Manifesto TTTdel Nucleo Alpinisti Proletari (NAP) (1)
[per un manifesto operativo delle montagne by fair means]
Lettura: spessore-weight(3), impegno-effort(2), disimpegno-entertainment(2)
Siamo contro l’imborghesimento delle pareti di montagna.
Contro l’addomesticamento della passione.
Diciamo basta agli spit seriali e alla violazione indiscriminata della montagna.
Se per borghese (burgeois, burg=fortezza, luogo protetto) si intende portare le facili sicurezze delle città sulle pareti dei monti, come proletari (proles=figli) rivendichiamo il diritto degli ultimi di potere vivere la natura come se non fosse stata violata irreversibilmente dall’abominio dei primi. Dai padri che non meritano questo nome.
Il nostro motto è TTT. Non semplicemente TNT. Dinamite. Di più.
«Non fermatevi di fronte alla metafora rivoluzionaria del nostro linguaggio: la prole, siete voi; la falce, le spighe del bene comune, super partes; il martello, il suono armonioso dei nostri chiodi e del nostro cuore» NAP [v. link su AM]
Togliere, Togliere,Togliere.
Tritadite! Una T all’ennesimo potenza. Che elimini la superbia, il superfluo, dalle nostre dita. Dalla nostra vita.
Come non c’è scritto da nessuna parte che le montagne debbano essere violate dai trapani e dalla superbia degli uomini, lo stesso vale per chi come noi ha deciso di togliere dalla montagna gli eccessi di quella stessa superbia che rovina, altera, modifica per sempre l’andare per montagne by fair means, con mezzi leali: senza eccessivi surrogati.
Nostra regola sarà distinguere l’alpinismo dall’arrampicata sportiva in quota, le vie alpinistiche dalle vie di arrampicata sportiva, dove pure quest’ultima ha la sua logica e la sua storia, ma non tollereremo più che “attrezzatori” (che non sono né alpinisti né arrampicatori sportivi, ma solamente spregiudicati chiodatori) violino la storia delle pareti sottraendo futuro alle nuove generazioni, spittando a destra e a manca, senza conoscere le storie delle stesse pareti, facendo opera di collage e/o di orribile mistura, solo per lasciare un segno forzato, autoreferenziale, del loro passaggio.
Diciamo BASTA a chi pretende di azzerare ogni difficoltà obbligatoria, ogni conoscenza delle tecniche e della faticosa preparazione necessarie per arrampicare e proteggersi, alimentando in tal modo schiere di neofiti teleguidati da false sicurezze e super relazioni, intruppati e pericolosi a se stessi e agli altri! Noi diciamo BASTA!
BASTA alle vie che si incrociano e si accavallano un metro una dall’altra e che cancellano la storia e la natura delle pareti! Basta agli “azzeratori” di tutto.
Per fare ciò, ripeteremo e analizzeremo le “vie critiche” proponendo una sigla dove chiunque che concordi con il nostro sentimento qui espresso sarà libero di prendere “falce e martello” – o quello che serve – per riportare allo stato naturale le pareti violate da questi sciagurati.
«Le montagne sono i luoghi di resistenza del mondo», dai miasmi delle civiltà troppo imborghesite e mercificate. Addomesticate. Sciagurate. Consumate. Vale per la pareti, vale per la passione. L’alpinista deve fare la sua parte sia in montagna. Sia in città. Scegliere da che parte stare. TTT.
L’elenco progressivo delle firme di tutti gli aderenti si trova su CCC casadicultura.it.
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LEGENDA NAP | prima ipotesi di lavoro
NAP_ALP=via alpinistica esemplare da rispettare e valorizzare
NAP_AS=via di arrampicata sportiva da rispettare
NAP_MIX=via mista alpinistica/sportiva da rispettare per ragioni storiche o di roccia improteggibile
NAP_ABO=via abominevole da schiodare
NAP_REC=via sportiva riconvertita in via alpinistica
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CONSIDERAZIONI STORICHE
L’alpinista è come un pittore che traccia un segno indelebile, ma invisibile sulla tela delle montagne. Esso è – perlopiù – un segno nell’immaginario, del quale rimangono poche tracce fisiche, sulle pareti. Non tutti ne sono capaci.
Dobbiamo prendere atto che oramai siamo ad un punto di svolta in ambito alpinistico. Il panorama verticale è stato teatro dei più diversi stili alpinistici, dall’idealistica e romantica posizione di Preuss alle direttissime artificiali, di cui in seguito fu dimostrata l’inutilità, quando queste furono ripetute dagli alpinisti successivi. Per quanto contrastanti, queste metodologie di approccio all’alpinismo erano però accomunate da un profondo rispetto per la storia delle pareti.
La pluralità e tolleranza del contesto alpinistico – rispetto al carattere specificatamente performante del contesto arrampicatorio in senso stretto – era comunque sempre contrassegnato dal rispetto della prima regola d’ingaggio di ogni avventura in montagna: modificare il meno possibile la natura con cui ci si confronta e rispettare ciò che gli altri hanno fatto passando prima, con tutti i rischi, la bellezza, il valore che questa libertà “condizionata” comporta in termini di sicurezza, limitando perciò al massimo l’uso di mezzi artificiali che modificano la natura delle rocce, condizione valida anche per gli alpinisti/arrampicatori più “sportivi”. Solo così si è evitato di rendere le pareti alpine troppo falsamente sicure, perché troppo accessibili, domestiche, vere e proprie palestre cittadine, che di quella prima regola d’ingaggio sono l’antitesi e che nascondono un pericolo molto più grande di quello che vorrebbero evitare.
Ad oggi purtroppo assistiamo ad una netta inversione di tendenza.
Con l’introduzione e lo sdoganamento dell’uso del trapano sempre più pareti vengono violate da vie che di alpinistico non hanno nulla, né dell’impegno in arrampicata obbligatoria e relativa ricerca che pure l’arrampicata sportiva comporta sulle grandi pareti, eliminando qualsiasi approccio caratteristico dell’avventura e dell’engagement. A questo aggiungiamo che troppo spesso questi nuovi itinerari vengono tracciati laddove già preesistevano vie alpinistiche, a volte sormontandole totalmente, a volte invece lambendole così vicino da confondere le linee, altre volte moltiplicando gli uni vicino agli altri troppi itinerari, per arrivare al paradosso che uno stesso ATTREZZATORE (così definiremo questi pseudo-apritori di vie) si vede costretto ad apporre frecce o targhette sulla roccia che indicano la via da seguire attrezzata da lui stesso, che disturba la sua propria linea e che per questa sua folle commistione non è da definire né alpinista, né arrampicatore, ma per l’appunto “attrezzatore”.
Peggio poi quando pensiamo ad itinerari che sormontano vie preesistenti di cui, se nelle biblioteche non si è conservato il ricordo – difficile ma non impossibile che ciò accada – la roccia invece ne porta i segni. Quando questi attrezzatori, durante gli ingiustificabili mesi che impiegano nell’apporre la loro inutile firma su una parete, trovano dei vecchi chiodi, dovrebbero fermarsi, informarsi ed eventualmente fare un passo o due indietro e schiodare, o meglio disattrezzare l’obbrobrioso abominio alpinistico che stanno costruendo.
Chiaramente i tempi cambiano e quella che un tempo era una disciplina d’elite – nel senso costruttivo del termine, ossia non “elitaria”, ma per poche e preparate persone – ora è fruibile ai più. Siamo sicuri che sia un bene?
Dare a persone che difettano di esperienza la possibilità di affrontare pareti dolomitiche, grazie a chiodature ravvicinate, con la scusante della sicurezza, serve realmente a rendere più sicuro l’alpinismo, o, in controtendenza ai propositi, ciò non avviene? Anzi. Si rischia di capovolgere il risultato.
Dati alla mano vediamo che l’incidenza degli infortuni aumenta con l’aumentare di itinerari facili tracciati su pareti facilmente accessibili da attrezzatori inesperti, ma anche da esperti in cerca di effimera gloria. Prendiamo la Valle del Sarca come esempio, dove l’opera di Heinz Grill, per quanto lodevole e priva di qualsivoglia scopo di gloria (egli è ed è stato un fortissimo alpinista/arrampicatore che non necessita di presentazioni) ha indotto suo malgrado molti neofiti ad affrontare con troppa leggerezza le sue vie. Questo ha causato un aumento degli interventi in parete nonostante o a causa dell’alto grado di sicurezza e della relativa esattezza delle sue relazioni. Troppo affollamento, troppe persone impreparate ai rischi “inalienabili” dell’arrampicata, nessuno disposto a rinunciare alla salita, tutto ciò alza l’asticella del rischio pur abbattendo quella del limite umano soggettivo, sempre costretto ad affrontarsi con quella del limite oggettivo insito nella natura delle pareti e dell’arrampicata.
Poiché proprio nell’accettazione/avvicinamento dei limiti soggettivi e oggettivi risiede l’essenza dell’alpinismo, questa accettazione e ricerca del limite deve avvenire solo grazie all’impegno ed alle proprie capacità e non grazie all’impiego di mezzi sempre più sofisticati che permettano di abbattere quei limiti invece di conoscerli e avvicinarsi ad essi.
Il trapano in alpinismo non è perciò un ausilio accettabile. Mai. Quand’anche possa essere accettabile la perforazione per tratti improteggibili da mezzi non modificanti la natura della roccia, in quei rari casi è consigliato l’uso del perforatore a mano per non cadere in tentazione di avere un mezzo troppo potente per le mani. L’uso del trapano non può e non deve essere considerato lecito in alpinismo ed una via attrezzata con spit, in tempi biblici e non salendo in un unica soluzione di continuità, non può e non deve essere considerata alpinistica. Bensì “sportiva”.
Altresì le vie sportive su grandi pareti – fuori dalle falesie mono/bitiro – hanno senso di esistere solo se rispettano le minime caratteristiche d’ingaggio. Queste caratteristiche sono regole di buon senso che impongono la ricerca del superamento delle difficoltà grazie alle proprie capacità e non alle protezioni. La presenza delle protezioni non deve modificare il grado obbligatorio della via, ma esaltarlo nella sua essenza senza pregiudicare la sicurezza. Questo significa rifiutarsi di attrezzare vie sportive con gradi elevati in potenza, ma di fatto – ossia obbligatori – bassi, per permettere a chiunque di poterle ripetere, perdendo lo scopo di valorizzare la difficoltà tecnica di arrampicata, protetta comunque con il giusto margine di sicurezza, ossia non con una spittatura seriale.
Senza entrare nel dettaglio di nomi o luoghi citiamo come esempio “l’attrezzaggio” sconsiderato e oltremodo irresponsabile di molte vie nelle Piccole Dolomiti. Teatro di oneste imprese alpinistiche, sia remote che recenti. Vecchie vie sulle cui linee alcuni attrezzatori sconsiderati di varia tipologia hanno attrezzato vere e proprie ferrate con notevole dispendio di tempo e denaro per creare dei veri e propri “ecomostri dell’alpinismo”. Senza remore e senza porsi alcuna domanda o problema, senza studiare o ripetere, hanno ricalcato, a volte quasi interamente, a volte in parte, altre linee di vie più o meno storiche, comunque preesistenti. L’arroganza di queste realizzazioni trasuda l’assoluta mania di protagonismo degli attrezzatori di questi abomini.
Si deve dare una svolta a questa tendenza che comporta lo smantellamento del rischio, la non accettazione del rischio come parte del gioco da noi controllabile mediante attitudine, intelligenza e preparazione, ma che di fatto lo aumenta, senza contare il consumo irreversibile di terreno alpinistico per le generazioni future a causa della deturpazione/distruzione/rovina della roccia e dell’immaginario storico che su quella roccia si poteva costruire.
Estate 2014, Nina Caprez e Cedric Lachat hanno lavorato sodo per ripetere una via di estrema difficoltà, Orbayu, nei Picos de Europa, in Spagna.
In questo scenario di scempi alpinistici si inseriscono a pieno titolo tutti quegli attrezzatori di vie che vanno ben oltre il loro limite tecnico-fisico con l’uso e l’abuso di mezzi artificiali. Persone che, pur arrampicando in libera su gradi medio bassi, attrezzano itinerari di livello molto alto, e per farlo – pur cercando di portare al massimo la loro soggettiva difficoltà obbligatoria, appunto bassa – sono costretti a spittare in azzero, eliminando di fatto ogni progressione obbligatoria, ciò che dà valore alla stessa arrampicata sportiva in quota.
L’azzero per la chiodatura in arrampicata sportiva dovrebbe essere eliminato (limitato) come lo spit per l’alpinismo. Solo grazie a queste limitazioni potremo preservare le pareti per il futuro della nostra passione. E per quella dei nostri figli.
In sintesi: togliere il superfluo, mettere l’essenziale. Questa è la sfida per il futuro dell’alpinismo.
Nota
(1) In onore di Giacomo Albiero, alpinista accademico vicentino e partigiano, compagno di Renato Casarotto, recentemente scomparso all’età di 93 anni, primo a togliere il primo spit dalla Carlesso sul Baffelan, a martellate, durante i suoi ultimi anni di attività. E per ricordare Lorenzo Massarotto, il Caro Potente Mass che in tutta la sua luminosa carriera non piantò mai uno spit.
Per aderire – che significa anche solo supportare gli impegni di “stile alpinistico” del manifesto – inviare mail a ttt.alpinismo@gmail.com indicando: NOME, COGNOME, LUOGO DI RESIDENZA, eventuale APPARTENENZA o ALTRO a GRUPPO/ASSOCIAZIONE, come Sezione del CAI o simili. Adesioni e informazioni su TTT su CCC casadicultura.it .
Leggi l’intervista sui NAP [http://www.alpinismomolotov.org/wordpress/2019/01/03/meridiano-di-fuoco-la-nascita-del-nucleo-alpinisti-proletari-auto-intervista-collettiva/] ad Alberto Peruffo, contatto dei NAP, per meglio capire il Manifesto TTT. E anche https://casacibernetica.wordpress.com/2019/01/02/arrivano-i-nap-nucleo-i-alpinisti-proletari-le-prime-info-sulla-nascita-dei-collettivi-e-il-manifesto-ttt-togliere-togliere-togliere/.
L’intestazione delle rivista Alpinismo Goriziano. Il Manifesto TTT e le Considerazioni storiche sono uscite per il numero 3, Settembre-Dicembre 2018, con il titolo Uno spettro si aggira per le crode, grazie allo storico redattore Marko Mosetti.
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