L’oro della California – 2

Metadiario – 79 – L’oro della California – 2 (AG 1978-007)

(Continua da https://gognablog.sherpa-gate.com/loro-della-california-1/)

Heart’s Ledge
Dopo quattro giorni di sosta forzata, l’alba del quinto era serena. Già la sera prima c’era stato un bel tramonto. Ancora partimmo con il buio e alle prime luci ci trovammo alla base. Questa era la volta buona. Salimmo i primi cento metri sulle corde fisse, cercando non solo di non perdere tempo ma di trovare anche un ritmo che ci permettesse in seguito di progredire celermente. Sul Capitan, come pure sulle altre grandi pareti californiane, la tattica dell’ascensione si differenzia molto da quella alpina. Issare il grosso sacco da recupero era l’operazione più faticosa: in esso erano sistemati venti litri d’ac­qua, i viveri e parecchio materiale d’arrampicata, per un totale di trenta chili. Poi avevamo due zaini carichi dei sacchi piuma, tre macchine fotografiche, la cinepresa e altre minuzie per un totale di sette o otto chili l’uno. Malgrado quest’enorme massa di roba riu­scimmo a metterci in moto e raggiungere la fine delle corde fisse. Franco ci insegnava come si recupera il saccone e altri trucchi.

Da sinistra, Marco Preti, Franco Perlotto e Alessandro Gogna all’attacco della via Salathé al Capitan.

La parete si inclinava un poco, in compenso diminuivano le fessu­re. Salii la quarta lunghezza in arrampicata mista fino a una sosta sulle staffe. Franco mi seguì immediatamente: saliva a jumar sulla corda che io avevo passato nei moschettoni, togliendo gli ancoraggi che avevo messo, mentre io recuperavo uno zaino. Appena Franco fu accanto a me si armò di materiale, mentre Marco saliva sulla corda che aveva appena finito di usare Franco e che ora quindi penzolava libera, con il saccone appeso al capo inferiore. Sulla schiena aveva il secondo zaino. Giunto vicino a me, lo aiutai a recuperare il saccone, mentre Franco partiva legato ai capi delle due corde.

Franco Perlotto all’attacco della via Salathé al Capitan.

Queste comples­se manovre rischierebbero di essere noiose se raccontate più volte. Le ri­ferisco quindi una volta sola per tutte, assumendo che più o meno le co­se si svolgevano sempre così. La quinta lunghezza fu assai impegnativa per Franco: una placca liscia che bisognava salire d’aderenza e metten­do le staffe su tutti i chiodi a pressione che c’erano. I primi salitori, Royal Robbins, Tom Frost e Chuck Pratt nel 1961 avevano infisso su quella placca tredici chiodi ad espansione, i soli in tutta la via assieme ad un altro nel dodicesimo tiro. Oggi ce ne sono molti meno in posto e bisogna arrangiarsi: c’è anche un copperhead, cioè un aggeggio diabolico che dev’essere martellato e quindi «spalmato» in qualche minuscola concavità della roccia. Così ci si può appendere. Quel copperhead era veramente pauroso ma sorresse il suo peso. La rela­zione che avevo copiato e che tenevo in tasca non faceva capire se la placca fosse stata superata anche completamente in libera o no: per tutte quante le altre lunghezze invece era sempre riportata la doppia graduazione. Anche la sesta lunghezza fu svolta da Franco mentre con la seguente mi portai sotto un tetto: una fessura traversava a destra e ritornava poi verticale. Era il famoso Half Dollar, una fessura ad arco che somiglia molto, vista da lontano, ad un mezzo dollaro. Marco vi s’impegnò prontamente. In seguito proseguii per due tiri fino alle Mammoth Terraces, comode cenge alla fine del primo terzo di parete.

Marco Preti all’attacco della via Salathé al Capitan.

Una corda doppia da 50 metri ci depositò sulla Heart’s Ledge, bella cengia piatta sulla quale avevamo previsto il primo bivacco. Salii ancora metà del dodicesimo tiro, facendo il primo pendolo della via, lasciai la corda in posto e scesi sulla cengia. Il sole era tramontato e occorreva sistemarsi per il bivacco. Non eravamo stanchi, solo un po’ assetati. Pensavamo di avere anche fame, ma dopo i primi bocconi scoprimmo che la roba non ci andava giù. Sospettai subito che non solo quel cibo non era adatto ad un clima del genere ma che ne avevamo pure portato troppo. Non sapevo ancora invece che sarebbe stato meglio portare più acqua. Venti litri diviso quattro giorni previ­sti voleva dire cinque litri al giorno, cioè molto meno di due litri a testa. Quella sera però non ci fu disagio: consumammo la nostra razione d’acqua corretta con sugo di pompelmo e ci addormentammo quasi subito in posizione comoda e inconsueta per un bivacco. La notte era stellata, in basso i fari delle auto solcavano silenziosamente le foreste. Era la sera del 3 novembre 1978.

Alessandro Gogna e Marco Preti risalgono le tre corde fisse alla base della via Salathé, 3 novembre 1978.

El Cap Spire
Non mi piacque molto il mattino dopo abbandonare Heart’s Ledge (la Cengia del Cuore). Franco aveva già dato inizio alle ostilità terminan­do il dodicesimo tiro, che porta a sinistra in piena parete, sotto alle enormi arcate rocciose del Cuore. Lasciando quella cengia così como­da mi pareva di lasciare veramente una zona domestica per affacciarmi sull’ignoto. Con gesto deciso afferrai le jumar e cominciai a salire, dopo un pendolo emozionante di dieci metri sulla placca. Toccò a Marco impegnarsi sul grande pendolo della Salathé, un’oscillazione di circa venti metri, sul vuoto più assoluto. Lo attendeva, a fine corsa, una stretta spaccatura in cui bisognava incastrarsi. Salì a forza di gemiti, ci fu un punto in cui non riusciva più a salire perché la fessura era troppo stretta. Ormai il sole ci colpiva in pieno e sudavamo copiosamente. Ma anche la Hollow Flake era sotto di noi. Franco s’impegnò sulla lunghezza seguente, mentre Marco ed io recuperavamo il saccone rimasto appeso sotto. Nel tirarlo su questo s’incastrò nella spaccatura e dovetti scendere a smuoverlo. Nel primo pomeriggio ci fu un rannuvolamento in cielo ed io salii la diciassettesima lunghezza sperando in un minor caldo. D’altra parte cominciavamo a preoccu­parci che potesse venire ancora brutto tempo. Raggiunsi così la base dell’Orecchio. L’Ear è un gigantesco tetto spaccato orizzontalmente da una solcatura nella quale bisogna inserirsi con il corpo. A vedersi era assai pauroso e mi rallegrai in silenzio che la cosa non toccasse a me. Marco non si era ancora ben ripreso dalla stangata della Hollow Flake e così Franco si decise a salire. Ma giunto alla radice del tetto, a circa dieci metri da noi, non osò proseguire. La spaccatura si disegnava completamente nel vuoto, come un’enorme crepa nel soffitto e usciva in fuori di dieci metri. Tornò indietro con aria sconsolata, protestando che quello per lui era troppo. Era un momento critico.

Marco Preti verso le Mammoth Terraces

Altre cordate erano tornate da lì per la medesima ragione. Decisi di dare un’occhiata io, anche se avevo paura. M’inserii nella spaccatu­ra, facendo attrito con le ginocchia, le piante dei piedi, la schiena e le palme delle mani. Ma il granito era liscio ed avevo l’impressione di sfuggire verso il basso. Con cautela mi mossi. Addosso avevo pochis­simo materiale, proprio per non avere impedimenti, dal basso m’inci­tavano di cuore. Decisi di proseguire, mirando ad uno scalino per il piede, dove avrei potuto riposare un poco. Avevo tutti i muscoli contratti e mi sembrava che, se solo ne avessi rilassato uno, sarei scivolato nel vuoto: avrei fatto una caduta libera di sei-sette metri per poi essere richiamato verso la roccia dal chiodo piantato alla radice del tetto. Il colpo sarebbe stato assai forte perché la maggior parte del mio peso in caduta libera si sarebbe scaricato sulla roccia e non sulla corda. Lo scalino intravisto segnava in effetti la fine del tratto pauro­so, più pauroso che difficile. Oltre, mi afferrai a dei buoni appigli e in poche bracciate fui al di sopra dell’Orecchio, all’inizio del diciannove­simo tiro. Purtroppo il tempo era volato, il sole era riapparso e stava tramontando. Le Double Cracks sono due fessure parallele che si innal­zano a perdita d’occhio per 45 metri. Marco partì carico di materiale sferragliante e cercò di fare più in fretta che poté. Al trentesimo metro era quasi buio, Franco ed io eravamo sulle staffe e fremevamo d’im­pazienza.

Marco Preti verso le Mammoth Terraces

«Non riesco ad arrivare alla sosta, diventa buio!» urlò Marco.
«Osti, vuoi scherzare? Devi farcela!» urlò Franco, riassestandosi sulle staffe.
«Se vuoi ti mandiamo la pila frontale» aggiunsi io.

Marco salì ancora qualche metro, dentro di me pregavo che met­tesse più nut che chiodi, non solo perché così faceva più presto, ma anche perché i nut li avrei tolti più in fretta.

Ma dopo un po’ fu buio totale e con una corda gli spedimmo la pila. In maniche di camicia Franco ed io avevamo freddo e cercavamo di seguire i movimenti di quel lumino lassù sulla Monster Offwidth Crack, che ogni tanto bofonchia­va qualcosa di incomprensibile. Finalmente venne il segnale, Franco con uno zaino sulla schiena partì come un fulmine, mentre io, caricato dell’altro zaino, arrancavo nelle fessure schiodando nel buio pesto e recuperando i nut. Qualche blocchetto di metallo si era incastrato troppo bene: più volte dovetti usare alla cieca un chiodo piuttosto lungo. Con colpi secchi cercavo di smuovere il nut senza farmi sfuggi­re il tutto dalle mani, mentre il peso dello zaino tendeva a rovesciarmi di lato. Ansando riuscii a raggiungere una piccola cengetta dove stavano rannicchiati i due compagni, che avevano tirato su il saccone. A 15 metri da noi sapevamo essere un bel terrazzo. Sistemai la pila in fronte, presi due bong e iniziai a salire una fessura di 5.9. Dopo qualche metro, con un braccio incastrato dolorosamente e i piedi che raspavano nel vuoto, mi sentii cadere ma quasi subito vidi un copper­head alla mia destra. Con la forza della disperazione mi agganciai a quella «roba» e con altri due o tre movimenti azzardati guadagnai l’Alcove, un bellissimo terrazzo alla base di un torrione staccato, l’El Cap Spire.

Marco Preti verso le Mammoth Terraces

Il destino ci aveva concesso di dormire ancora una notte sdraiati. Quando Franco e Marco mi raggiunsero erano raggianti, nella confu­sione dell’oscurità. Tutti e tre eravamo felici come fossimo arrivati in cima. Da qualche parte nei sacchi c’era un’altra pila frontale e con il suo aiuto, dopo un’abbondante bevuta dalla tanica di plastica, ci interessammo al cibo. Mi accorsi subito di non aver per nulla fame. Marco cincischiò con un po’ di prosciutto, ma poi smise. Solo Franco si accaniva a riempirsi lo stomaco, ma non gli andava giù. Eravamo solo vogliosi di bere e l’unico modo per smetterla di pensare al liquido era dormire. Mi addormentai subito, ma dopo qualche ora fui sveglio; la bocca asciutta, le labbra inaridite. Lottai un poco con me stesso perché non mi sembrava giusto in piena notte bere anche un solo sorsino alla faccia dei miei due compagni. Fino ad allora avevamo diviso tutto uguale… Poi pensai che alla fin fine loro dormivano e quindi soffrivano meno di me che ero sveglio, perciò afferrai la tanica e bevvi un generoso sorso. Dopo mi pentii subito. La buona considerazione per me stesso aveva subito un duro colpo, non ero stato forte a resistere, ero un debole, ecc. Dopo due ore mi addormentai ancora, ma fu un sonno leggero e labile; al mattino non mi sentivo per nulla riposato.

Alessandro Gogna in discesa dalle Mammoth Terraces alla Heart’s Ledge, 3 novembre 1978.

Block
Franco e Marco invece erano in forma. Il morale era buono per tutti perché fino ad allora eravamo in orario e se tutto continuava ad andare bene la sera avremmo potuto dormire sul Block, unico terrazzo decente in quella sezione di parete così avara. Anche quel mattino non si parlò di colazione, bevemmo solo abbondanti golate d’acqua.

«Lasciamo qui un po’ di roba da mangiare? Tanto non ci serve!».
«Prendi, prendi. Non si sa mai».
Il nostro bagaglio non diminuì molto. Avevamo sperato che dopo due giorni la fatica del recupero-saccone diventasse più umana, però solo l’acqua bevuta misurava il lento decrescere del peso totale. La­sciammo lì una tanica vuota. Il giorno prima ne avevamo gettato nel vuoto un’altra. Sentivo che non era cosa ben fatta, perché se tutte le cordate avessero agito come noi, sul Capitan ad ogni sosta ci sarebbe­ro stati venti contenitori e alla base invece dei pini sarebbero cresciuti gli alberi della plastica. Evidentemente gli altri trascinavano fino in cima e poi in valle i loro rifiuti, comprese le scatolette vuote e le lattine. La nostra scarsa educazione in quel senso non era sufficiente a farci affrontare il disagio del trasporto della spazzatura. In seguito riflettei molto su quel problema e mi dispiacque di non aver saputo comportarmi correttamente. Un altro grosso interrogativo investiva le feci. Sul Capitan la media delle cordate trascorre un minimo di tre giorni e siccome non piove quasi mai i rifiuti dell’intestino costitui­scono un grave problema. La soluzione migliore è procurarsi prima di partire qualche sacchetto di carta, in America tutti i supermercati non danno sacchetti di plastica ma di carta. In parete, dopo aver usato il sacchetto, lo si getta nel vuoto. Anche se Pierre Chapoutot racconta di come alcune «bombe à merde» lo sfiorarono mentre si avvicinava alla base della parete, un tale pericolo è preferibile al dover passare le notti di bivacco col tormento di odori nauseabondi!
Naturalmente neppure a quello avevamo pensato e pure noi contri­buimmo all’insudiciamento generale.

Marco Preti, 4 novembre 1978

Marco salì il camino che divide El Cap Spire dalla parete. La cima della torre staccata è perfettamente piana e tabulare e con una spaccata si riafferra la parete. Mentre Marco ed io eravamo sdraiati al sole, Franco lottava sulla lunghezza seguente, una delle più faticose a causa della fessura finale in cui bisognava incastrarsi e salire un centimetro per volta. A me toccò la ventitreesima lunghezza, in artifi­ciale mista a libera e ancora Marco salì una lunga fessura che nessuno ha mai fatto in libera. Di staffa in staffa, usando molti nut, Marco arrivò a una sosta su chiodi alla base di un altro diedro verticale che finiva sotto un tetto. Franco salì due lunghezze con un tiro solo e raggiunse il Block.

Marco Preti, 4 novembre 1978

Il caldo era feroce, erano già le tre del pomeriggio. Il recupero del saccone aveva sfiancato tutti, soprattutto me. Mi sentivo sempre più debole, volevo solo bere e desideravo che il sole sparisse. La lunga sosta in attesa che Franco raggiungesse la meta mi aveva indebolito parecchio, tanto che Marco si era spaventato nel vedermi in quelle condizioni. Raggiunsi anch’io il Block, un terrazzo piuttosto spiovente e scomodo, con un solo punto orizzontale. Lì i due compagni mi avevano costruito in pochi minuti una vaga tendina, usando i sacchi piuma e i cordini. Mi sdraiai subito sotto, all’ombra, cominciando a star meglio. Nel frattempo Marco assicurava Franco che saliva la ventisettesima lunghezza. Ci impegnò molto, o così ci parve; alla fine gli uscì un chiodo e fece un volo di qualche metro. Poi finalmente guadagnò la Sous Le Toit Ledge, un piccolo terrazzino alla base dell’enorme diedro che saliva fino al grande tetto, quel tetto che rese famosa la Salathé. Marco salì una decina di metri del diedro, poi scese perché diventava buio ed entrambi tornarono da me. All’ombra stavo molto meglio, mi riprendevo rapidamente ma temevo che il giorno dopo sarebbe ancora stata la stessa storia. Di certo la scarsità d’acqua e il non mangiare da tre giorni mi avevano indebolito fino a quel punto. Però anche i miei compagni avevano vissuto nelle stesse condizioni e allora pensai che il mio disfacimento fosse dovuto al non arrampicare da tanto tempo: non si può pretendere di non toccare roccia per quattro mesi e poi salire la Salathé. Ma poi capii che io non ero stanco fisicamente. Interrogavo le mie sensazioni, esploravo il mio respiro quella notte e ricordai che il giorno appena trascorso mi aveva visto star meglio quando arrampicavo o salivo a jumar: quando invece stavo fermo incominciava a girarmi la testa…

Franco Perlotto, 5 novembre 1978

Fu una notte orribile, dormii di un sonno sconclusionato. Anche i compagni passarono delle brutte ore, svegli e scomodi.

Al mattino mi imposi di agire e arrampicare, perché a star fermo e lasciar fare agli altri era peggio. Lasciammo lì tutto il cibo o quasi e soppesammo le nostre ormai povere riserve d’acqua, soltanto due litri e mezzo. Il saccone era più sollevabile, ma era un sollievo di relativa portata. Ci eravamo accollati quattro chili di viveri completamente inutili che avremmo invece dovuto sostituire con acqua. In più comin­ciava anche ad essere evidente che avevamo portato troppo materiale con noi. Troppi chiodi, bong, nut. Io non avrei dovuto portarmi dietro la Nikon, ma una macchina un po’ più leggera.
«La prossima volta non sarà più così» dicevamo.

Franco Perlotto, 4 novembre 1978

El Capitan
Partimmo molto presto perché volevamo salire all’ombra il più possi­bile. Seduti sulla Sous Le Toit Ledge, Franco ed io aspettavamo che Marco arrivasse sotto il tetto. Anche qui due lunghezze in una, per far più presto. Lo raggiunsi ancora all’ombra, mentre Franco salì solo a metà del tiro, con il duplice scopo di non stare accanto a noi a peggiorare una posizione alquanto scomoda e di salire a jumar diret­tamente alla sosta al di sopra del tetto. Il trentesimo tiro, cioè il Tetto, volli farlo io. Mi sentivo bene e salii velocemente fino all’orlo. Ci fu qualche difficoltà dopo, non era facile sistemare i nut però raggiunsi comunque la sosta al di sopra, alla base della Head Wall, cioè della parete sommitale, una placca strapiombante alta ottanta metri, liscia e regolare, solcata da un’unica ed esile fessurina. Mi sistemai sulle staffe e diedi ordine a Marco di venire. Quando questi proseguì, legato ad una sola corda, urlai a Franco che poteva muoversi. Questi era qua­ranta metri sotto di noi: si lanciò nel vuoto appeso a due jumar e fece un pendolo vertiginoso. Dall’alto lo vedevo comparire e scomparire nell’oscillazione. Il sole nel frattempo riprendeva la sua opera nefasta. Il pendolo di Franco mi aveva scombussolato, sentivo che ricomincia­va il malessere, la testa ritornava pesante. Quella parete non finiva dunque mai? Franco mi raggiunse e io stavo piagnucolando. Bevemmo un po’ d’acqua, ma per la paura non serviva a nulla. Dopo quaranta metri di staffe Marco era arrivato alla sosta, sempre sulle staffe. Franco lo raggiunse, togliendo tutto. Tra me e loro c’era solo una corda, completamente libera, su una parete che strapiombava sei metri su quaranta. Sotto di me, appeso al capo della corda, ciondolava bonario il saccone. La valle, i pini e la vita erano sotto ottocentocinquanta metri di vuoto assoluto.

Franco Perlotto impegnato nel grande pendolo, 5 novembre 1978.

Al segnale sganciai i moschettoni. Ne rimase uno solo e su quello era tutto il mio peso. In alto Franco stava già salendo il trentaduesimo tiro. Spostai tutto il mio peso sulle jumar, poi sganciai senza chiudere gli occhi. Mi girava tutto attorno, la parete, la valle, la parete… poi le oscillazioni diminuirono. Mi concentrai su ciò che dovevo fare: sposta­re la maniglia di destra, applicarle il peso, spostare quella di sinistra e così via fino a che arrivai accanto a Marco che, molto premuroso, mi chiese come stavo.

«Non bene» risposi «Mi gira sempre la testa».
Però seguivo l’arrampicata, sapevo che Franco stava per arrivare alla Long Ledge. Lì almeno, pensai, possono recuperarmi calandosi dall’alto. Se arrivo lassù sono a posto. Qui nessun soccorritore può recuperarmi.

Marco Preti affronta la Monster Offwidth Crack

Furono ore terribili, ero pieno di paure, di ansie irrazionali. Anche Marco cominciava a soffrire palesemente la sete. Raggiungemmo la Long Ledge e bevemmo le ultime gocce d’acqua. Mi tolsi la camicia e la abbandonai sulla cengia. Marco saliva sconnesso lungo il trentatree­simo tiro, raggiunse un terrazzino e ci fece salire. Poi Franco proseguì. Bocconi sul terrazzino credevo di morire e forse morivo davvero. Le labbra aride, il respiro affannoso, gli occhi semichiusi. Non avevo più paura di non poter arrivare in cima: avevo solo terrore di morire comunque, come se l’inaridimento totale del corpo fosse un processo irreversibile. Peccato. Mi dispiaceva anche di non aver avuto alcun tipo di «visioni». Provavo a osservare attentamente il lichene, i piccoli insetti, ma tutto mi sembrava disperatamente normale, nulla era mutato nella mia percezione di oggetti e di sensazioni. Solo un’e­strema debolezza psichica mi schiacciava sulla roccia, la testa semi­seppellita sotto un masso che dava un po’ d’ombra. Forse non ero destinato alle visioni, chi le desidera non le avrà mai, forse perché non ne ha bisogno. L’unica necessità è quella di morire, morire fisicamente e psichicamente, una morte non solo di sogno e non solo simbolica. Ma era duro accettarla. Quanto avrei resistito ad un indiano che volesse accoltellarmi, tanto resistevo allora sotto il sole feroce a la­sciarmi andare e avevo paura di un trapasso che sentivo logico, necessario e inevitabile.
– Solo se muori, tu passerai di qui!

Franco Perlotto sulla fessura dopo El Cap Spire

Ma un richiamo dall’alto mi scosse. Franco era arrivato in cima. Salii a jumar meccanicamente e con la bava alla bocca fino alla fine della parete verticale. Il trentaseiesimo tiro di corda era facile e giunto sull’altopiano sommitale mi accasciai disteso. I compagni mi seguirono veloci.

Lasciammo tutto il materiale sulla cima per non trasportare nulla in quelle condizioni e ci dirigemmo verso la valle a est del Capitan, lungo una scomoda boscaglia, pietraie e spine. A novembre la valle dell’Eagle Creek era asciutta. Alle 16.30 trovammo un filo d’acqua e finalmente bevemmo. Poi, barcollando, continuammo la discesa verso il campo che raggiungemmo alle prime oscurità.

El Cap Spire: la foto storica di Tom Frost.

La parete
Avevamo in tasca la parete. Inoltre ero felice di esserne uscito vivo dopo un’esperienza di morte, curiosamente a trentatré anni esatti dal mio concepimento. Però mai come allora fui così inquieto sulla reale validità della nostra impresa.

C’erano due punti che mi stavano a cuore, uno personale e uno che potevo dividere con gli altri. Con Franco e Marco, ma anche con tutti gli alpinisti italiani, c’era la vittoria «strappata», la poco elegan­te riuscita su una parete che aveva visto ben altri vincitori. Eravamo venuti in California obbligati a vincere, ad ottenere il risultato. Chiunque fosse venuto dopo di noi avrebbe dovuto tener presente che vittorie del genere servono a poco; ciò che importa è lo spirito con cui si va a fare la cosa. Con umiltà avrei voluto tornare, senza progetti e senza mete, ma con l’intenzione di imparare, di capire perché noi siamo rimasti così indietro. L’8 novembre con Nella e Marco facemmo una gita fotografica all’Eagle’s Point e alla Washington Point. Per questa ragione i giorni seguenti mi dedicai con Marco ad arrampicare, con quella sensibilità che poco ha da spartire con il risultato. Salimmo Commitment e Surprise sui Five Open Books (9 novembre). Con Chouinard come maestro scalammo la Jam Crack sul Sunnyside Bench e la Moby Dick Center alla Base del Capitan (10 novembre). Franco era già partito in tutta fretta. Questo è l’insegnamento che mi è stato impartito e che sento di dover condividere con gli altri, se gli altri vorranno. Ma il mio io ricevette ben altre lezioni. Infatti seppe subito che non era quella la parete da salire, quella era stata solo un esperimento, una dura prova, un primo gradino.

Marco Preti su El Cap Spire

Di fronte alla gente, agli alpinisti, di fronte a chi ci aveva aiutati potevamo tornare a fronte alta, ma non potevamo tenerla troppo alta perché quella parete era solo una prova generale e la grande recita doveva ancora prepararsi.

Una scalata più simbolica che reale s’era impadronita del mio futuro e la parete divenne più complicata. Il Capitan non bastava più perché era troppo nudo e troppo semplice, troppo reale. E l’Amore? Sì, quello fu un successo. Per poco morivo d’amore! Ma la semplicità di linee e il vigore brutale della Salathé avrebbero dovuto trasferirsi nella mia capacità di scalare la Parete. Le complicazioni di una vita che domanda molto su di sé dovevano essere cancellate e risolte con la semplicità.

Alessandro Gogna su El Cap Spire

Una sera ci fece visita l’orso. Quella volta lo vedemmo bene, perché la luce della torcia elettrica non lo infastidiva molto. Nella notte qualcuno spostò per far posto alla sua roba un nostro zaino, avvicinandolo troppo al tronco. La mattina lo trovammo a terra squarciato, perfino una lattina di birra l’orso si era bevuto. Intorno erano sparsi gli avanzi, lo zaino era da buttare.
Il giorno dopo cominciò a nevicare. Era arrivato l’inverno.

Invitati da Chouinard andammo a trovare lui e la sua famiglia (simpaticissimo il figlio piccolo, Fletcher), a Ventura, in riva all’oceano. Ma poi fu necessario tornare, sempre passando da Londra. Pochi giorni dopo con Nella andammo alle Fate Nere, dove ripresi i miei lavori di scrittura e le mie corse solitarie sui sentieri di Mascognaz, dell’Alpe Circerio e di Resy.

Marco Preti sull prima lunghezza della Head Wall

Su Tuttosport Emanuele Cassaràci dedicò un articoletto intitolato Umiltà dopo l’exploit in USA:

Il “ritorno” di Alessandro Gogna all’alpinismo di primo piano è coinciso con una sua esperienza — compiuta con Franco Perlotto e Marco Preti — sulla più classica delle vie “americane” della Valle Yosemite in California: la Salathé sul Capitan, a sinistra del “Naso”. Sono 950 metri di difficoltà estreme (14 chiodi a espansione già infissi) con lunghe fessure e numerosi pendoli e anche brevi corde doppie per scendere e risalire più in là. I tre hanno impiegato tre giorni e mezzo.

Allora eri in gran forma?
«Neanche tanto, stavo bene. Abbiamo fatto un buon tempo anche se non eravamo impegnati in quel senso. Non era il nostro scopo principale. Ma c’è gente laggiù che l’ha ripetuta in 12 ore!».

Ci spieghi le differenze tra “noi” e “loro”?
«Sono tecniche.. Il “gap” è tecnico, più che atletico. Dobbiamo reimparare ad arrampicare: ho preso qualche lezione da Chouinard. Mani, braccia, gambe, tronco loro li usano diversamente da noi. Forse dovremmo fare cure di calcio, perché loro stanno su una sola mano ma questa mano è un mezzo artificiale, è un osso che infilano nella fessura e non fanno uno sforzo muscolare, mentre noi dobbiamo lavorare di pura forza. Dobbiamo rimboccarci le maniche in umiltà. C’è un abisso tra noi e loro. Noi facciamo le fessure di 5.6 (V+) ma bisogna farle come loro e noi sul 5.9 (VI+) rischiamo di cadere, loro vanno sul 5.12 e adesso sul 5.13 sema cadere. Noi sul 5.10 (VII grado) in libera non passiamo nemmeno se siamo assicurati».

Allora?
«Tutti a scuola. Non sappiamo niente...».

In Italia c’è scetticismo. Dicono: vediamo cosa sanno fare sulle grandi Alpi, sul ghiaccio…
«Rispondi a questi amici che non si facciano illusioni…».

E voglio qui di seguito riportare anche una breve intervista che rilasciai a Lo Scarpone nel maggio del 2007:

Marco Preti sull prima lunghezza della Head Wall

Sognando la California
California dreaming… Quanti alpinisti non hanno sognato negli anni Settanta la California? Non fa eccezione Alessandro Gogna, protagonista nel secolo scorso di un importante alpinismo di ricerca sulle pareti del mondo […]. E che al festival di Trento ha rimesso a fuoco giovedì 3 maggio 2007 luoghi e personaggi dell’arrampicata nella californiana Yosemite Valley. Successo assicurato. Dialogando sulla ribalta dell’auditorium Santa Chiara con il caposcuola americano Royal Robbins, nessuno meglio del nostro grande alpinista dall’inconfondibile accento genovese ma dal cuore meneghino, avrebbe potuto rievocare un modo di arrampicare che affascinò gli europei in quegli anni.

Il pubblico esperto del Santa Chiara ha ascoltato in religioso silenzio. Sul palcoscenico la cronaca alpinistica tornava a farsi materia viva, incandescente. Ed è intuibile che anche l’imperturbabile Gogna, supercollaudato nelle adrenaliniche solitarie alla Walker e alla via dei Francesi sul Rosa, abbia provato qualche sottile vibrazione nel ripercorrere momenti cruciali che all’epoca hanno dato forma non solo a uno stile di alpinismo ma anche a uno stile di vita. Della sua vita.

Eppure”, ricorda Alessandro poco prima di affrontare una platea traboccante e coinvolta allo spasimo, “in Europa nei primi anni Settanta cominciavamo appena ad accorgerci che oltreatlantico stava crescendo una scuola. Tra l’altro alcuni di questi alpinisti a stelle e strisce avevano già fatto scalpore sulle Alpi. Mi riferisco per esempio alla trasferta nelle Alpi degli americani Robbins e Frost che nei primi anni Sessanta si sono battuti da leoni sulla sud dell’Aiguille du Fou, sulla via degli Americani al Petit Dru e altrove sul Bianco riducendo i passaggi artificiali fino a compiere scalate libere di elevatissima difficoltà. Il culmine del loro operare fu nel 1966 quando John Harlin morì sulla Superdirettissima all’Eiger, un’esperienza che fece molta sensazione. Ma, ripeto, l’interesse nei loro confronti si è acceso gradualmente. Soltanto negli anni Settanta abbiamo capito come stavano andando le cose, e questo anche grazie alla rivista Mountain”.

Sulla sommità di El Capitan

In che direzione si focalizzava invece in Italia l’interesse degli appassionati di alpinismo?
Al di là di Bonatti e Maestri, molto carismatici, non si andava. Ma proprio in quegli anni l’alpinismo italiano aveva trovato personaggi nuovi, sconosciuti. D’inverno sulla Nord-est del Badile siamo schizzati alla ribalta, chi l’avrebbe mai detto? Era il Sessantotto. Ben presto sarebbe arrivato il Nuovo Mattino, con una visione anche sociale dell’alpinismo”.

Ricordi come è avvenuta la scoperta di Yosemite?
Fu un francese, Patrick Cordier, a rompere il ghiaccio compiendo la seconda solitaria al Nose e scrivendo un articolo rivelatore su La Montagne. S’intitolava, ricordo, Una bella domenica. Fu il segnale. L’attrazione esercitata su italiani, francesi e tedeschi dalla Mecca californiana dell’arrampicata andò alle stelle. Meglio tardi che mai. Una decina d’anni prima, nel ’58 Warren Harding aveva fatto il Nose: 47 giorni di salita, un impiego di materiale che potremmo definire esagerato ma non lo era affatto a fronte di difficoltà incredibili. E tre anni dopo, nel 1961, l’apertura della Salathé, un’altra avventura destinata a segnare un’epoca”.

Come mai tanta miopia?
In effetti l’Europa era ferma alla Philipp-Flamm in Civetta di cui si celebra quest’anno il cinquantennale. Era l’esempio più alto come concezione d’impresa: grande via, ambiente grandioso, appena trenta chiodi impiegati per superare difficoltà davvero estreme. Rispetto a quella, le scalate più note dell’epoca erano assai più artificiali, rivelando l’impossibilità per gli alpinisti di andare oltre un certo livello in quel momento. Mi riferisco per esempio alla Brandler-Hasse alla Grande di Lavaredo. Impresa eccezionale, ma con precisi limiti. Lì sono stati messi anche chiodi a pressione che allora erano un peccato quasi inconfessabile. Ora possiamo convenirne: con la salita al Nose del 1958 la leaderhip dell’alpinismo mondiale su roccia si era già spostata in California si era spostata in California”.

Ventura, novembre 1978: la casa di Yvon Chouinard.

Ma gli americani avevano davvero delle marce in più?
Di fatto ci stavano insegnando qualcosa. Sicuramente un uso diverso del materiale e anche una mentalità più aperta. Osavano molto, d’accordo. Ma la temerarietà la vivevano in maniera molto più costruttiva e positiva”.

In che cosa differiva l’attrezzatura?
Noi non disponevamo come loro di stopper, né di nut da incastrare nelle fessure. Erano attrezzi nati laggiù, o almeno l’uso era stato consacrato su quelle pareti. Anche il friend è nato in California e poi portato sulle Alpi. E subito accettato e usato”.

Come ricordi la tua prima avventura a Yosemite?
Era l’ottobre 1978, siamo volati laggiù sulla scia di Giorgio Bertone e Lorenzino Cosson, andati in avanscoperta sul Nose, e quasi in contemporanea con Gian Carlo Grassi e Renato Casarotto. Eravamo animati da una curiosità che definire enorme è poco. Ricordo che nonostante tutte le fotografie passate in rassegna del Capitan, al suo cospetto non mi sono trattenuto e ho espresso la mia meraviglia con il cuore che mi batteva a mille. E dire che di montagne importanti ne avevo viste e collezionate parecchie, se mi si consente questo termine. Ero in compagnia di Franco Perlotto e Marco Preti. E lo riconosco: di prim’acchito ho provato come un timore reverenziale, una sensazione che mi attanagliava all’idea di dover scalare quei graniti levigati e strapiombanti e fortemente simbolici”.

Del fuoriclasse Royal Robbins che idea ti sei fatta?
Lo ho conosciuto anni fa a Trento, e subito ne abbiamo approfittato per arrampicare insieme. No, nessuna soggezione nei suoi confronti. Anche se Robbins è un tipo austero e la sua aria poco malleabile può mettere a disagio”.

Ventura, ottobre 1978: Yvon Chouinard e il figlio di quattro anni, Fletcher.

Ma, insomma, Yosemite è davvero una Mecca in termini di libertà e vicinanza alla natura?
Bando alle esagerazioni. Non è che noi alpinisti europei all’epoca fossimo degli zozzoni. Mentre è vero che a Yosemite gli escrementi degli scalatori rendevano impraticabili le cenge dove si era costretti a sostare. Fortuna che oggi vige l’obbligo di riportare a valle le deiezioni”.

Quali altre mode abbiamo importato?
Molte: una delle più plateali è stata l’arrampicata hammerless, cioè l’arrampicare senza martello. Niente martello, niente chiodi. Così le fessure della roccia non si danneggiano irrimediabilmente. L’assicurazione si basa perciò sui nut, piccoli dadi da incastrare con delicatezza e poi togliere, e sui friend. L’alpinismo californiano ha contribuito, questo sì, a introdurre mezzi leali nell’arrampicata. Specialmente nei paesi alpini dopo l’abbuffata di scalate artificiali e di ferraglia. Lo confermo. Quell’alpinismo ha rappresentato un momento di riflessione che ha ispirato i Messner, i Cozzolino e un pochettino anche i Gogna”.

Ma se, zitto zitto, a sessant’anni tu dovessi oggi tornare laggiù…
Oggi come oggi sceglierei salite brevi, sette o al massimo otto tiri tranquilli. La voglia di penare mi è sicuramente passata. A meno che non si tratti di una via storica. Ma allora preferirei restare nelle Alpi dove avrei ancora parecchio da scegliere. E da fare prima che sia troppo tardi”.

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L’oro della California – 2 ultima modifica: 2021-08-25T05:41:00+02:00 da GognaBlog

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3 pensieri su “L’oro della California – 2”

  1. Luigi Meneghello.” quant’e’bella giovinezza quando tutto fila per il verso giusto e nessuno ti rompe le giovani palle”
    Contrordine compagni, la scienza fa passi avanti, si potrà ripetere ogni impresa giovanile!Allo studio la proteina “Braccio di  ferro”, oltre a nuovi materiali ed aggeggi.
    https://www.estense.com/?p=283443
    Pero’aggiungono  sempre che la cosa e’allo studio..le applicazioni  per la massa che va in negozio sportivo o farmacia  anche e-commerce +consegna a casa del pacco, ancora da venire , col tempo,… forse.

  2. Un caschetto  da roccia a forma di coppola sarebbe da escogitare..come pure un pannolone da parete…tanto  prima o poi ci si arriva, tanto vale collaudarne qualcuno.Per arrivare ad un completo hammerless, non resta che sperare nella ricerca tecnologica sull’effetto GEKO di alcuni  materiali , specie scarpette e guanti , ma anche ginocchiere e gomitiere e giubbini.
    Ma gia’ ci sono arrivati, digitare “Guanti geko ice C**p ” ..ed ho trovato persino il nome  brevettato di un materiale innovativo Pit*** Arm*****definito grippante ed antiusura.Per i pesi un paranco manuale o elettrico non massiccio, poco pesante  buono per max 50-60 chili.Opss ,esiste gia’ manuale  , ditta K**g, oppure oy**a. ovvero il grido dei marinai che issano le vele. Si arriva sempre  inanticipo sulle invenzioni.Per l’avanzare dell’eta’ ci vorrebe un trattamento ad acido jalur***..non a pomata ma per immersione prolungata in vasca come lo stoccafisso..

  3. Bellissima descrizione e riflessioni su questa esperienza.
    Grazie Alessandro

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