Metadiario – 124 – L’onomastico (AG 1984-006)
Al ritorno della vacanza dolomitica, quindi a fine luglio 1984, ci fu l’interruzione con Anne-Lise. Da qualche settimana meditavo di esporle le mie decisioni, cercavo solo l’occasione giusta. L’incidente sul Pesgunfi (Metadiario – 122), ma soprattutto l’esperienza drammatica sul Pilastro Micheluzzi della Marmolada (Metadiario – 123), mi avevano spinto decisamente in quella direzione. In entrambi i casi avevo visto la morte in faccia e non c’ero troppo abituato. Ero sempre più convinto che la serenità d’animo è ciò che di più prezioso disponiamo per poterci muovere in ambienti pericolosi. Alla fine “ragionai” in questo modo: “Se conducessi vita sedentaria, forse potrei anche sopportare ulteriore dispendio d’energia in quella tensione propria di una situazione affettiva così complicata, forse potrei permettermi ancora più pazienza, magari darle tempo ancora qualche mese. Ma il mio stile di vita mi vede così spesso con il vuoto sotto il sedere e gli “avvertimenti” che ho già avuto sono così chiari che non c’è dubbio alcuno che io debba recidere. E subito”.
Le parlai, dunque. Lei non si precipitò a convincermi che avrebbe risolto i suoi dubbi in breve tempo. Remissivamente subì le mie decisioni, dicendo anche di capirmi: anzi, mi raccomandò di non essere definitivo e di lasciare uno spiraglio a un nostro eventuale futuro assieme.
Fu quindi con grande tristezza che l’accompagnai alla stazione di Milano perché potesse tornare a casa, triste a sua volta. Ma da quel momento cominciai a sentirmi diverso: ero certo di aver preso la decisione giusta e anche fiero d’esserci riuscito.
Nel frattempo con Angelo Recalcati avevamo steso un piano di esplorazione della regione della Mesolcina, con molti punti fermi e tanta apertura verso i problemi alpinistici che nel percorso avremmo potuto incontrare.
Per prima cosa affrontammo quella che ci sembrava essere la salita più imponente, non per la difficoltà ma per il dislivello, dell’intera zona. Per la prima volta misi piede in val Bodengo e fu amore a prima vista. Non c’era un mondo di pareti così evidenti, c’era piuttosto una serie di montagne che invece di mostrarsi cercavano di nascondersi… Lo spigolo ovest del Pizzo Cavregasco 2535 m è praticamente invisibile da qualunque luogo, fino a che non si percorra la val Bodengo almeno per tre quarti. Sapevamo della via dei due comaschi Vittorio Meroni e Piero Nessi, da loro salita l’11 settembre 1959. Eravamo stati anche a trovare il primo dei due a casa sua: l’anziano Vittorio si dimostrò ben felice della nostra iniziativa e desideroso di collaborare, anche perché quella non era l’unica salita che aveva fatto da quelle parti. Salimmo lo spigolo, che con la cresta finale raggiunge i 700 metri di dislivello, trovandolo piuttosto deludente. Non perché fosse facile (III e IV grado), ma piuttosto perché avaro di bella arrampicata. Questo lo capimmo ancor prima di attaccare, anche perché sapevamo che la via originale evitava a destra tutta la prima parte dello spigolo.
Così presi la situazione in mano e facemmo una variante diretta d’attacco, che chiamai poi il Manifesto, che, partendo dal punto più basso, per cinque lunghezze (dal III al V+) si svolgeva sulla bella roccia del vero spigolone, fino a raggiungere la via originale proveniente da destra. Che a quel punto seguimmo fedelmente fino in vetta. Era il 4 agosto 1984. La discesa non fu un’avventura ma fu decisamente laboriosa senza finire mai, prima per faticose distese di ontani nani, poi lungo l’infinita valle Soè fino a raggiungere la nostra auto lasciata nel villaggio di Bodengo (da dove eravamo partiti la mattina molto presto).
Le emozioni del distacco da Anne-Lise, la stanchezza accumulata nell’escursione al Cavregasco e la mancanza di altri programmi mi fecero accettare l’invito di Piero Ravà per un soggiorno in casa sua a Finale Ligure, assieme a Marina e ai bambini Rocco e Tommaso. In quei giorni si svolgevano i giochi olimpici a Los Angeles e ricordo che passammo molto tempo davanti alla televisione. Io specialmente, visto che di accompagnare la famiglia sulla spiaggia non era certamente nelle mie corde. Per arrampicare, con Piero cercammo tutte le pareti in ombra. Il 6 agosto salimmo Senza Fantasia alla Rocca degli Uccelli (io attaccandomi a 4 chiodi) e Corta ma Dura sul Bric del Frate. Il giorno dopo ci dirigemmo a Monte Cucco, per salire le prime due lunghezze di Satori e Toccata e Fuga. Il caldo violento e le gare olimpiche ci tennero distanti da altre arrampicate, mentre io ero in contatto telefonico con Nella, aspettando che tornasse dalle sue vacanze al mare.
Quando c’incontrammo a Milano mi sembrò molto contenta di partire ancora con me per una nuova idea, il giro del Monviso. Ero d’accordo con una rivista per fare un servizio fotografico, ma era soltanto una scusa. In realtà volevo camminare e stare assieme alla donna che era mia moglie verso la quale provavo nello stesso tempo un profondo senso di colpa e una rinnovata attrazione.
Il 12 agosto partimmo di sera da Milano e raggiungemmo, al fondo della Valle Po, il Pian del Re. Da lì la mattina dopo salimmo al rifugio Giacoletti e, pestando neve, il Coulour del Porco fino al colle omonimo. Un ambiente molto bello e selvaggio questo della catena che si snoda a settentrione del Monviso, nessuno dei due c’era mai stato (a parte la volta in cui salii con Paolo Armando la Nord del Monviso, quando comunque non vidi quasi niente, o per gli orari notturni o per la nebbia). Scendemmo in territorio francese per poi risalire al Passo di Vallanta e scendere ancora al rifugio Gagliardone (oggi più noto come rifugio Vallanta). Questo era stato appena ristrutturato, ed era uno dei primi rifugi obbiettivo di un re-design avveniristico. Tanto che l’architetto voleva farlo assomigliare con l’insolita forma piramidale alla stessa struttura del Monviso che lo sovrasta.
Dopo una comoda notte in branda, il 14 agosto ripartimmo alla volta del bivacco Fratelli Berardo e del Passo delle Sagnette: trovammo questo tratto un po’ complicato dalla mancanza di segnalazioni, dall’oggettiva lunghezza e dalla neve. Certo, un posto stupendo, quasi lunare se non fosse per qualche laghetto. La mole del versante meridionale del Monviso incombe e ce ne possiamo liberare solo una volta raggiunto il Passo delle Sagnette 2991 m, sulla cresta spartiacque, un valico angusto dal quale però si apre la visuale sul versante orientale del Monviso. Scendemmo infatti al rifugio Quintino Sella e da lì al Pian del Re.
Non ricordo cosa facemmo il giorno di Ferragosto, ma di certo rimanemmo in zona, a studiarci, stuzzicarci, riconoscerci. In serata raggiungemmo in Valle di Susa il posteggio poco sotto al rifugio Amprimo, allora custodito dall’amico Massimo Max Demichela: fu quella sera che concertammo una geniale truffa ai danni di un’assicurazione. Venne infatti il discorso che Nella aveva in casa la targa e il libretto di una moto Honda 1000 che l’amico Beppe Tenti aveva portato in Bhutan per regalarla al Re, ovviamente per ingraziarselo in vista dei trekking che proprio in quegli anni erano stati resi possibili in quel regno himalayano. Targa e libretto erano tornati in Italia e casualmente Beppe li aveva lasciati a casa di Nella, che allora lavorava con lui. Il piano era di andare ad aprire, presso un’agenzia di Torino, una posizione assicurativa per quella moto; quindi aspettare un anno circa, denunciarne il furto e attendere che l’assicurazione ci ripagasse (attendere il “frutto”, come diceva Max). Bene, tutto funzionò a meraviglia e a ottobre 1985 ci spartimmo il bottino. Ovviamente Nella non approvava queste scorrettezze, ma non poté che lasciarci fare.
Il 16 agosto 1984 risalimmo il lungo corso del Rio Gerardo poi, invece che salire al Colle del Sabbione, percorremmo la cosiddetta Valletta Lunga fino a raggiungere il Colletto della Gàvia 2775 m. Purtroppo non avevamo grande visibilità, grosse nuvole ci avevano avvolti lasciandoci appena il tempo di capire dove dovevamo salire. Rinunciammo a salire sia la Punta della Rocca Nera sia il Monte Orsiera e ci dirigemmo in discesa per immani pietraie alla scura pozza d’acqua del Lago del Ciardonnèt. Da qui un sentiero molto ben segnalato ci portò senza problemi al rifugio Selleries.
Il 17 agosto ripartimmo con lo stesso tipo di meteo per ritornare al rifugio Amprimo. Salimmo al Colle Superiore di Malanotte e da lì per la cresta sud-est alla Punta Malanotte 2736 m. Scendemmo al bellissimo Piano delle Cavalle e da lì fino al rifugio GEAT Val Gravio. Ma non era ancora finita, bisognava ancora camminare a lungo verso ovest fino al rifugio Amprimo. In serata a Milano, lei in via Volta 10, io a Rho in via della Ghisolfa 26.
Il 19 agosto con Angelo Recalcati ci rivolgemmo al secondo bell’obiettivo che avevamo. Da Chiavenna si vede abbastanza bene un affilato spigolo roccioso, rivolto a nord, che raggiunge la vetta del Pizzo Rabbi (chiamato anche Motto Rotondo, Mott Redund). Sempre dalla val Bodengo, ma questa volta da un’altra frazione, Pra Pincé, risalimmo la Val Garzelli fino alla meravigliosa Alpe di Campo 1652 m. Qui piantammo e lasciammo la nostra tendina. Continuammo verso la Bocchetta del Cannone ma piegando poi a destra verso l’attacco dell’affilato spigolo nord del Pizzo Rabbi. Non avevamo alcun dubbio che fosse già stato salito da qualcuno, ma allora non eravamo riusciti a sapere chi negli anni Sessanta si era presa la briga di andare a fare quei “miseri” 150 metri di spigolo, che però sono così eleganti da valerne assolutamente la pena. E neppure oggi lo sappiamo, a dispetto delle approfondite ricerche fatte. Sia pure con la sosta all’Alpe di Campo, erano già 3h45’ di cammino quando arrivammo finalmente all’attacco. Dopo un primo tiro sul V+, la seconda lunghezza si rivelò la più impegnativa (un passo di VI-). Fu lì che incontrammo i tre chiodi arrugginiti che provavano la nostra teoria di uno spigolo già salito. Anche perché dopo le difficoltà diminuiscono, dunque era certo che qualcuno lo avesse fatto. Scendemmo per la cresta sud-ovest, passando per la Cima Sud-ovest del Pizzo Rabbi. Invece di traversare sul versante meridionale alla Bocchetta del Cannone, ci buttammo nella Val Soè.
Già all’attacco dello spigolo nord avevo potuto osservare da vicino, ma troppo di profilo, la bellezza della parete ovest-nord-ovest, caratterizzata dai due grandi speroni che salgono rispettivamente alla vetta principale e alla Cima Sud-ovest. I due speroni sono divisi da un camino che in alto si allarga a canale assai svasato. Dall’alta Val Soè potemmo osservare molto meglio la parete. Avrei preferito ingaggiarmi sullo sperone di sinistra (quello della vetta principale) che mi sembrava ancora più bello: ma l’ora non proprio mattutina ci consigliò di ripiegare sullo sperone di destra. L’idea ovviamente era di tornare e fare anche quello di sinistra, ma fummo presi per anni da altri progetti e finalmente il 28 giugno 1992 fummo preceduti da Luca Balatti, Michele e Giulio Bianchi, Maurizio Orsi, Moreno e Mario Rava [via delle Due Gocce, TD- (forse un po’ stretto…), 300 m]. Noi salimmo quindi lo sperone di destra, anche lui di 300 m (TD+, 9 lunghezze fino al VI) e lo chiamammo Via della Caduta (con riferimento alla caduta di Lucifero o anche degli Dei, non perché ci fosse stato qualche volo…). Ridiscendemmo ancora la cresta sud-ovest, ma questa volta traversammo alla Bocchetta del Cannone 2273 m per poi approdare alla nostra tendina all’Alpe di Campo.
Dormimmo come sassi, ma al mattino dopo eravamo presto pronti per un’altra giornata di esplorazione. Salimmo alla Bocchetta della Pizzetta 2246 m, l’intaglio tra il Pizzo Ledù e il Pizzo d’Alterno, e da lì traversammo per immani pietraie verso est, arrivando così alla Bocchetta della Pienèla di Rós 2185 m (chiamata anche arbitrariamente Bocchetta della Palmina). Nella nostra furia toponomastico-geografica raggiungemmo il Passo Canale 2215 m, ma poi tornammo indietro senza salire il Sasso Canale 2411 m. Nei pressi del Sasso Campedello 2310 m, notai una bellissima guglia di una ventina di metri. Volli salirla a tutti i costi: lo feci da nord-est, arrivando solo io in cima a quell’esile ago. Lo battezzammo Sentinella del Campedello 2249 m e la via la chiamai via della Risoluzione (III e IV). A quel punto dirigemmo alla Bocchetta di Campo 1921 m e da lì scendemmo alla tendina, per smontarla e poi riscendere la Val Garzelli fino a Pra Pincé.
Quelli erano posti dove con quasi matematica certezza non s’incontrava nessuno, neppure nei giorni festivi. La solitudine di quei luoghi, la lontananza, l’isolamento in quella bolla di silenzio erano esaltanti.
Dopo l’agosto di separazione ci fu un riavvicinamento provvisorio con Anne-Lise. In effetti dovevamo chiarirci le ultime cose, dopo quella pausa di riflessione: volevamo rimanere buoni amici. Non trovai di meglio che tornare con lei all’Alpe di Campo. Almeno ci saremmo definitivamente lasciati in un ambiente di rara bellezza. Salimmo con la tendina il 25 agosto, ci godemmo un tramonto solitario. E fu così bello che nessuno dei due si trovò ad essere malinconico per ciò che ormai avevamo deciso. La mattina dopo salimmo alla Bocchetta della Pizzetta. Da lì la volta scorsa con Angelo avevo osservato la vergine parete est del Pizzo Ledù. Larga fino a 500 m, è assai articolata tramite una serie di placconate più o meno verticali e di altezza variabile tra i 200 e i 250 m che diminuisce a 150 m solo in corrispondenza della vetta (Cima Nord). Ne consegue un’ampia gamma di possibilità, tutte di impegno e difficoltà notevoli. Nel 1986, ad esempio, Maurizio Orsi e Simone Mapelli tentarono un nuovo itinerario più a sinistra ma interruppero l’itinerario dopo tre lunghezze (dal IV+ al VI+) a causa di pilastrini instabili. La Via dell’Onomastico (come la chiameremo poi), che fa capo alla Cima Sud e si rivelerà una delle più belle dell’intera regione, supera il settore più alto ed esteticamente più rilevante della parete. Questo è delimitato a destra da uno spigolo (che è al tempo stesso il bordo sinistro del canale di una brutta via ferrata) e a sinistra da un evidente colatoio-canale, molto inciso nella parte superiore. Anne-Lise ed io troveremo una splendida arrampicata, abbastanza varia e continua, prevalentemente su placca di gneiss difficilmente proteggibile. Con un dislivello di 250 m e difficoltà TD+. Su dieci spettacolari lunghezze abbiamo utilizzato una decina di chiodi vari (importanti gli extra-plat), una serie di nut, qualche friend. Non ci sono passaggi oltre il VI-, ma garantisco che l’impegno richiesto, per via della continuità e della scarsa protezione, è notevole.
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N.B. Quando dico gentiluomo d’altri tempi mi riferisco alla gentilezza, non all’età!
Ecco gli articoli di o su Angelo Recalcati – gentiluomo d’altri tempi – apparsi nel GognaBlog. Nella prima voce dell’elenco troverete il nostro caro Angelo in una fotografia dell’ottobre 1986 in vetta al Piz Martel, assieme a un giovanissimo Lorenzo Merlo.
Lorenzo, ti ricordi?
https://gognablog.sherpa-gate.com/un-lavoro-senza-fine/
https://gognablog.sherpa-gate.com/raus/
https://gognablog.sherpa-gate.com/il-primo-libro-di-douglas-william-freshfield/
https://gognablog.sherpa-gate.com/ottobre-1938-cosa-si-nasconde-dietro-una-storia-di-copertine/
https://gognablog.sherpa-gate.com/i-monti-della-valsassina-ritratti-da-leonardo/
https://gognablog.sherpa-gate.com/una-famosa-citazione/