Mai mollare… l’appiglio!
si può sempre vedere oltre…
di Maurizio Giordani
(pubblicato su Annuario del CAAI 2019)
Questa frase ben si collega al contenuto autobiografico del mio libro Appigli sfuggenti, edito da Alpine Studio. Vi si legge il legame con l’arrampicata, ma non solo. Una scuola di vita, un esempio di determinazione, di passione vera, che non si assopisce con il tempio che passa… anzi.
Lastei di Formin e Pale di San Martino…
Il “vizio” è rimasto intatto, davanti o sotto una parete di roccia. Lo sguardo fisso là, dove sembra che il terreno sia ancora inesplorato, dove la “via nuova” potrebbe starci. Ripetuta Re Artù su Cima Lastei ai Lastei di Formin, subito torno con Nancy a “toccare” la possibilità, di poco a sinistra, poi a salire con decisione… troppo bella la roccia su questa assolata parete, perfetta la linea, la sequenza di buoni appigli che mai si interrompe. Lo stesso accade nelle Pale di San Martino, dopo aver salito il Pilastro Rosso di Heinz Grill e amici su Cima Immink… torno con Luciano per “vedere” se quella linea individuata sulla Cima Rodetta non è ancora stata percorsa e la “sorpresa” si ripete, anche se sembra impossibile. Nessuna traccia di passaggio, roccia perfetta, scalata divertente, mai banale ma nemmeno estrema.
Il piccolo trapano appeso all’imbrago oggi è una presenza frequente. Come un tempo, non eccedo nel mettere protezioni… è raro trovare difficoltà non obbligatorie lungo le mie vie ma alle soste mi sono abituato a mettere uno spit con anello e anche prima dei tratti difficili, se non ho buone alternative, tendo a proteggermi con uno spit. Stravolto modo di pensare? Cambio di etica? Non credo. Le mie convinzioni sono ancora solide e la mia scala dei valori in alpinismo inalterata da moltissimi anni, tanto che ancora oggi come ieri definisco l’incognita affrontata senza mezzi di aiuto il massimo possibile in arrampicata (la via nuova in free solo per intenderci). E le salite che ho effettuato in questo stile, le mie più belle in assoluto.
Ho però anche potuto constatare come questo messaggio non sia affatto recepito per cui salite di immenso valore e bellezza restano praticamente abbandonate (vedi la via Fantasia in Marmolada per tutte, ancora oggi non ripetuta, e di esempi così potrei farne a decine).
L’uomo ama scendere a compromessi… e a giustificarli.
In passato non mi son fatto mancare nulla in fatto di esperienze estreme e posso considerare la mia ambizione perfettamente gratificata; per questo non mi agito davanti all’idea di qualche pezzo di metallo in parete. Vediamo cosa succede con meno rischio e con qualche aiuto in più…
Marmolada…
Sono passati poco meno di quarant’anni da quando toccai per la prima volta la roccia della Marmolada e, se devo essere sincero, un po’ mi stupisco di me stesso, ancora entusiasta e sognatore come non mai, quando osservando le foto della parete sulle quali aggiungo e correggo tracciati davanti al computer, ancora sono rapito da progetti di nuove avventure, come se nemmeno un decimo di tutto questo tempo fosse passato. Forse non sono poi invecchiato molto, non nell’ardore… anche se gli acciacchi di oggi pesano diversamente da quelli di ieri e lo specchio e la data di nascita scritta sulla carta d’identità troppo spesso riportano a una realtà che si vorrebbe scordare.
Con Nancy (Nancy Paoletto, NdR) arranco lungo i pericolosi dirupi che separano la parete dai ripidi prati della val Ombretta, verso est, verso il Seràuta. Per trovare tratti di parete libera, ormai bisogna allontanarsi dalle zone più famose e frequentate e “cercare” là dove bisogna camminare almeno un paio d’ore, se non di più, prima di legarsi e scalare in verticale… Il temporale ci prende in alto e l’ultima funivia è ormai persa… arrivare all’auto richiede un ultimo sforzo di tre ore di discesa lungo il non semplice vallone d’Antermoia ma un altro progetto appena inventato ha trovato forma e nome, ispirato da quel grande masso in vetta, a forma di pescione…
Valle del Sarca…
Giornata quasi primaverile ad Arco, con un bel sole e temperatura gradevole, anche se ieri la prima neve ha imbiancato le montagne tutt’intorno. L’orologio del campanile di Dro ha da poco rintoccato l’una del pomeriggio e il sole, qui alle Coste dell’Anglone, sta ormai girando dietro le rocce della Mandrea. Devo sbrigarmi se voglio scalare al caldo. Mi cambio i pantaloni e la maglietta, poi sistemo il sacchetto della magnesite, le comode scarpette e la fedele, leggerissima giacca nell’altrettanto super leggero zainetto e mi avvio fra i campi, dov’è in atto la raccolta delle olive.
Il mio coniglio Weddy è ghiotto di tarassaco e per recuperargliene qualche foglia nel campo dove cresce abbondante in fondo al Sentiero degli Scaloni ho deciso, come spesso mi accade, di fare il “giro largo”. Di giornate come questa, spesa per gran parte al lavoro dai miei clienti di Arco ma arricchita in pausa pranzo da una piacevole arrampicata in solitaria, ne ricordo moltissime, ed ognuna ha una sua piccola storia da raccontare…
Mentre salgo lungo una delle vie di Grill, i movimenti si susseguono fluidi, decisi, mai affrettati. Con calma valuto ogni appiglio, ogni sequenza prima di affrontarla, poi tutto si esegue in modo naturale, senza titubanze, in perfetta sicurezza.
La parete termina nel bosco dove un tranquillo sentiero di discesa mi riporta in basso mentre ancora mi accompagna quella piacevole sensazione di godimento, provata durante tutta la salita, e che ogni volta sono felice di riassaporare quando “tocco” la roccia, oggi come allora…
… e il pensiero torna al 1979, proprio là dietro l’angolo, sul pilastro della Mandrea, quando Ciano Stenghel mi diceva “adesso vai avanti tu”, sulla via Black Hole che stavamo aprendo. Ripide fessure, strapiombi… e quell’insolita, eccitante emozione derivante dalla recondita percezione di essere dove si vorrebbe essere, a fare quello che si ama fare.
Una passione “vera” che non si è mai assopita e che mi ha chiamato infinite volte là, dove la roccia si raddrizza, dove nulla è facile, scontato, dove tutto va pesato, meritato… e dove tornerò ancora, per altre infinite volte, fin quando avrò la forza di farlo…
Sardegna…
La Sardegna, nel mio immaginario, nei miei ricordi e nei miei sogni è da sempre presente con forza… un richiamo irresistibile. Fin da quando, giovane appena licenziato e disoccupato, comprai con i pochi risparmi, circa 2.000.000 di vecchie lire, uno scassato furgone Ford Transit che in qualche settimana di lavoro trasformai in un confortevole mini camper, dopo averlo sventrato, riverniciato, allestito all’interno con una serie di mobili ed accessori tutti disegnati e costruiti ad hoc con l’auto di un amico falegname e rimotorizzato con un nuovo blocco motore di dubbia provenienza… Con Rosanna (Rosanna Manfrini, NdR) di norma si partiva a primavera e quando non si andava a Finale o in Verdon, o dopo essere passati in questi mitici luoghi di richiamo per arrampicatori, tappa d’obbligo era Cala Gonone, dove incontravamo gli amici, Francesco e Marilena in primis, e con il loro gommone esploravamo fin nei luoghi più reconditi il golfo di Orosei, alla ricerca di rocce da scalare e di nascoste calette dove fare il bagno. Naturalmente non tralasciavamo l’entroterra, il Supramonte, la valle di Lanaitto, le gole di Su Gorropu, e tutto il resto dell’isola che si rivelava ad ogni nuova scoperta un incredibile paradiso per chi, come noi, ama i luoghi selvaggi e non facilmente accessibili dove scalare, camminare, fare speleologia, nuotare, ecc. Quando, nella primavera del 2015, con Nancy, Paola e Ingo andiamo a conoscere il famoso trekking Selvaggio Blu, in molte occasioni mi sono trovato a ripercorrere tratti che avevo già esplorato molti anni prima, quando questo percorso non era ancora arrivato alla notorietà.
In un tardo pomeriggio d’inizio primavera, con Luciano Ferrari passiamo a salutare Ruggero al ristorante “La Lanterna” da lui gestito vicino ad Arco, sotto la parete di San Paolo; come al solito dopo una bella giornata in parete una birra e un saluto agli amici che qui s’incontrano è un’abitudine alla quale non vogliamo rinunciare. Arriva anche Giuliano Stenghel, al rientro dalla via Sette Muri, scalata con la moglie e la figlia, in occasione del compleanno di lei. Si lamenta di un friend Camalot blu rimasto su, nella fessura dove lo ha dovuto lasciare incastrato. Detto fatto; bastano pochi minuti e siamo pronti per tornare in parete. Dopo quasi quarant’anni mi lego ancora in cordata con Giuliano… l’occasione non può essere mancata. Anche Luciano non si tira indietro, nonostante il buio imminente, e in quattro e quattr’otto siamo di ritorno, davanti al banco del bar con in mano un bicchiere di buon prosecco e con il friend appeso all’imbrago. Allegria ed entusiasmo prendono il sopravvento e quando arriva da parte di Giuliano l’invito a passare qualche giorno a casa sua vicino a Olbia per scalare assieme sull’isola di Tavolara, dove non sono mai stato, prendiamo l’occasione al volo e accettiamo. Si torna in Sardegna… In quattro sul gommone che salta sulle onde (si è aggiunto Giorgio Zeni al gruppetto) passiamo dal “re” dell’isola che gentilmente si offre di gestire l’imbarcazione mentre siamo in parete. Bisogna letteralmente “saltare” sugli scogli con estrema prudenza per non farsi male sulla roccia tagliente o/e finire in acqua; poi un infinito blu davanti agli occhi, di cielo e di mare.
Sono tre giorni intensi, quasi frenetici perché le cose da fare e vedere sono molte, ma quando si condivide passione, affiatamento ed entusiasmo il tempo vola… e l’aereo riparte. Rimangono le parole, molte, dette alle soste fra un tiro e l’altro o davanti a un buon piatto di gnocchetti sardi o uno spaghetto allo scoglio (non per me che non mangio pesce), con la bocca un po’ impastata dal Cannonau e l’animo emozionato, quasi sommerso dal gentile, straripante misticismo di Giuliano che racconta delle sue terribili vicissitudini, turbato dalla sua apparente serenità raggiunta, delicatamente impressionato dal fervore che ci avvolge.
La roccia è l’anello di congiunzione che ci lega, che ci accomuna, e sulla Tavolara riveste un’attrazione ineguagliabile per la sua varietà di colori, per la sua ottima qualità, tagliente, aderentissima, disegnata dall’acqua e dal vento con incredibile fantasia in sequenze di appigli ideali da seguire, contornata da un ambiente da sogno, ardito, pure severo se si vuole, ma affascinante come pochi. Grazie!
Civetta…
In Civetta ho scalato relativamente poco. Ho ripetuto la maggior parte delle vie classiche e storiche ma nessuna via nuova e “solo” una veloce solitaria free solo sulla via Tissi alla Torre Venezia. Bisogna rimediare… Propongo a Manrico Dell’Agnola, lui super specialista del Civetta, la mia idea di una nuova linea in Busazza, fra la Anghileri e la Videsott, e lo trovo disponibile. Detto fatto.
Lui ama la velocità e le fessure, io le placche e le pareti al sole… entrambi siamo del 1959… cordata perfetta e collaudata. Due giorni di bella scalata, prima lungo rocce articolate, poi per impegnative placche grigie ci raccordiamo in alto con gli ultimi tiri dello spigolo Videsott e nasce la via dei Veterani, indipendente per i primi 800 metri, da “raddrizzare” con un’uscita diretta e indipendente se avremo forza e voglia in futuro…
Sella e Sassolungo…
Anche nel gruppo del Sassolungo ho scalato poco in passato… a dirla tutta fino a poco tempo fa nemmeno ero mai arrivato in vetta alla cima principale quindi alla prima occasione, una giornata senza compagno e senza impegni, mi inerpico veloce lungo la via Pichl, scendo lungo la via normale e colgo l’occasione per studiare attentamente la parete, in cerca di possibilità non ancora sfruttate, di rocce ancora “libere”. Man mano che il tempo passa, le possibilità di trovare roccia “vergine” da scalare dovrebbero ridursi inesorabilmente, ma i fatti mi danno torto e le linee non ancora sfruttate “saltano fuori” di continuo, inaspettatamente… Solo poco tempo fa, con Massimo Faletti, ero su una delle pareti più sfruttate in Dolomiti, la sud del Piz Ciavazes nel gruppo del Sella, oltre la cengia dei camosci, e stavamo scalando una perfetta nuova linea, pure abbastanza logica ed evidente, seppur impegnativa.. . la via Pil Astro.
In Sassolungo torno con Luciano e in una splendida giornata di agosto troviamo la giusta sequenza, lungo una successione di 6 pilastri, uno sull’altro, come avevamo fatto qualche tempo prima in Marmolada. In vetta, lo sguardo segue la mente, o viceversa, là verso l’orizzonte, dove, sono certo, mi ritroverò ancora in simili momenti, apparentemente uguali a molti altri e come molti altri unici e irripetibili…
Ancora Marmolada…
Non è nata per caso. La via dei 6 Pilastri e la via Piacevolissima si sono disegnate lentamente sulla grigia roccia del Seràuta; in più riprese abbiamo salito faticosamente i ripidi pendii erbosi oltre Malga Ombretta, spesso con compagni diversi, aggiungendo di volta in volta una nuova pennellata di colore al complesso quadro in realizzazione. Un omaggio all’amicizia, perché chi ha partecipato, a modo suo, ha dato una mano con grande disponibilità, seppur con discrezione, ma anche un omaggio al piacere, al gusto di arrampicare, di salire su bella roccia, con buone protezioni, seppur su di una grande parete, mai banale. Un omaggio a un nuovo modo di intendere l’arrampicata in alpinismo, diverso, lontano dal come l’ho sempre vissuta, in oltre 30 anni di attività.
Preparando questa via per una ripetizione sicura e divertente, non ho però voluto mancare di rispetto a una mia etica consolidata, nella quale ancora credo. Mi sono solo avvicinato di un po’ alla concezione moderna di via, dove il rischio, e l’imprevisto, sono sempre meno presenti, anche se mai totalmente eliminabili.
Come non è nella mia natura cercare scuse, per giustificare un insuccesso, allo stesso modo rifuggo dal facilitare, dall’appianare, dal semplificare in eccesso, per arrivare prima e meglio all’obiettivo. Nella vita di tutti i giorni, o nel lavoro, come in alpinismo, non mi riconosco facilmente negli ideali di chi pensa che tutto deve essere dovuto, garantito, protetto, assicurato. Non parlo del minimo indispensabile, al quale, in una società civile, devono poter accedere tutti coloro non in grado di auto sostenersi; parlo di tutto il resto, al quale ognuno di noi deve poter arrivare in base a quanto tempo, impegno, capacità, caparbietà, vi ha dedicato. In base a quanto ha rischiato, a quanto ha messo in gioco, a quanto si è messo in gioco. In alpinismo, un tema di grande attualità sono, ad esempio, le vie di Heinz Grill nella valle del Sarca. L’ho definito un grande parco giochi per l’arrampicata, una specie di Gardaland, dove anche io, spessissimo, vado a divertirmi. Heinz sceglie, con incredibile intuito, tratti di parete dalle ottime premesse; sale in apertura dal basso e in uno stile rispettabilissimo, poi addomestica la via, la lavora, la pulisce, aiutato dai suoi amici, per renderla piacevole all’arrampicata, sicura, facilmente accessibile ai più. La frequenza con la quale questo tipo di vie sono ripetute, si parla di centinaia di ripetizioni all’anno, decreta automaticamente il successo dell’iniziativa, più che azzeccata.
Ma è veramente tutto così perfetto? Intoccabile?
Senza approfondire sembrerebbe di sì… Tutti si divertono giocando in quel mondo verticale dove, fino a poco tempo fa, si faticava, si rischiava, si moriva… Dove trovo allora qualcosa che non mi convince?
Solo nel paventato timore che, percorrendo sempre più questa strada del tutto più facile e bella, si arrivi a pensare, e ad abituarsi, che questa realtà virtuale sia invece reale e, soprattutto, sia dovuta. Dietro la divertente salita di Adonis (per fare un esempio) vi è il lavoro di chi l’ha concepita, realizzata, adattata, di chi la controlla e mantiene in ordine, di chi si presta a soccorrere chi non ce la fa, o capita nell’imprevisto. A questo volevo arrivare. Mi spaventa l’idea di vivere in una società dove tutto sembra un gioco, dove le automobili sono sempre più automatiche, i cibi preconfezionati, tutto più robotizzato, tutto più accessibile, facilitato, semplificato. Mi spaventa l’idea di vivere come in un videogioco dove, davanti ad uno schermo, sono trasportato in un mondo dove vorrei essere, divento quello che vorrei essere, faccio quello che vorrei fare… senza che nulla di tutto questo sia reale o, meglio, realmente guadagnato, conquistato. Sarò masochista ma per arrivare da qualche parte preferisco faticare, rischiare, sudare, temere di non farcela, stringere i denti, rinunciare anche, ma tutto in una realtà plausibile, dove mi riconosco. Forse qui entra in gioco la via di mezzo; la capacità, non sempre scontata, di mediare, lasciando al campo dei propri meriti personali il giusto spazio per saper affrontare la via, quando si esce dal gioco e si entra nella realtà, con dignità e autorevolezza. Tali mie radicate convinzioni, devo dire, sono state messe in discussione in ben più di una occasione. Premesso che illudersi di vivere in un mondo “giusto” o illudersi di voler creare un mondo “perfetto” è pura utopia, quando le delusioni ti toccano nel vivo l’amarezza che si accumula è una presenza ben difficile da scacciare. L’argomento si sposta nel campo del mio lavoro dove, a causa di eventi che si potevano prevedere ma che si sperava non si verificassero, ho dovuto prendere decisioni importanti e difficili, per prevenire disastri ancora peggiori. Mi riferisco al mio più che consolidato rapporto con la ditta Samas ed il marchio Mello’s, per i quali ho lavorato con grande entusiasmo ed ottimi risultati per ben 27 anni. È del giugno 2011 la decisione definitiva di abbandonare quel progetto, a causa dell’ormai totale perdita di fiducia nelle capacità di chi dirige l’azienda, di chi può concretizzare o distruggere tutto quello che io posso e voglio fare nel mio lavoro di ideazione, realizzazione, promozione e vendita del progetto e della collezione Mello’s. Ho sempre amato il mio lavoro, forse perché sono riuscito, nel tempo, a catturare quelle opportunità che mi permettono di legare fra di loro professione e passione. Non sono una guida alpina, un responsabile prodotto, un agente di commercio, uno scrittore, uno stilista, un commerciante di articoli per la montagna ma tutte queste professionalità mescolate assieme, per dare a ciò che faccio il sapore vero della competenza, derivante dallo svolgere attività tutte legate fra di loro e ad un unico comune denominatore; la mia grande passione per l’avventura e per la montagna.
Forse per questo non riuscirei, come non sono riuscito in passato, ad adattarmi ad un lavoro di routine, per me monotono e carente di opportunità, di entusiasmo, oppure ad adattarmi ad essere guidato da persone alle quali non riconosco la capacità di guidare nemmeno se stesse. Non riesco ad adattarmi alla rassegnazione, all’appiattimento, alla mancanza di prospettive interessanti. Forse, come in alpinismo, non riesco ad adattarmi alla mancanza di rischio… La via dei 6 Pilastri, in fondo, si è concretizzata mentre tutto questo succedeva e può decretare similitudini curiose. Sui primi tiri di corda ero vestito Mello’s ed ho usato il trapano a batteria per posizionare gli spit; sugli ultimi tiri mi sono vestito Karpos, la nuova avventura, il nuovo progetto sul lavoro, ed il trapano ha lasciato posto al tradizionale martello ed ai classici chiodi che, se ben piantati, sanno fare il loro dovere di protezione. Presente e passato, classico e moderno, ancora si intrecciano lungo il mio percorso. Pur nella ricerca di esperienze sempre nuove, non so rinunciare a costruirle su solide basi di convinzione etica e cognitiva; ecco perché anche la più recente nuova via non è altro che un aggiornato condensato di ciò che ho alle spalle, di bello e di brutto.
Brenta…
Il Croz dell’Altissimo, in Brenta, non può essere dimenticato. È una montagna, anzi, una parete importante, nel mio alpinismo. Il mio primo bivacco… la mia prima invernale… la mia prima via nuova importante… e ora, una delle mie ultime, importanti salite in roccia… Non è cosa da poco; un muro di calcare alto un chilometro, per nulla facile da salire. Va detto che nessuna parete alta più di 500 metri va sottovalutata, ma sul Croz non è solo la quantità di tiri di corda necessari per uscire in vetta a decretarne l’impegno ma anche la tipologia della scalata (mai banale), le caratteristiche della roccia (spesso levigata o friabile) la presenza di erba nelle fessure (data la relativa bassa quota), la difficoltà nel posizionare protezioni adeguate… La prima invernale della via Loss-Destefani, a Capodanno, è stata una bella, piccola avventura ma quello non fu il mio primo approccio al Croz… in cordata con l’amico Baldix (Alessandro Baldessari, NdR) affrontammo la Detassis-Giordani come nostra prima via importante dell’estate 1980… il bivacco poco sotto la vetta non fu una sorpresa; avevamo con noi materiale sufficiente a ripararci dal freddo della notte, che passò senza problemi. In moltissime altre occasioni, successivamente, mi è capitato di bivaccare in parete, ma l’emozione vissuta durante la prima volta è ancora presente nei miei ricordi.
La grande parete inizia a est con lo Spallone, ripido, repulsivo, dove si nota una successione di fessure non ancora salite, proprio nel mezzo. Con Franco Chicco e Delio Zenatti non sarà semplice averne ragione, per quella che diverrà la via Direttissima, il primo importante passo di un lungo cammino di esplorazione. Poi molti ritorni, per ripetere quasi tutte le vie esistenti, e una ricognizione con Rosanna, là sotto i grandi tetti della via Detassis-Giordani, dove avevo individuato una possibile linea non ancora salita. Fu la premessa della via degli Accademici, conclusa con Marco Furlani in una ideale giornata di arrampicata, una di quelle durante le quali tutto va per il verso giusto…
Molti anni dopo, nella primavera del 2012 torno sul Croz… per non perdere il vizio. Un mio vecchio progetto rimasto nel cassetto troppo a lungo e, per fortuna, mai ripreso da altri… un ampio, lungo lembo di roccia ancora vergine, dove la parete precipita in tutta la sua altezza.
Con Nancy un primo tentativo, poi un secondo condito da un bivacco in parete fra lampi, tuoni e scrosci di pioggia e infine la conclusione, due anni dopo, ancora con fulmini e grandine, fortunatamente quando ormai siamo sull’ultimo tiro, e la vetta è a portata di mano. Ciò che rimane è un ricordo… un nome che permette di ricordare… Chiamiamo la via Ciao Ragazzi, per ricordare Fabio Giacomelli, Mauro Giovanazzi, Marco Anghileri e tanti altri amici che se ne sono andati prima del tempo, lasciando vuoti non facili da colmare… Ciao ragazzi…
7
Maurizio Giordani ha comunicato che il peggio è passato. Auguri di buona convalescenza e totale ripresa. 👍👍👍
Qualcuno sa dirmi se ora sta meglio e in ospedale l’hanno ripreso ?
Spero per lui che non ci sia nulla di vero.
Secondo me, Mariacher è di sicuro stato uno scalatore molto onesto nel dire come saliva le pareti, ma anche lui è un uomo e ha avuto delle debolezze: nessuno può vivere fra gli uomini con un’etica ferrea, ma qualcuno non ci pensa nemmeno, forse oggidì molti.
Penso che il chiacchierato Giordani dia spunto a parecchie riflessioni, anche negative, come lo danno tanti altri, sull’alpinismo italiano di questi ultimi 40 anni.
Per fortuna da qualche anno sta aumentando il numero di giovanissimi che sanno fare “robe” al passo con i livelli attuali di alpinismo nel mondo.
A me sembra scorretto che si scriva “gran cialtronata” nascondendosi dietro uno pseudonimo che assicura l’anonimato.
“Woody Allen”, vuoi criticare? Se ritieni che ne esistano i motivi, fallo pure: è tuo diritto. Però non denigrare in modo cosí pesante – non è il caso – per di piú senza neppure dire chi sei.
Possiamo definire “via nuova” una via aperta a pochi metri da un’altra e per di più storica? A me sembra una gran cialtronata. Mariacher resta inimitabile. In tutto.
questo è veramente da condannare.
Il resto lo puoi condividere o no, ma rientra nel personali concezioni.
Penso che vi siano molti tipi di arrampicatori che hanno scritto tanta storia dell’arrampicata, talvolta raccontando in varie e contrastanti maniere le loro salite.
Quelli che a me piacciono molto poco sono tutti quelli ambiziosi (frustrati?) che fin da giovani si sono assicurati il successo in ciò che volevano fare, o mettendo sempre nello zaino la garanzia di poter bucare la roccia per passare dove non erano capaci, o magari non raccontando come e dove erano saliti.
Spesso hanno pasticciato e rovinato le pareti per chi sarebbe venuto dopo.
La mancanza di umiltà e l’incapacità di rinunciare hanno danneggiato molto l’alpinismo italiano dell’ultimo mezzo secolo.
Ma queste sono mie opinioni, magari dettate anche da ciò che sto notando accadere in questa ultima settimana.
Un vero racconto di alpinismo vissuto senza compromessi ma che lascia in sospeso emozioni e sensazioni legate al futuro.
A proposito di una via aperta da Giordani sulla est del Catinaccio, ricordo un suo articolo di anni fa in cui parlava di come si apre e si attrezza una via e ribadiva il concetto che secondo lui le vie si aprono per se stessi e non per gli altri.
Giordani diceva: mi proteggo dove io ritengo di averne bisogno , dove io lo voglio, senza pormi il problema delle eventuali necessità e gusti del ripetitore. Quello è un suo problema.
Ora sembrerebbe aver cambiato idea?