al proprietario e gestore del social network, sul quale si manifestano le varie personali opinioni o si condividono contenuti, del diritto di verificare che ciò avvenga nel rispetto dei valori condivisi posti alla base dell’adesione, deve essere anzi intesa come posta a tutela del sinallagma, posta non solo la natura del contratto (per adesione) e la sua onerosità, ma anche il fatto che, sebbene in determinati ambiti e condizioni il profilo dell’utente possa restare noto solo ad una ristretta cerchia di persone, ciò che viene condiviso sul social è però sempre veicolato all’esterno da un soggetto giuridico diverso dall’autore di quelle espressioni, nel caso in esame Facebook.

Secondo la Corte, dunque, tale clausola non può essere considerata vessatoria, ma afferisce alla normale regolamentazione del contratto, non ponendo in capo all’aderente «limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni, restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti con i terzi, tacita proroga o rinnovazione del contratto» (art. 1341 c.c.).

La Corte ha poi affermato che, poiché tra le parti è intercorsa una regolamentazione contrattuale mediante il ricorso alla tipologia del contratto per adesione, nel cui ambito il contraente aveva accettato, tra le altre, anche le clausole relative ai poteri del gestore del social di sanzionare determinati comportamenti considerati come violazioni delle Condizioni di utilizzo della piattaforma, clausola da considerarsi  validamente pattuita in quanto “posta a salvaguardia del sinallagma contrattuale, cioè dell’equilibrio tra la possibilità per l’utente di esprimersi e condividere contenuti ritenuti importanti e il pregiudizio che determinate modalità espressive o determinati contenuti possano arrecare alla sicurezza e al benessere altrui o all’integrità della stessa community”. Il giudice ha poi aggiunto che “La violazione dei criteri di equilibrio sopra descritti, che sono sostanzialmente regole di convivenza civile, può ben dunque essere valutata alla stregua di un inadempimento contrattuale che, ove esistente, abilita la controparte a sospendere la propria prestazione, rimuovendo o bloccando i contenuti che violino tali disposizioni contrattuali”. Per altro, sulla base dei contenuti degli standard di comunità resi noti all’utente, il giudice ha affermato che a legittimare l’esercizio di poteri di autotutela da parte del soggetto gestore del social possa essere non solo il comportamento contrario alla legge (certamente rilevante, posto l’espresso richiamo contrattuale) – e dunque un comportamento che integri, ad esempio, il reato di apologia del fascismo – ma anche un comportamento diverso, non definibile come illecito.

Posto ciò, la Corte ha dunque affermato la necessità di condurre in sede giurisdizionale una valutazione relativa ad ogni singolo episodio, poiché il potere di autotutela riconosciuta contrattualmente al soggetto gestore del social non deve sfociare “in comportamenti apertamente violativi della sfera di libertà espressiva che, dietro concessione dell’autorizzazione all’uso di propri dati sensibili e non gratuitamente, costituisce il contenuto tipico e, per così dire, la ragion d’essere dell’adesione ad una piattaforma di questo tipo, la cui funzione è appunto quella di consentire agli utenti di esprimersi e condividere contenuti per loro importanti. Tanto più in un contesto nel quale non è neppure specificato con quali modalità si formuli il giudizio di congruità dell’espressione usata da parte di Facebook”.

Il giudice dell’appello ha dunque proceduto a valutare la legittimità delle azioni del ricorrente proprio attraverso la lente delle caratteristiche del rapporto sinallagmatico tra gestore del social network e utente, andando a valutare la correttezza o meno dell’applicazione delle clausole contrattuali.

Ad esempio, ha affermato la legittimità della sospensione dell’account dell’utente per violazione degli standard della comunità in tema bullismo e intimidazione, ritenendola del “tutto fuori misura perché priva di giustificazione per quella che appare essere una mera divergenza di vedute e di appartenenza politica”.

Ha invece ritenuto illegittimo, negli episodi successivi, il ricorso da parte di Facebook alle azioni repressive adottate, ancora una volta sulla base della valutazione del tenore degli accordi negoziali. Secondo la Corte, infatti, le espressioni utilizzate sarebbero state mere espressioni di pensiero, “il che costituisce in ultima analisi, come più volte ribadito anche dall’appellante, la principale funzione di Facebook e la ragione stessa della proposta di adesione rivolta al pubblico degli utenti, quella cioè di consentire agli utenti di esprimersi e condividere contenuti per loro importanti”. Con riferimento a tali ipotesi, il giudice ha inoltre aggiunto che “in tutti questi casi, le espressioni non travalicano la manifestazione di un’opinione che, a prescindere dalla sua condivisibilità (che non è un parametro contrattualmente assunto a criterio di giudizio) deve essere consentita ove fine a se stessa”.

In conclusione, dunque, la chiave di lettura per individuare i limiti dei poteri gestori dei social network, secondo la presente pronuncia, sembrerebbe essere la natura del rapporto sinallagmatico e le sue caratteristiche, che rappresentano la lente attraverso cui guardare alle condotte poste in essere dal soggetto gestore del social per valutare se esse siano o meno legittime sul piano della tutela della libertà d’espressione, qualora le condotte in esame non rappresentino fattispecie penalmente rilevanti.

Note
(1) Si dice sinallagmatico quel negozio (accordo) che fa sorgere delle obbligazioni corrispettive fra le parti contraenti. Il caso più semplice di contratto sinallagmatico è la compravendita.

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Insulti, minacce, aggressioni verbali: le pagine dei social, i commenti online sono vetrine di un’aggressività che si muove senza filtri e senza controlli. Ma da dove viene questa aggressività? È reale o virtuale? E quali sono gli effetti sulle vittime?

4 – Il web enfatizza un’aggressività i cui effetti sono gravi come quella reale
di Chiara Di Cristofaro
(pubblicato su ilsole24ore.com il28 giugno 2019)

Insulti, minacce, aggressioni verbali: le pagine dei social, i commenti online sono vetrine di un’aggressività che si muove senza filtri e senza controlli. Un’aggressività che sorprende, che indigna, che si fa fatica a comprendere, ma che va considerata nelle sue origini e nei suoi effetti, perché molto reale e concreta, da diversi punti di vista. Odio online, odio social, haters: i termini ormai di uso comune indicano un fenomeno diventato consuetudine. Ma da dove viene questa aggressività? È reale o virtuale? E quali sono gli effetti sulle vittime?

Le minacce online e la fragilità della vittima 
«Il reale e il virtuale non si distinguono – spiega la psicologa e psicoterapeuta Barbara Forresil’aggressione online è una vera e propria aggressione, a tutti gli effetti, e gli esiti psicologici delle parole sulla vittima presa di mira non sono da sottovalutare. Non mi chiederei se l’aggressività è virtuale o reale ma come si manifesta diversamente a seconda di luoghi (e persone)… da questo punto di vista Internet è solo il contesto». Auspici di morte, minacce di ogni tipo e, quando si tratta di donne, di stupro, con dettagli raccapriccianti sulle modalità, l’augurio di subire vessazioni e torture a sfondo sessuale. La sensazione di fragilità intensa che la vittima si trova a vivere quando viene attaccata online è concreta, reale, molto forte. Chi è colpito si sente in pericolo. Si sente odiato, sperimenta un senso di ingiustizia e di debolezza per aver, magari, espresso una sua opinione e una sua idea. «Le parole fanno più male delle botte», scrisse nelle poche righe lasciate alla famiglia Carolina Picchio, la 14enne che si uccise dopo essere stata vittima di pesanti attacchi online da parte di un gruppo di cyberbulli. Anche qui, la denigrazione sessuale era prevalente negli insulti che la colpirono. Certo, in questo caso le persone erano conosciute, quindi la minaccia “vicina”, ma la tragedia di Carolina e quelle analoghe dimostrano che ciò che accade online, dal punto di vista psicologico, è strettamente connesso a ciò che viviamo nel quotidiano, ne è ormai parte integrata, la distinzione tra reale e virtuale non regge. Una parte della nostra identità, del nostro io, viaggia in rete.

La regolazione emotiva deriva dallo sguardo dell’altro
Nel caso degli haters “sconosciuti”, che colpiscono prevalentemente personaggi noti o pubblici, poi, va rilevato come sempre meno si ricorra all’anonimato, quasi che l’espressione di odio senza limiti sia sempre più considerata socialmente accettabile (link all’articolo di Simona Rossitto). Ma l’anonimato, inteso in senso più ampio, cioè assenza di presenza de visu, resta al centro del fenomeno. «Il filosofo tedesco Byung-Chul Han ha detto che la rete è il luogo dell’anonimato, del non nome e dunque del non rispetto – dice Barbara Forresi – perché il rispetto è legato a un nome, a un volto, a una persona. La regolazione emotiva nelle relazioni arriva dallo sguardo dell’altro, cosa che non avviene negli scambi online. Lo sguardo, le espressioni del volto, il tono di voce, la postura hanno a che vedere con il rispetto: contrariamente alle interazioni vis à vis, quelle online non permettono di vedere le emozioni scritte sul volto di chi riceve le nostre parole». Non c’è scambio, quindi, ma solo un’espressione unilaterale di rabbia, aggressività e odio, nessuno degli hater si rivolge direttamente alla vittima, spesso nei commenti si nota anche che ci si riferisce a lei in terza persona, gli haters si danno man forte a vicenda. «Se abbandonarsi al discorso d’odio è facile, Internet lo semplifica ulteriormente: aumentano gli spettatori, si moltiplicano i pretesti, si riducono le occasioni di punizione, la riprovazione sociale è più blanda, i tempi di risposta rapidissimi e non c’è la possibilità di vedere negli occhi e nel volto dell’altro la reazione alla nostra violenza».

La forza – e il pericolo – del gruppo: la ricompensa dell’odio
Dal punto di vista sociale, la piazza virtuale quindi ripropone e fa da megafono a ciò che già esiste, con alcune distorsioni legate al mezzo. Nel gruppo intervengono meccanismi di categorizzazione che, spiega ancora Forresi, «si nutrono di stereotipi e pregiudizi come il genere o la cittadinanza, dinamiche di esclusione, polarizzazione delle idee espresse (che in gruppo diventano estreme), deumanizzazione delle vittime e deresponsabilizzazione sociale». Non da ultimo, quando l’odio di un hater diventa ondata di odio, entrano in gioco anche meccanismi di ricompensa, che derivano dall’approvazione degli altri, dei simili e allora odiamo ma ci sentiamo bene, perché siamo sostenuti, appoggiati. Non siamo soli. Questo accresce le probabilità che il comportamento si reiteri nel futuro. Non solo: «I gruppi che si accaniscono sui social contro l’hater di turno replicano quanto combattono e contraddicono quanto affermano, ossia il diritto al rispetto reciproco, al dialogo, all’umanità, alla comprensione. La violenza è forse meno violenta se è in difesa di qualcuno?», si chiede la dottoressa Forresi. La risposta all’odio, quindi, deve essere adeguata, percorrere altri canali, usare altri strumenti e non stimolare gli stessi meccanismi psicologici e sociali che si cerca di combattere.

(continua)

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Litigiosità nei social – 1 ultima modifica: 2023-05-28T04:50:00+02:00 da GognaBlog

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