Marco, a che punto è la notte?
“Che ne sappiamo noi delle misteriose forze interiori che si agitano nel cuore di un uomo, delle sue solitudini, delle sue domande, i suoi sentieri personali, le grandi pareti dello spirito, le pietraie della cima che non arrivano mai, perché le risposte latitano…” Queste parole di don Agostino Butturini sono pronunciate nella Basilica di San Nicola di Lecco, di fronte a 2000 persone, con altrettante fuori della chiesa, sul piazzale. Da più parti d’Italia, vogliono salutare per l’ultima volta Marco Anghileri. E’ l’introibo ad altare Dei di una Messa nella Messa, quella messa dove, al posto del pane e del vino, vorremmo fosse santificato il nostro esistere.
Già, che ne sappiamo. Non ci sono chiari neppure i nostri mari agitati, le correzioni di rotta di fronte a mete che l’uomo propone e che Dio dispone, figuriamoci le mete degli altri, quelle mete altrui che talvolta ci balenano a sprazzi perché tradotte in simultanea da un sorriso che non ci aspettavamo, da un gesto coinvolgente.
Ora non siamo ben disposti verso Dio: ci sembra che sia stato impietoso, ingiusto. Ci sembra irreale sperare in lui, lo riconosce perfino il sacerdote quando dice “Ogni volta che una persona amata ci lascia, abbiamo la dolorosa impressione di essere diventati più poveri, carichi di rimpianto per le cose non dette, non fatte, un dialogo interrotto… se ci fosse ancora! Forse è in lutto anche la nostra fede: lo dico per me”.
Sulla via Jöri Bardill, il recupero del saccone, 13 marzo 2014
E se Dio non c’entrasse nulla in tutto questo? Perché parlare di giusto, d’ingiusto? Non è meglio semplicemente accettare come siamo fatti, capaci di forgiare il nostro destino ma incapaci di prevederlo?
Perché maledire il cielo, quando sai, e lo sai bene, che Marco, come noi, ha messo a rischio la sua vita tante volte. E pure lui lo sapeva bene.
Tutti parlano del suo sorriso. E’ vero, era inimitabile. Per Rocco Ravà, l’amico di tante scorribande insieme, prima da bambini e poi da grandi, quel suo sorridere, “grignare” come dicono i lecchesi in dialetto, è il ricordo forte e indelebile che porterà sempre con sé. Il sorriso è uno di quei momenti in cui ti sembra di vedere i sogni degli altri. Ma il sorriso non ti protegge da te stesso e neppure da Dio. Filone ha scritto il meraviglioso libro della Sapienza: “Divenuto caro a Dio, fu amato da lui e poiché viveva fra peccatori, fu trasferito. Fu rapito, perché la malizia non ne mutasse i sentimenti…”. Puoi essere il più bravo impiegato del mondo, ma se decidono di trasferirti devi obbedire. “Il Signore gli ha alzato il livello: i suoi due bambini devono sapere che adesso ha più tempo di prima, e che può anche entrare nei loro pensieri e nel loro cuore” tenta di rassicurarci don Agostino.
“Sono nel posto più bello del mondo. Notte fredda e ventosa. Ma tutto bene, domani sono in cima”. Dopo un tramonto dai colori grandiosi, sono le ultime parole di Marco: le affida al cellulare, le digita nel tepore del suo sacco piuma, alla luce della pila frontale che vaporizza il suo respiro.
16 marzo 2012, in vetta allo Spiz di Lagunàz
Al di sopra c’è un mare di stelle, immutato da quando era bambino: lo stesso mare che ha attraversato suo fratello Giorgio, tante volte. Marco è affacciato sul mondo come può esserlo solo chi sta per giungere al termine della sua vita senza saperlo. Attraverso il freddo cosmico si sperimenta la morte contrapponendola alla vita che ti può offrire un sacco piuma, una minestra calda e un’onda di affetti che ti si affollano alla mente.
E’ proprio lì che vuole essere, seduto su quella sottile linea rocciosa disegnata per ridurre a geometria fisica il dislivello siderale tra vita umana e universo.
Sente che quello è il suo posto, quello che davvero voleva. Domani sarà ancora bel tempo, quasi non ci sarà più lotta, ormai il Pilone è domato.
Marco quella notte pensa di riscuotere lo stipendio di mesi e mesi di allenamenti, pensa di incassare quel denaro spirituale che gli è dovuto per i suoi oculati investimenti: quando, a dispetto del grande amore per la famiglia, si va in montagna è perché s’investe. Ci sembra di mettere dieci per avere venti. E ne siamo così orgogliosi da pensare che questi venti denari non saranno solo ricchezza nostra, ma anche legittima proprietà dei nostri familiari. Un capofamiglia non deve solo guadagnare soldi, se no che uomo è? Che senso avrebbe altrimenti la parabola dei talenti?
Egoismo, qualcuno dice! Marco Corti ha detto nel suo ricordo: “Nessuno ci appartiene, io non appartengo a mia moglie e i miei figli non mi appartengono…”. Ma allora apparteniamo a qualcuno? O no? Tradotto: abbiamo disobbedito? Siamo colpevoli?
Una risposta la dà don Agostino: “Si può processare con i fatti la vita, anche se per strane resistenze a volte la si rinnega a parole, ci sono misteriosi appuntamenti di Dio lungo il corso della nostra esperienza personale. Lui accetta perfino che noi arriviamo in ritardo, anche per sentieri poco battuti, scorciatoie, Lui ti seduce anche a lunghe scadenze, ci sono dei sì pronunciati dentro che solo Lui sente e coltiva”. Secondo questa interpretazione noi apparteniamo a Lui.
Ma non credo che Marco facesse suo questo sentimento di appartenenza. Da una parte c’è la promessa divina e religiosa che il nostro lato oscuro, al di là del tunnel della morte, sarà illuminato a giorno: dall’altro c’è la pretesa, per certi versi blasfema, d’illuminare il tunnel nel quale ci troviamo non solo noi singoli, ma l’intera umanità. La religione dice che siamo attesi nella casa del Signore, ma noi preferiamo dire, sempre con Marco Corti, “ti considero in viaggio, in viaggio verso i tuoi amici, verso tuo fratello… e magari stai già pensando di condividere con loro qualcosa di grande”, come se l’operosità dei viaggiatori del tempo come Marco non terminasse mai, neppure con la morte.
Se chiedi a una persona che ha sempre tanto amato un congiunto, scomparso magari dieci, venti anni prima, come ha fatto a sopravvivere a tanto dolore, la risposta non può che essere: “Come credi che abbia fatto… semplice, ho sempre pensato che lui fosse qui… e l’ho pensato con tanta forza che sono certo di non essere stato io a darmela, ma lui”.
Marco è ancora lassù, sulla piccola cengia del suo bivacco, la notte sta passando nel dormiveglia. Ogni tanto controlla l’orologio, poi si riappisola. Non sa che migliaia di amici tra pochi giorni lo penseranno lì, a contemplare “il posto più bello del mondo”. Non immagina che i due figli lo sogneranno di notte per anni e gli chiederanno “quando torni?”. Perché l’ultima a morire è la speranza dei bambini. C’è anche chi gli farà delle domande, nel segreto desiderio di una risposta dall’al di là. C’è chi gli chiederà semplicemente, come in Isaia, 21, 11, “Custos, quid noctis? (Sentinella, a che punto è la notte)?”. Quando appariranno i cavalieri che annunceranno la caduta di Babilonia e di tutti i suoi idoli? Quanto manca? Quanto manca alla caduta dei nostri feticci, delle nostre convinzioni, del nostro egoismo… quanto manca alla nostra rinascita? Marco, QUANTO manca?
Marco Anghileri il 14 marzo 2012 al bivacco dopo la prua durante la sua salita solitaria invernale della Via dei Bellunesi sul Pilastro sud-ovest dello Spiz di Lagunàz
C’erano due vie che, chissà perché, più volte Marco mi ha proposto di fare assieme: la via classica alla parete nord dell’Eiger e Dieci piani di Morbidezza al Sasso Cavallo (Grignone).
Se gli stavi simpatico lui ti voleva bene, se ti ammirava per qualche cosa te lo ricordava sempre. La generosità dei suoi sentimenti era evidente, palpabile, contagiosa. E se per la prima delle due salite riuscii a negarmi più volte, sempre giustificandomi con l’età, per la seconda avevo accettato entusiasta.
Ma per un motivo o per l’altro non c’eravamo mai messi in moto, c’era sempre un impegno di mezzo. Era rimasta quella promessa, quella gioia di una condivisione, tra un giovane fortissimo e all’apice della carriera e un alpinista che lo aveva visto nascere perché coetaneo e grande amico fin d’allora di suo padre: questa promessa reciproca, caro Bacc, va oltre la tua dipartita, perché io avrò per sempre nella mia memoria il sorriso di quando mi dicevi “dai, andiamo!”, un’immagine che ora è più forte di ogni possibile ricordo di salita vera.
Marco Anghileri, detto Bacc (da Bacciccia), nasce a Lecco il 16 settembre 1972, luogo dove poi ha sempre abitato e ha svolto la sua attività lavorativa nelle aziende paterne, prima la ditta di articoli sportivi Ande, poi la Avantgarde.
La sua attrazione alla montagna sfrutta il solco di una dinastia, come del resto fu per il fratello maggiore Giorgio, troppo presto strappato all’alpinismo e a tutti noi da un banale incidente stradale. C’era stato il nonno Adolfo, allievo del grande Gigi Vitali a fine anni ‘30, una promessa bloccata purtroppo da una ferita in guerra che gli ha menomato una gamba. Poi il padre: Aldo Anghileri è uno dei nomi sacri dell’alpinismo lecchese, si fa conoscere fra gli anni ‘60 e ‘70 per imprese di polso: aperture di vie nuove e ripetizioni invernali, ma anche solitarie di prestigio.
Marco, all’età di 16 anni, si affaccia abbastanza prepotente all’avventura in montagna: gli sono esempio sia il padre che il fratello. Al pari di quest’ultimo, si costruisce una dimensione che subito si fa notare per l’architettura personale, per il disegno specifico delle idee che sono alla base dei suoi progetti, seguendo un percorso ben preciso fatto di chiare motivazioni anche se alla ricerca di emozioni forti.
Quanto però Giorgio è artista sognatore che realizza capolavori con due colpi di pennello improvvisati, tanto Marco è artista più concreto, sviluppatore di un progetto di vita più terrestre e calcolato.
Marco sull’amatissima Grignetta
Trova nel gruppo Gamma, fondato dal padre Aldo, il suo ambiente naturale per tradurre nel sociale una passione che altrimenti rischierebbe di essere vissuta solo in solitaria. Con gli amici si sente impegnato a portare il suo attivo contributo, dalla scuola di roccia all’organizzazione dei campeggi. Pur amando molto stare in compagnia, la sua predilezione per la salita solitaria denuncia un carattere orientato all’indipendenza, che non si fa condizionare da opinioni, codici morali, altrui attitudini, e nello stesso tempo che non vuole imporre nulla a nessuno. Lo si vedeva bene anche durante le sue seguitissime conferenze.
E a proposito di conferenze, come non ricordare le decine e decine d’incontri da lui organizzati al suo ristorante 2184, nei quali sono passati nomi tra i più illustri dell’alpinismo italiano e straniero? Che accettavano volentieri l’invito, a titolo gratuito, solo per la grande amicizia che li legava a Marco.
Lui ti invitava con un messaggino, che arrivava regolare, più o meno ogni due mesi se non ricordo male: se non potevo essere presente, era più il dispiacere di non vedere lui che l’ospite di turno. Mi mancheranno, quei messaggini!
Erano incontri in cui si mangiava, si beveva: si conosceva l’ospite, preceduto dalla sua fama, ma non si smetteva mai di ringraziare Marco che, sorridendo, ci aveva dato quella bella opportunità, così, senza fartelo pesare.
Marco aveva individuato nell’alpinismo l’ambiente migliore per collaudare severamente la sua personalità, alla ricerca di quel limite che tutti noi, come individui, cerchiamo a nostro modo.
Non si può reggere nelle situazioni estreme se non si è motivati da quella ricerca, se non si ha la certezza di poter placare quella sete solo con il sereno dominio di noi stessi, nel silenzio e nella solitudine.
Ma purtroppo chi vive profondamente in questa condizione, dai più invidiata, non è in grado, al raggiungimento di un traguardo, di ritenere proprio quello il definitivo: nella convinzione che ce ne sia ancora, che si possa andare oltre… e che quindi sia nostro dovere crearci un’ulteriore obiettivo. “Signore ci hai creato per te… inquieto e insoddisfatto è il nostro cuore finché non riposa in te (Sant’Agostino)”. Per questo motivo la sua modestia, come la sua umiltà, non erano per nulla finte: anche se ben consapevole del suo valore, Marco riteneva sempre di poter dare di più. Era convinto di non essere il migliore soprattutto perché sapeva che avrebbe potuto migliorare ancora!
Giustamente Vinicio Stefanello ricorda anche altre grandi qualità di Marco: “Non si può scordare anche il coraggio che ha avuto nella vita. La forza di superare la perdita, per un terribile incidente stradale, dell’amato fratello Giorgio. E la forza di sconfiggere anche quella che, a un certo punto, sembrava essere diventata una maledizione: i suoi due incidenti stradali. In particolare il primo che sembrava avergli precluso per sempre la possibilità di scalare.
Marco ne è venuto fuori lottando, con una caparbietà incredibile, per riconquistarsi quella passione senza la quale non riusciva a vivere. Negli ultimi anni era ritornato alle sue salite solitarie quasi in punta di piedi, tanto che a volte si faceva fatica a convincerlo di pubblicarle, a darne notizia. Poi, però, cedeva… e di quei récit d’ascension gli siamo tutti grati. Lui aveva la capacità di emozionarsi in montagna e di far emozionare chi leggeva o ascoltava i suoi racconti. Ci mancheranno quelle emozioni. Ci mancherà soprattutto Marco. Mancherà a molti… abbiamo perso tutti un amico”.
Io aggiungerei la generosità: il 31 maggio 2003 mi dedicò un’intera giornata a Boragni (Finale Ligure), su vie che lui avrebbe potuto salire slegato, evitando di infliggermi i 7a e i 7b che invece sarebbero stati godurioso pane per i suoi denti.
La sua carriera alpinistica è costellata di prime ripetizioni, solitarie, invernali, nuove vie. È stato un fulgido rappresentante dell’alpinismo romantico, quello che si rifaceva alle grandi figure del Novecento, all’epoca d’oro del sesto grado. Un alpinismo che ha sempre vissuto con una dedizione quasi fanciullesca, produttrice d’entusiasmo per tutti quelli che lo circondavano e che perciò lo volevano aiutare a tutti i costi, anche se riconoscevano di non avere la sua rigorosa preparazione professionistica.
Ricordo gli occhi sgranati di mia figlia Elena: aveva 13 anni e quel giorno 14 ottobre 2007 stavamo salendo in cordata lenta e rumorosa (c’era anche la sua coetanea Federica Gallizia) la via Cassin al Medale. Era la prima volta che Elena saliva una via lunga e non posso dire fosse del tutto tranquilla a cospetto di quell’ambiente verticale, sfuggente. D’improvviso si materializza Marco, slegato, in pantaloni corti. Un sorriso, lo stupore, le presentazioni: poi prosegue, così come ci aveva raggiunti e presto scompare alla vista. Elena ne parlò per molto tempo.
Nelle sue imprese non balzano immediatamente all’occhio gli spostamenti in avanti del limite dell’alpinismo (anche se l’invernale alla Solleder del Civetta o la solitaria invernale alla via dei Bellunesi allo Spiz di Lagunàz testimoniano senza alcun dubbio una nuova dimensione dell’osabile): ma invece brillano sempre per fantasia e comunque per la gioia e l’umiltà con cui le ha affrontate, doti che lo hanno sempre contraddistinto.
Una fredda e grigia mattina invernale (16 gennaio 2010) stavo salendo con Salvatore Bragantini su Frecce Perdute all’Antimedale. Ancora ci appare Marco, sempre slegato, senza corda né imbrago, ma questa volta in pantaloni lunghi: Salvatore e io ci guardiamo dopo averlo salutato. E lui era già uscito quando io ho un momento di esitazione su un tratto di parete, non sapendo bene dove andare e con le mani gelate. Mi sento chiamare, ascolto il suo consiglio risolutore urlato da lontano, applico e mi ritrovo anch’io al di sopra, facilmente, come era salito lui. Conosco Salvatore dal 1964, quando in lambretta andavamo ad arrampicare sul Sella: “In montagna c’è sempre modo di meravigliarsi” – mi ha confidato mentre si toglieva le scarpette. Probabilmente Marco era già in macchina verso il suo ristorante ai Piani Resinelli…
Marco ha effettuato decine e decine di ascensioni sull’arco alpino, molte di queste in solitaria e in inverno, a volte in condizioni fra le più esasperate a parere degli esperti. Si tratta delle più famose e classiche salite delle Alpi Occidentali, Centrali e Orientali. Per citarne alcune: via Bonatti al Gran Capucin, cresta sud dell’Aiguille Noire, Pilone centrale del Frenêy, al Monte Bianco; cresta del Leone al Cervino, Biancograt al Bernina, Nord del Roseg, Nord del Palù; Vinatzer, Don Quixote, Messner, ecc. alla Marmolada, spigolo nord dell’Agner; Philipp-Flamm, Andrich, Aste, Ratti-Vitali, in Civetta; Comici in Lavaredo e molte altre.
Sul fronte delle spedizioni extraeuropee: nel 1997 in Tibet al Cho Oyu 8201 m, dove purtroppo ha potuto raggiungere solo quota 7500 m a causa del maltempo; nel 1999 nella Yosemite Valley in California: via del Nose al Capitan, Regular Route all’Half Dome, la Steak-Salathé alla Sentinel Rock; nel 2004 al K2, invitato dagli Scoiattoli di Cortina, dove però non supera quota 7900 per motivi di salute.
Tra le più importanti realizzazioni (elenco non completo):
– 1a ascensione Variante Gamma alla Via Giuliana, 6b, Sasso di Sengg, con Emanuele Panzeri, 1990;
– 1a ripetizione e 1a invernale della via Marino Stenico alla Cima Su Alto (VI+, A4) in 5 giorni, con Lorenzo Mazzoleni, 13-16 marzo 1992;
– 1a ripetizione e 1a invernale della via degli Amici al Sasso Cavallo (VI+, A3), in 2 giorni con Lorenzo Mazzoleni (1992);
– ripetizione solitaria della via Oppio al Sasso Cavallo (VI, A2) in 2h nel 1992;
– ripetizione in solitaria dello Spigolo nord dell’Agner in 3h30’ nel 1993;
– 1a invernale solitaria della via Aste alla Punta Civetta (VI, A1), in 4 giorni (1994);
– Spiz di Lagunàz, parete ovest, via Casarotto-Radin, settima ascensione, con Lorenzo Mazzoleni, VI+ A1, 25-26 giugno 1994;
– solitaria integrale della via dell’Anniversario alla Corna di Medale (VII) in 1h (probabile 1a free-solo della via, 1994);
– Lastia de Gardés, parete sud, Diedro Mariét, prima ascensione, con Valerio Carotta, VI+ A3, 8-9 luglio 1995;
– 1a solitaria della via Rebus alla Corna di Medale (6c, A3), in 2h30’ nel 1995;
– ripetizione solitaria della via Don Quixote (VI) in Marmolada, in 2h nel 1995;
– Concatenamento in giornata e free solo: Torrione Magnaghi centrale, via Gandin; Torrione Magnaghi Settentrionale, via Lecco; Torrione del Cinquantenario, via Gandin; Torre Cecilia, via Marimonti; Piramide Casati, via Donna Mathilde; Torrione Palma, via Cassin; Torrione Clerici, via Boga; Pilone Centrale della Grignetta, via Zucchi, 1995;
– 1a ripetizione e 1a invernale della via Sonia Benvegnù alla parete sud-ovest della Quarta Pala di San Lucano (VII, A2), in 4 giorni (27-30 dicembre 1996, con Valerio Carotta, Andry Dell’Oro e Emanuele Panzeri);
– 1a ripetizione e 1a invernale della via dei Finanzieri alla parete sud della Quarta Pala di San Lucano (VI+, A2), in 2 giorni (17-18 gennaio 1997, con Valerio Carotta);
– 1a ripetizione e 1a solitaria invernale della via Olimpo in Marmolada (VII+), in 3 giorni (21-23 febbraio 1997);
– 1a solitaria e 1a invernale della via Casarotto alla Cima della Busazza in Civetta (VII), in 3 giorni (1997);
– 1a ripetizione solitaria e 1a invernale della via Casarotto-Radin alla parete sud della Quarta Pala di San Lucano (VI+), in 2 giorni (13-14 marzo 1997);
– nel 2000 (14-18 gennaio) compie la 1a solitaria invernale della via Solleder in Civetta (VI), in 5 giorni;
Marco all’attacco della sua solitaria invernale alla via Solleder del Civetta (2000)
– nel 2000 (1 agosto) concatena la via Vinatzer con diretta Messner in Marmolada, la via Solleder in Civetta e lo Spigolo nord dell’Agner in sole 14h (spostamenti in bici e a piedi);
– Terza Pala di San Lucano, parete ovest, via Rosa o Denaro, prima ripetizione con varianti, VI+, 2005;
– nel 2009 concatena sulla Corna di Medale e in una sola giornata le vie Taveggia, Eternium, Mexico e Nuvole, Susanna Sotto le Gocce, Saronno ‘87, Anniversario, Cassin e Boga per un totale di 2000 metri di sviluppo;
– nel 2010 concatena in 24h sei vie in Grigna del grande Cassin: Medale, Torre Costanza, Torrione Palma, Sasso Carbonari, Sasso Cavallo, Pizzo Eghen (con spostamenti a piedi);
– 1a solitaria della parete sud-ovest della Prima Pala di San Lucano, Pilone Centrale Titan, via per L’ultimo Zar (VII+, A3), 13-14 ottobre 2011;
– 1a solitaria via dei Ragni alla Torre Cecilia Grigna), VI, A3, nel 2011;
– 2a solitaria (probabile) via del Dett al Sasso Cavallo, Grigna, VI+, A3, 2011;
– 1a solitaria via del Dett alla Torre Costanza, Grigna, VI, A4, 2011;
– 1a solitaria, via del Dett al Forcellino, Grigna, VI, A3, 2011;
– 1a ripetizione (probabile) alla via Zanetti 2000, Corna di Medale, 6c, A1, 2011;
– nel 2012 (14-16 marzo) Spiz di Lagunàz, Pilastro sud-ovest, via dei Bellunesi, 1a solitaria e 1a invernale, seconda ripetizione, VII, A3;
– 1a ripetizione (probabile) e 1a in libera (fino al VII+) della via Mandello, parete WSW del Sasso Cavallo (VI, A3), 2012;
– 10 aprile 2013, in 14h30’ concatena cinque diversi canaloni della Grigna: Porta e Federazione (Grigna Meridionale), Carbonari (Sasso Carbonari), Ovest (Grignone), Inglese (Pizzo della Pieve). Un modo per reinventare, vivere e ri-sognare le sue montagne di casa;
– 2013, tre vie in giornata di Giuseppe “Dett” Alippi (Punta Forcellino, Torrione Costanza, Sasso Cavallo);
– 2013, Grigna, cinque vie Bonatti in solitaria e in giornata, con spostamenti a piedi e in bici: Bastionata del Resegone, Medale, Torre Costanza, Ago Teresita, Torrione Magnaghi Meridionale.
Prima solitaria della via per l’Ultimo Zar alla Prima Pala di San Lucano (2011)
E’ stupefacente la quantità di ripetizioni in free solo delle vie Chiappa, Istruttori, Stelle Cadenti in Antimedale, la mattina del sabato o in settimana prima di andare a prendere i figli a scuola!
Così ancora Vinicio Stefanello racconta, con un evidente cuore spezzato, la tragedia di venerdì 14 marzo 2014: “Marco Anghileri, Bacc, 41enne, grande alpinista lecchese del gruppo Gamma, conosciutissimo, amato e stimato da tutto il mondo della montagna è morto sul Pilone Centrale del Monte Bianco. Il recupero del corpo da parte del Soccorso alpino valdostano è avvenuto questa mattina.
Marco era partito da casa sua, da Lecco, martedì della settimana scorsa. Solo a pochissimi amici aveva confidato la meta: il Pilone centrale del Frêney sul Monte Bianco. Voleva tentare la prima solitaria invernale di una via difficile, anzi mitica, di quelle che hanno fatto la storia: la via dedicata a Jöri Bardill. Una linea aperta, dal 10 al 12 agosto 1982, a sinistra della storica via classica, da Michel Piola, Pierre-Alain Steiner e Jöri Bardill. Una salita che ha rappresentato, e rappresenta ancora, un manifesto dell’alta difficoltà nel “tempio” dei Piloni del Monte Bianco. Mercoledì, dopo aver pernottato al rifugio Monzino, Marco era salito al bivacco Eccles. Poi, giovedì, era già sul Pilone… e saliva bene, da par suo. Tanto che la vetta, e insieme la fine dell’avventura, era prevista per il giorno dopo, venerdì”.
Dopo quell’ultimo messaggino da lui spedito il giovedì sera, la certezza della tragedia si è avuta solo lunedì 17. Poi sono stati recuperati sia il corpo che il saccone, rimasto attaccato alla sosta di quel penultimo tiro sulla Chandelle. Dentro era la macchina fotografica, con le foto che ci hanno mostrato i suoi progressi sul pilastro.
Primo bivacco in tendina sulla via Jöri Bardill, 13 marzo 2014
L’ultimo scatto di Marco, tardo pomeriggio del 14 marzo
Marco è stato trovato alla base del pilastro legato alla corda, spezzata, assieme a vari friend passati con rinvii. Uno dei quali si era rotto. Ci vuole una notevole forza d’urto per provocare un risultato disastroso come questo, non basta un volo. Perciò si presume una caduta dall’alto di qualche grosso masso (magari un blocco di ghiaccio, ma è meno probabile). Può anche essere che il distacco del masso sia stato provocato dallo stesso Marco… La via non era certo molto ripetuta.
Un momento felice a palazzo Roccabruna, Trento, 31-03-2010: Alpinisti per la Sud della Marmolada. In piedi, da sinistra a destra: Renzo Vettori, Natale Villa, Alberto Dorigatti, Paolo Leoni, Alessandro Gogna, Almo Giambisi, Heinz Grill, Sergio Martini, Sigrid Konigseder, Rolando Larcher, Mauro Girardi, Michele Cagol, Luisa Iovane, Heinz Mariacher, Mauro Fronza, Maurizio Giordani, Rosanna Manfrini, Giada Giordani, Paolo Cipriani, Francesco Margola, XXX, Carlo Claus, XXX, XXX, Mauro Leveghi (direttore Casa dei prodotti Trentini), XXX, Giovanni Baratto (ex Presidente SOSAT). In ginocchio, da sinistra a destra: Igor Koller, Hansjörg Auer, Bruno Pederiva, Massimo Faletti, Marco Anghileri e figlio Giulio, Mariano Frizzera, Marco Furlani, Remo Nicolini (ex Presidente SOSAT), Luciano Ferrari (allora Presidente SOSAT)
Letture
Prima solitaria invernale della via Solleder al Civetta, 2000
Prima solitaria di via per l’Ultimo Zar, 2011
Spiz di Lagunàz, via dei Bellunesi, 1a solitaria e 1a invernale, 2012
Parete nord-est del Pizzo Badile, via Cassin, in solitaria, agosto 2013
I tre piloni del Frenêy. Su quello Centrale, a sinistra della storica via classica, corre la via Jöri Bardill. Foto: Mario Sertori
“Ho perso le parole, ho perso la voglia di trasformarle in lettere… ho perso un Amico, ho perso i suoi sogni e le sue voglie di realizzarli, ho perso molto… Ma lo ritroverò ogni volta che vorrò, nella nostra Valle, sulla sua Grignetta, di giorno e di notte. Ho perso il suo accento, le sue basette quasi bianche, i suoi consigli e il poterlo punzecchiare, e quel segreto che avevamo, quelle linee ricche di parole, sorrisi, e piccole intese… mi mancherai Marco, mi mancherai con i tuoi pregi e i tuoi difetti… ho perso le parole, ma sono felice perché non te ne andrai mai, forse i sogni e i sognatori, sono per sempre… (Ivo Ferrari)”.
La funzione religiosa per Marco è iniziata con una canzone conosciuta proprio da tutti noi, quella Knockin’ on heaven’s door di Bob Dylan (non cantata da lui però). Assistere a un funerale è davvero vedere l’amico che “bussa alla porta del paradiso”, è partecipare al suo sgomento, a quei pochi attimi di coscienza viva di quel tragico volo: “Sta diventando buio / troppo buio per vedere / Mi fa sentire come / se stessi bussando alla porta del paradiso”.
Per te, Marco, la notte è finita.
postato il 29 marzo 2014
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Una mattina del 1988 siamo a finale , marco mi strapazza su per dodici vie…alla sera ci tiravano polenta ai tavoli.
A maggio di quell’anno in Francia a Cassis non si capacitava che non avessero il gusto panna .
E’ stato bello .
E’ successo .
Non capitera’ piu’
Annate fantastiche
Questo è un ricordo che Lorenzo Nettuno ha voluto pubblicassi.
“A Marco Anghileri
Ho conosciuto Marco in un momento in cui la mia voglia di montagna era a mille ma l’esperienza a zero.
Avevo già 20/22 anni ma mai messo le mani sulla roccia anche se sognavo la Grigna vedendola di fronte a me fin da bambino (nato a Lecco e vissuto a Bellagio) e avendo paciugato montagna quando non la capivo (vissuto a Cervinia da ragazzino per via della mia famiglia dedita al lavoro nel turismo come missione di ospitalità).
Lo sci nautico di velocità con relative fratture varie prima e il canottaggio poi (come sport terapia anti incidenti) mi hanno tenuto lontano da Lei fino a quei giorni.
Vagavo per la Grignetta con abbigliamento e stile inqualificabile in un splendida giornata di fine gennaio, periodo in cui la vasca di voga della canottieri andava presa a picconate (ghiaccio) per potersi allenare e ci era permessa qualche uscita di allenamento ‘alternativa’ (ma non si doveva sapere).
In cima a un canale in una zona che poi anni dopo avrei saputo essere quella del rifugio Rosalba (andavo a caso da totale incosciente e mancavano gli aggeggi moderni) già in tarda mattinata incontro due giovani che mi sembravano per lo meno confidenti se non esperti ma comunque avventati non meno di me. Si presentano (Lui in particolare) con quel sorriso che ricorderò per sempre e a maggior ragione ora che non c’è più, di chi apre gli occhi il cuore e il cervello all’altro perché è la montagna che lo permette. Da lì a 5 minuti ero legato a loro due con una corda da 20 m, con a disposizione una piccozza e un paio di ramponi, il tutto diviso in tre. Dopo 5 o 6 ore più o meno trascinato per creste, balze, piccoli nevai, cengie e muretti ci siamo ritrovati in cima alla Grignetta con il tramonto all’apice e tutta la felicità del mondo nel cuore e la stretta di mano di quei due che ancora sento oggi. Solo al ritorno ai Resinelli, e con le paternali dei loro amici che stavano facendo partire i soccorsi, ho saputo i loro cognomi: Anghileri e Alippi. Due persone di cui solo tanti anni dopo, quando, finito di fare buchi nell’acqua con il canottaggio da agonista e passato a dilettante e appassionato di montagna, ho capito e seguito il valore e la grandezza: che stava tutta lì, in un sorriso e in una mano tesa verso uno sconosciuto, nell’avventura di una invernale pomeridiana alla cresta Segantini”.
il 15 marzo mentre salivo da solo la via Zappelli sulla parete nord del Pizzo delle Saette in Apuane, inseguendo il mio piccolo sogno, pensavo a Marco che sul Pilone del Freney realizzava il suo grande sogno e mi dicevo quanto è forte, determinato ed entusiasta questo ragazzo . Ma giù tutto era successo….
Ciao Marco.
Difficile commentare, aggiungere qualcosa, se non che questa è e rimane una lacerazione. In ultimo, anche per noi alpinisti.
Finora non ho voluto scrivere o dire alcunché, già troppi ne parlano.
Le tonnellate di frasi fatte o meno, le tonnellate di saggezze da baraccone e di pillole di santità che sgorgano ovunque quando accadono tragedie come questa, mi lasciano sempre esterrefatto, mi deprimono, ma anche mi fa incazzare vedere quanta gente si definisce amica (lo conobbi ad una serata…), quasi una sorta di Facebook al di fuori del virtuale.
Qui in questo contesto più ristretto, direi di “addetti ai lavori”, mi sento invece libero di poter esprimere un’opinione su questa vicenda umana che malgrado tutto mi coinvolge.
Ero amico del Bacc? Non credo, malgrado molti anni fa avessimo passato un’intera giornata assieme a rincorrerci slegati sulle guglie della Grignetta, a raccontarci, a “sfidarci”, a condividere ciò che muoveva le nostre personali passioni…
Un ricordo al quale voglio soltanto accennare per dare un senso a ciò che sto scrivendo, ma che non esporterò nel suo intimo perchè quella giornata appartiene soltano a due alpinisti che per un momento hanno condiviso e si sono legati assieme senza corda.
Da quel momento in poi, malgrado il ripromettersi di arrampicare ancora assieme, malgrado i voli pindarici su possibili obiettivi comuni, non ci siamo più rivisti. Le nostre personali strade hanno continuato in quelle direzioni che già prima avevano, e come nella migliore tradizione del “Carpe Diem” è rimasto soltanto un bel ricordo…
Chi fosse Marco non lo so…non so cosa lo muovesse nella sua ricerca di emozioni, non so cosa lo spingesse a travalicare dal comune modo di affrontare la nostra presenza su questo pianeta, posso ipotizzare che osare sia stato il modo per sentirsi vivo, il modo di appartenere a quel lasso temporale tra nascita e morte, il modo di lasciare un segno indelebile del proprio passaggio.
Il distacco dalle persone che ami, quell’ultimo saluto a chi procede oltre lascia sempre un vuoto ed un dolore profondo, ma forse Alessandro, ciò è dovuto anche al modo mistico e tragico di vedere la morte, all’affidare il proprio destino oltrecortina a qualcosa di ignoto e misconosciuto che molti di noi chiamano con un qualche nome, al quale affidano bene e male rimanendo sospesi tra ragione umana e fede religiosa.
Io di fede non ne ho.
Vedo l’immortalità di un uomo che ha lasciato grandi segni in un piccolo universo che lui amava, l’alpinismo. Un piccolo universo che lo ha coinvolto in tutto e per tutto, un piccolo universo che ora gli auguro possa vivere in una qualche altra dimensione della quale ci sarà dato sapere al momento in cui ci si ritroverà assieme o forse no…
Ma che importa ora? Ha lasciato il segno, un segno scolpito sulla roccia che rimarrà nei secoli, ha vissuto la sua vita come voleva e questo conta!
Morire si muore solo se hai vissuto male il tuo tempo e Marco ha fatto tutto l’opposto.
Ci si vede al bar quando capiterà, magari avremo occasione di conoscerci di più.
Ciao Marco!