Mal d’Alaska, il richiamo dell’orso

Mal d’Alaska, il richiamo dell’orso
di Chiara Baù
(pubblicato su imperialbulldog.com il 26 settembre 2019)
Fotografie dell’autrice

Il mio vissuto è fatto di richiami. Ascoltarli e seguirli è un privilegio oltre che una conquista. La mia storia con gli orsi inizia anni fa e probabilmente non avrà fine.
Avvistare l’orso era il sogno di una bambina cresciuta in mezzo ai boschi.

Tempo addietro, nelle Dolomiti del Brenta, l’incontro con l’orso Daniza, in mezzo ad una radura, mentre svolgevo la tesi di campo in Scienze Naturali per l’Università di Milano.

Incrociarne lo sguardo per pochi secondi, vederlo nel suo habitat alle cinque di un freddo mattino è stato un premio. Da quel momento ha inizio la mia storia con gli orsi.

Già allora ero appagata, quante persone possono avere tale fortuna? Riuscire a incontrare un orso in Europa è molto raro, di suo l’orso non ama farsi vedere.

Il richiamo permane, cresce, si fa sentire ancora più forte. Mi spingo in Alaska, là dove vive il maggior numero di orsi bruni al mondo. Un territorio talmente vasto e incontaminato da perdersi anche solo nel pensiero. Parto una, due volte, vivendo esperienze incredibili. Riuscire a osservare un orso è come scalare una delle TreCime di Lavaredo, le montagne più suggestive al mondo. Non finirei mai di ammirarle per la loro bellezza e imponenza. Fino a quando vuoi toccarne con mano la roccia, carpirne i segreti, studiarne la storia, sentire ciò che ti trasmettono mentre con pazienza, lentamente scali la parete appiglio dopo appiglio.

Il percorso per osservare un orso è molto simile. Lo ammiri nei documentari, sai che potrebbe trovarsi in un territorio sconfinato, studi il modo più appropriato per avvicinarti e il comportamento sui libri, ti documenti, ti messaggi con esperti di tutto il mondo, tenti di comprendere difficoltà e rischi. È tempo di tornare in Alaska. Basta tergiversare.

Il richiamo si tramuta in senso di appartenenza. Non è un bisogno, un’inquieta ossessione o chissà cosa. Sento che cercare gli orsi nelle foreste più incontaminate della terra mi completa, facendomi ritrovare tutto ciò che l’uomo sta pian piano perdendo di vista.

Parto ai primi di agosto, contestualmente a un’ordinanza di cattura emessa dalla Provincia Autonoma di Trento per l’orso più orso che abbia mai conosciuto, Papillon denominato in codice M49. Un orso curioso, figlio delle reintroduzioni che avevo seguito nell’ambito del progetto Life Ursus durante il mio percorso di tesi in Scienze Naturali.

Ritenuto pericoloso, M49 viene catturato, ma riesce a fuggire, superando muri e recinzioni elettriche, al di là di ogni previsione. È affamato di libertà e si rivela ancora più ribelle di tanti altri orsi. La sua fuga diventa una leggenda.

Più anela alla libertà, più la tolleranza civile e popolare si azzera. Tuttora è libero. Non so per quanto tempo ancora, l’uomo incalza e ha dimenticato il valore della sua presenza nelle foreste dell’arco alpino. Vuole nuovamente rinchiuderlo. Papillon resiste: ogni secondo in più in mezzo ai boschi non ha prezzo.

Parto per l’Alaska con quella sensazione. Nessuno mi insegue, ma voglio vagare il più possibile nelle foreste tra gli orsi, respirando a pieni polmoni quell’atmosfera di libertà sconfinata. Come sempre non trascuro l’idea che potrei avvistare neanche un esemplare. Non è uno zoo.

La guida con cui sono in contatto mi fa presente che il clima è molto asciutto e caldo, inusuale per l’Alaska e l’osservazione potrà essere difficile. Gli effetti del riscaldamento globale si fanno sentire anche qui. Con temperature elevate gli orsi preferiscono la frescura dei boschi.

Non importa, camminare nel loro territorio e solo avvertirne la presenza ha per me un valore inestimabile. Parto da sola senza troppi pensieri, felice fin da subito.

Quattro voli, quattro aerei, ultimo un idrovolante. Due giorni di viaggio ed eccomi proiettata dall’altra parte del mondo, in Alaska, nel fiordo di Cook Inlet, a due ore da Anchorage, nel parco naturale di Lake Clark. L’idrovolante atterra su una spiaggia infinita. Questa la sua pista.

La prima parte del viaggio prevede l’alloggio in una baita di legno con altre persone per poi proseguire con l’idrovolante in una zona interna con sistemazione in tenda.

Mezzi e spazi sono qui concettualmente diversi rispetto alle nostre abitudini. Il territorio è talmente vasto che l’unica possibilità di trasferimento è solo quella con l’idrovolante. Non esistono strade, nemmeno sentieri; una guida è fondamentale, in primis per una forma di prudenza e rispetto nei confronti dell’orso e del suo territorio.

Per anni ho studiato il comportamento degli orsi, ma solo una guida può trasmetterti un’approfondita conoscenza della loro indole che, a volte, può essere imprevedibile, soprattutto qua in Alaska.

Ma l’imprevedibilità si attenua grazie alla grande esperienza acquisita da esperti appassionati di questi animali, come la guida a cui vengo affidata.

Il tempo di sistemare lo zaino e, armata di due macchine fotografiche, non perdo neanche un secondo. La baita è situata a un centinaio di metri dal mare, alle spalle sovrastano montagne ricoperte di ghiacciai e foreste inestricabili.

Nel mare sbocca l’estuario di un fiume, dove i salmoni iniziano la loro risalita per deporre le uova alla fonte. Fin da subito la guida mi accompagna in questa zona che chiamano “mouth”, bocca del fiume. Qui ha inizio la realizzazione del sogno, ma non sono ancora pronta.

Invece l’orso è già lì, intento a esplorare l’estuario e, mi piace pensarlo, a darmi il benvenuto. Inizio a scattare foto come se fosse l’unico orso che avrei incontrato. Dopo una breve camminata si ferma.

Tranquillo, osserva il fiume, rimanendo totalmente indifferente alla mia presenza. Rimane seduto sulla riva del torrente, in attesa forse del momento più propizio per afferrare un salmone. La zona è abitata dalla sottospecie di orso bruno (Ursus arctos arctos) denominato orso grizzly (Ursus arctos horribilis). In realtà c’è un’ulteriore differenziazione non a livello di sottospecie, ma di fenotipo. Gli orsi che vivono sulla costa, lungo l’oceano presso le foci dei fiumi sono definiti coastal brown bear mentre inland grizzly bear quelli che vivono più all’interno tra le montagne. Le differenze sono quindi dovute soprattutto alla localizzazione geografica, alla disponibilità di cibo e di conseguenza alla taglia. Gli orsi grizzly dell’interno hanno infatti una inferiore disponibilità di cibo. Si nutrono di bacche, frutti di bosco, erba, carcasse di animali, ma la competizione per un cibo meno abbondante li rende più piccoli e aggressivi. Gli esemplari sulla costa, al contrario, hanno a disposizione una quantità impressionante di cibo: salmoni a volontà che ogni giorno durante il periodo estivo tentano di risalire il fiume, oltre alla copiosa quantità di vongole che affiorano dalla sabbia con la bassa marea.

Al mondo sono tra gli orsi di più grandi dimensioni e, vista la facilità di reperire il cibo e una competizione meno spinta, tendono anche ad essere più docili. Questo permette un grado di tolleranza inimmaginabile anche con l’uomo.

Anni fa, mi spiega la guida, non era possibile osservare neanche un orso, perché veniva cacciato. In seguito con l’istituzione del Parco e il divieto di caccia, la situazione è cambiata. Tuttavia ci sono voluti anni perché l’orso che ha un’ottima memoria potesse fidarsi dell’uomo, mostrandosi alla sua vista.

Osservo l’orso senza mai distogliere lo sguardo. Rimango incredula. Il primo avvistamento è del tutto inaspettato. In preda all’emozione non mi accorgo che la batteria della macchina fotografica di sta scaricando e la memory card è quasi esaurita. Che imbranata. Ricorro alla telecamera del telefonino pur di catturare quel momento. Intanto l’orso non si scompone e continua ad osservare il fiume, facendo qualche smorfia. È alta marea: non è il momento più propizio per pescare.

La guida mi incoraggia ad avvicinarmi. Si tratta di un maschio giovane di circa quattro o cinque anni.

La situazione sembra tranquilla. Istintivamente mi muovo in punta di piedi, quasi per timore di far rumore, come quando cammino sui tacchi in una biblioteca silenziosa. Non realizzo che indossando stivali da pescatore i miei passi lenti non provocano alcun calpestio, tanto più che sto camminando sulla sabbia e il gorgoglio dell’acqua che scorre copre ogni minimo rumore.

Qui il mare si fonde con il fiume permettendo a una parte di sé di abbandonarlo per spingersi fino alla sua foce. Mi muovo con riverenza e rispetto, non parlo, sussurro alla guida di darmi un pizzicotto per capire se tutto sia vero e stia capitando proprio a me. L’orso non accenna a muoversi minimamente. Forse non è il momento giusto per pescare. No, l’orso non sbaglia quasi mai. Scoprirò in seguito il vero motivo dell’attesa.

Intanto noto che la guida apre un piccolo taccuino, il calendario delle maree. Lo tiene nelle mani, come un sacerdote tiene la Bibbia. Lo scruta tentando di azzeccare la riga giusta. Due righe per ogni giorno, indicano il continuo variare dell’orologio delle maree. Come fossero dei pentagrammi che danno il giusto ritmo alla giornata.

Siamo sulle sponde dell’oceano. Ogni evento è esaltato in modo esponenziale e l’ampia escursione della marea è uno dei primi segnali di una natura vigorosa e intensa. Nel mare nostrum pochi centimetri differenziano il livello di marea, qui parliamo di metri che nascondono ed esaltano continuamente nuovi scenari. Le maree si rivelano come il vero orologio in grado di condizionare tutte le attività, in primis quella degli orsi, di conseguenza la nostra.

Sbircio il taccuino, l’orario prevede un lento abbassamento della marea. “Buon per gli orsi” commenta la guida. In poche ore il livello del mare si sarebbe notevolmente abbassato. Il periodo di bassa marea può essere molto favorevole per gli orsi e non solo per l’ingente quantità di vongole che il mare avrebbe rilasciato. Incuriosita, non capisco quale altro motivo possa esserci.

Provo ad osservare anch’io il fiume in modo più accurato, ma di salmoni non c’è traccia. L’orso imperturbabile si gira verso di me e osserva. Sono alla distanza di una dozzina di metri. Per precauzione la guida ha con sé solo il cosiddetto pepper spray, un efficace strumento dissuasivo da usare solo in casi di atteggiamenti aggressivi, ma sono anni, confessa la guida, che non viene usato. Per scelta nessuno qui al campo porta un’arma.

Il che mi sorprende pensando al dispiegamento di forze messo in atto in Trentino per un solo orso che si è permesso di comportarsi da orso, quasi a fronteggiare o giustificare una moltitudine di orsi come nella famosa Invasione degli orsi in Sicilia di Dino Buzzati.

In un territorio vastissimo, come quello di Lake Clark nessuno usa le armi. Come è possibile? Eppure ho capito perfettamente. Realizzo così all’istante che il punto di vista dell’uomo nei confronti degli orsi ha basi completamente diverse, non solo in merito alla gestione, ma a un diverso orientamento mentale.

L’approccio con questo silenzioso animale nasce dalla consapevolezza di una condivisione pacifica degli stessi spazi. Non un’esclusione. La base di un dialogo con il plantigrado è determinata da una profonda conoscenza del suo comportamento, nulla più. La paura verso un animale selvaggio rimane pur sempre, sarei ingrata e sfacciata a non averne. Ma un sentimento di confidenza maggiore stava pian piano nascendo.

Si avvicina l’ora di pranzo e se mi sembra uno spreco di tempo tornare alla baita e allontanarmi dall’orso, devo rispettare anche i ritmi della guida e soprattutto ricaricare la batteria della macchina fotografica. Anche l’orso sembra concedersi una piccola pausa dal suo incomprensibile stato di osservazione. Fa molto caldo, il suo bisogno di refrigerio si traduce subito in un’immagine di totale relax, immerso nelle acque del mare mentre la marea pian piano si appresta a scendere.

Non si rintana nel bosco. Aspetta che la marea scenda. Continuo a chiedermi il perché. Anche il gabbiano di fianco all’orso sembra aspettare.

A pranzo ho l’occasione di far conoscenza con i pochi presenti, quasi tutti americani originari da stati diversi. La comunicazione all’inizio è per me un po’ difficoltosa, l’accento americano schiaccia i vocaboli. Spot diventa spa, e con il sorriso capisco che quello non era proprio un posto dove avrebbe potuto esserci una spa. Spot si riferiva alla localizzazione dell’orso. La sintonia che si crea fin da subito è così amichevole e semplice che continuiamo a ridere.

La mia provenienza dall’Italia crea un certo stupore sia perché sono arrivata da sola, ma soprattutto per il fatto di provenire da un paese ricco di una storia millenaria. Mostrano tutti una profonda ammirazione per le nostre città e la cultura italiana e vengo subito presa in gran simpatia.

L’atmosfera e l’ambiente sono molto simili a quelli di un rifugio alpino: semplicità, assenza di complicazioni formali, visi aperti e gentili. Penso che la familiarità con una natura forte e incontaminata unita a una pura passione comune per gli animali renda le persone migliori. È come se tutti ci conoscessimo già da tempo. C’è chi è a piedi nudi come me, chi indossa calze variopinte, chi in ciabatte. Chi lavora in borsa, chi in pensione, chi fa il medico, chi l’insegnante.

Dopo una breve presentazione i discorsi vertono obbligatoriamente sugli avvistamenti di orsi. Chi arrivato da qualche giorno, racconta con entusiasmo e in dettaglio gli episodi delle giornate precedenti. Si parla di orsi e la gioia che traspare negli occhi dei miei compagni da racconti esaltanti è commovente. Più che felice solo per quella mezza giornata vissuta in riva al silver salmon creek, questo il nome del fiume dove mi trovo, non ho tempo da sprecare e torno in riva al mare con la curiosità di scoprire cosa sia avvenuto dell’orso che avevo lasciato pensante nell’acqua del fiume.

In tutta calma sta passeggiando lungo la battigia: sembra alla ricerca di qualcosa. Entra nel fiume e si alza in piedi nella tipica posizione da plantigrado. Proprio come l’uomo, infatti, la famiglia degli Ursidi in posizione eretta poggia a terra tutta la pianta del piede, carpo e tarso compresi, riuscendo a stare perfettamente in piedi.

Comprendere le basi del comportamento degli orsi in una situazione di pericolo è fondamentale. È questo un mito da sfatare. Anche gli orsi hanno una loro mimica. Quando un orso è in piedi sulle zampe posteriori indica che è semplicemente curioso e non aggressivo. È un modo per identificare meglio ciò che lo circonda e soprattutto per annusare meglio gli odori. Quasi come il periscopio di un sommergibile.

Vederlo sfilare davanti, in posizione eretta, è uno spettacolo unico. Forse sta scrutando nell’acqua il passaggio di un salmone, oppure ha percepito l’odore della nostra presenza: nulla di tutto questo. Qualcos’altro lo sta incuriosendo. Finalmente capisco la ragione di un’attesa protrattasi per tutta la mattinata: la presenza di un compagno di giochi.

Lo vedo camminare in posizione eretta, muove il muso e mi accorgo che con il suo infallibile olfatto ha sentito la presenza di un altro orso maschio. Non aspettava altro che giocare con lui. A passi lenti il compagno si avvicina e tra i due inizia il cosiddetto play fighting: uno spettacolo unico. I due orsi iniziano a interagire come due atleti sul ring in diverse forme di interazione di lotta: prima una zampata e poi un’altra, un vero e proprio incontro di pugilato. Da morir dal ridere. Sembrano bambini che giocano.

Durante l’incontro si scambiano anche di ruolo, chi sembra inizialmente subire l’irruenza del compagno, riguadagna presto la posizione dell’aggressore.

Sembrano testare la propria potenza e quale il mezzo migliore se non il gioco. Le sessioni di lotta durano instancabilmente parecchi minuti, segue un attimo di pausa per poi riprendere la lotta.

Veri e propri scontri frontali: un gioco competitivo che varia a seconda delle parti del corpo implicate. Mostrano i denti, mordicchiandosi a vicenda per passare alle zampate, accompagnate ogni tanto da qualche ruglio, il verso dell’orso.

Nonostante i colpi sferzati, nessuno dei due viene ferito, come in una sorta di implicito accordo di cooperazione. Sono solo dei test per divertirsi e allenarsi per quelle che saranno poi le vere attività predatorie di interazione competitiva e sessuale. Ad un certo punto sembra che il gioco sia terminato, ma presto riprendono a scontrarsi: hanno risorse energetiche infinite.

È un divertimento inesauribile, mai quanto il mio che continuo a osservarli presa da una gioia incredibile quasi fossi una loro compagna di giochi. Mi ricorda Compagno orsetto il libro dello scrittore Mario Rigoni Stern, che descrive la contentezza di alcuni ragazzi intenti a giocare con un orsetto allontanatosi dalla foresta per restare con loro. Una felicità pura che si ritrova solo nei bambini.

Le attività ludiche di questi animali mi lasciano un mix di sensazioni tra l’incredulità e lo stupore in un turbinio continuo di emozioni.

Agli orsi piace incredibilmente giocare lungo la battigia. Il basso strato d’acqua allieta le loro finte lotte. Mi mancava questa informazione sul loro comportamento. Ogni tanto si fermano, come per riprendere fiato, ma sembrano insaziabili. Qualche secondo e ricominciano. Sembrano divertirsi quanto noi.

Lasciandomi trasportare da una gioia infantile ho accantonato la macchina fotografica per poter assistere con tutti i miei sensi, come fossi a un concerto, allo spettacolo che la natura mi offriva.

Nel vederli lottare mi chiedo quale dispendio energetico stiano affrontando. Dovrebbero cibarsi di salmoni in modo da mettere su lo strato di grasso necessario per l’inverno. E invece giocano tutto il giorno. Evidentemente oggi é la giornata dedicata al gioco, nulla potrà intaccare questo loro desiderio. Si fa sera, anche se le ore di luce a queste latitudini sovrastano sul buio. Il cielo inizia ad oscurarsi verso le dieci. Ci si ritrova per la cena. Ma le sorprese non sono finite.

C’è una sedia a dondolo davanti al mio alloggio. Mi siedo per godermi gli ultimi istanti di una giornata memorabile. Come se nulla fosse, nel silenzio della foresta e il suono del mare mi passa davanti un orso, gli odori della cucina lo hanno probabilmente attirato. Passeggia con quella sua andatura dondolante. Rimango pietrificata. La guida non è più con me, con tutta la naturalezza di questo mondo l’orso passa a qualche metro di distanza. Non so più cosa pensare. Una breve perlustrazione e torna nel bosco.

C’è un debole segnale di wifi alla baita. Siamo in mezzo alla foresta ma le comunicazioni via radio e internet risultano fondamentali soprattutto per ciò che concerne le previsioni meteo e la gestione degli idrovolanti. Sono contro l’uso di queste tecnologie quando si è in posti tanto incontaminati ma lo ammetto, ho voglia di condividere il mio stato d’animo.

“Sono in un posto incredibile, è il paradiso degli orsi” così scrivo ai miei genitori grata che una pur limitata risorsa tecnologica mi avesse consentito di comunicare la felicità da un posto tanto incontaminato.

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Mal d’Alaska, il richiamo dell’orso ultima modifica: 2019-10-31T05:44:54+01:00 da GognaBlog

3 pensieri su “Mal d’Alaska, il richiamo dell’orso”

  1. Grazie per questo articolo, e complimenti a Chiara per la potenza evocativa e la vividezza delle immagini. Ben scritto, interessante, raccontato meravigliosamente, mi ha emozionato.

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