Marco Bernardi in Sardegna
di Maurizio Oviglia
(scritto per La Pietra dei Sogni, pubblicato anche su planetmountain.com il 3 marzo 2014 )
Spalmato in quel diedro continuo a chiedermi se è davvero qui che “lui” è passato. In genere i diedri hanno le fessure in cui proteggersi, ma questo ha tratti in cui è completamente cieco. Due serie di friend, più i micro, che ho appesi all’imbrago, non mi servono a niente se non c’è una misera crepa dove metterli… Così finalmente mi ricordo di avere con me anche il martello e tre chiodi, quelli che diceva di portare la relazione originale di Mezzogiorno di Pietra. Ridiscendo di due metri su un buon gradino e tiro fuori dalla tasca la fotocopia della relazione, per la verità molto vaga, che ormai so a memoria. La riguardo ancora, questo tratto lo dà proprio V grado!! Non è possibile! Rassegnato, risalgo al passaggio, deciso a forzarlo in qualche modo. Detesto usare i chiodi ma ora, che mi son reso conto di averli, guardo nuovamente il fondo del diedro con occhi diversi. Delle micro-fessurine potrebbero accoglierne uno, forse. Tuttavia non vi è nessun segno di chiodatura, come avrà fatto? Ma nessuno dei tre chiodi assolverebbe allo scopo di una, seppur misera, protezione. Se avessi un RURP! Ultima chance, un micronut d’ottone comprato in Yosemite: riesco a piazzarlo in un fessurino ma so bene, che in caso di volo, il calcare si spaccherà. Un po’ più forte mentalmente, ritorno su quelle due gocce già tastate prima, ripeto per l’ennesima volta al mio compagno di fare attenzione e ci tiro tutto quello che ho sinché riesco a mettere il piede all’altezza delle mani, sulle gocce stesse. Stremato, anche dall’attrito delle corde e dal fatto che sono al decimo tiro, mi ribalto su e grido al mio compagno: “… il V grado più duro della mia vita!”.
Ed è veramente una vita che è così, è sempre stato così! Vivo in Sardegna da un po’, 30 anni fra qualche mese, e oramai dovrei saperlo: meglio stare alla larga dalle vie di Marco Bernardi! Qui sull’isola lo dicono tutti, è ormai risaputo! A sentire quel nome, si rizzano i capelli. Nessuno le ha mai ripetute, nessuno sa darti informazioni certe, Google non trova nessun risultato. Zero assoluto. Eppure io ci ricado sempre e in trent’anni, ne avrò collezionate una decina. Ma ogni volta è la stessa storia, ogni volta mi ripeto che sarà l’ultima, tanto che l’esclamazione del V grado è divenuta ormai un mantra. Eppure, come tutte le vie mitiche, spaventano, attraggono e affascinano nello stesso tempo.
Conosciuto dagli alpinisti per la sua temeraria quanto inattesa solitaria alla Est delle Jorasses e dagli arrampicatori sportivi per aver promosso le prime gare a Bardonecchia, Marco è in realtà molto di più. È stato (è, dato che è ancora in attività, seppure lontano dai riflettori) in quegli anni un arrampicatore e un alpinista eccezionale. Per noi piemontesi, nei primi anni ‘80, era semplicemente un mito inarrivabile mentre per il resto dello stivale probabilmente rimane un nome un po’ misterioso, come in fondo molti altri, ugualmente scivolati nell’oblio. Ma una delle tante cose per cui Marco meriterebbe un posto di rilievo nella storia alpinistica nazionale, sono senza dubbio le vie che aprì in Sardegna tra il 1980 e il 1981. Invitato da Alessandro Gogna (come del resto altri nomi famosi dell’epoca, Manolo, Beuchod, Bonelli, Azzalea) a far parte della campagna esplorativa dell’isola, inanellò una serie di prime salite che sono oggi considerate dei capolavori assoluti. A volte in cordata con Alessandro, “il capo”, a volte a rotazione con gli altri compagni di “spedizione”, Marco ha aperto sull’isola almeno una ventina di nuovi itinerari. Le sue vie posseggono un pizzico di follia visionaria.
Forte del suo livello in arrampicata libera, decisamente superiore a tutti gli italiani suoi contemporanei, a eccezione solo di Manolo, Marco possedeva (come tutti gli scalatori di quell’epoca) nervi saldi e coraggio da vendere. Sapeva fare bene placche, fessure e strapiombi e la sua resistenza era semplicemente stupefacente, almeno relativamente agli altri scalatori di fine anni settanta. Non solo, era un maestro anche nel boulder, in un tempo in cui pochissimi lo praticavano. Arrampicava lento e sicuro, quasi sempre statico, tanto che nessuno di noi lo vide mai tremare su una presa. Mentre sulle Alpi Occidentali Marco si era dedicato soprattutto a liberare le vie altrui, soggiogato dall’arrampicata libera (quella rigorosamente senza resting: come lui stesso ci tiene a precisare, su un taccuino annotava tutti gli eventuali resting che faceva sulle lunghezze sin dal 1978), quando sbarcò in Sardegna si trovò di fronte intere tele bianche da pennellare. Aprire era dunque l’unica cosa da fare. Sue sono le prime vie nella Gola di Gorropu, su Punta Giràdili, sul Monte Uddè, sul Monte Ginnircu… persino a Jerzu, oggi mecca dell’arrampicata sportiva! Ne apriva una in ogni luogo che visitava, mai due vicine. Ancora oggi si fa fatica a credere che lui si sia lanciato su quei muri di 400 metri senza alcuna ricognizione preventiva, solo con due o tre chiodi all’imbrago, e qualche friend dei primi, quelli ancora con l’asta rigida. Sulle sue vie, infatti, abbondano i runout, spesso obbligatori. Spesso pare di trovarsi in Verdon, ma senza spit! E le relazioni, oh sì le relazioni, diciamolo pure, sono quanto mai fuorvianti! Circola voce che il V grado di Bernardi somigli all’attuale 6b, il VI e il VII, beh fate voi…
Ma permettetemi un passo indietro: ho conosciuto Marco a Foresto, nel 1981. Avevo 18 anni, arrampicavo da poco, forse un anno, e stavo provando una via di Gian Carlo Grassi. Ero appeso su un chiodo e cercavo inutilmente di raggiungere quello dopo, per me irraggiungibile in libera. Sconsolato attendevo non so cosa, forse un segno divino, quando a fianco a me lui apparve scendendo in corda doppia. Non sapevo assolutamente chi fosse quell’uomo, ma senza farmi troppi problemi gli chiesi se il passaggio era davvero V+ come segnato sulla guida di Grassi! Rispose che sì, per Grassi era V+ se usavi i chiodi, ma che era 6c in arrampicata libera. Ma, visto che molti non avevano capito l’enorme differenza che c’era tra i due modi di salire, lui aveva semplicemente tolto un chiodo di Grassi, rendendo il passaggio obbligatorio (pratica che aveva lanciato Jean-Claude Droyer, NdA).
Ovviamente non avevo la minima idea di cosa volesse dire 6c, così mi ricordai che la Rivista della Montagna aveva appena pubblicato una tabellina di equivalenze tra le scale in uso in vari paesi. Quando arrivai a casa e trovai quella pagina, mi si spalancò un nuovo mondo! Capii in un attimo l’enorme differenza tra salire in libera e salire in A0 o fare i resting. Allora eravamo ancora studenti e passavamo nell’Orrido di Foresto ogni minuto del nostro tempo libero. Continuamente sbirciavamo con la coda dell’occhio cosa facesse Marco, spesso in cordata con il suo amico Renzo Luzi. Sovente concatenava tiri lunghissimi e difficilissimi per gioco, un giorno salì con gli scarponi di cuoio doppi un 6c, un altro fece un tetto orizzontale di 10 m – che si faceva normalmente con le staffe – appeso con una sola mano e i piedi nel vuoto di rinvio in rinvio, come si fa sulla scaletta ai giardinetti. E il tutto senza tradire il minimo sforzo. Le sue gesta erano per noi leggenda pura, non si faceva che parlare di lui. Quando un giorno a Finale mi invitò a legarmi alla sua corda, fu per me un colpo al cuore. Quel giorno salì a vista Rock Stupid, 7a/b, un tetto che aveva provato senza successo persino Wolfgang Güllich. Io seguivo in qualche modo, cercando di limitare i danni e non fargli perder troppo tempo. Feci, ovviamente, una figura vergognosa. Anche tirare i chiodi (non c’erano spit!) era difficile, e le staffe… chi le aveva portate? Era il 1983 e la via, prima del suo passaggio, era valutata A2. Tutto ciò solo per dare un’idea di come Marco si lanciasse sui passaggi più temerari senza nessuna ricognizione preventiva.
Quando l’anno dopo mi ritrovai in Sardegna, comprai subito Mezzogiorno di Pietra. Constatai immediatamente che c’erano un buon numero di vie firmate Marco Bernardi e Alessandro Gogna. Ma se per me Marco era un mito, altrettanto lo era Alessandro. Avevo letto tutti i suoi libri e avevo incominciato a scrivergli lettere, soggiogato dai suoi scritti… Tuttavia, di persona, l’avevo intravisto solo una volta sul Becco di Valsoera e non avevo avuto il coraggio di presentarmi. Così, alla prima occasione convinsi Raimondo Mondo Liggi, un amico conosciuto in Sardegna, a tentare di ripetere Pan di Sale sulla scogliera di Masua. Mondo tremava dalla paura ma mi disse che, se tiravo io, mi avrebbe seguito… Gonfiammo un canottino per bambini e, remando con le braccia, arrivammo all’attacco. Il primo tiro era di VII grado e mi impegnò allo stremo, obbligandomi a un paio di resting. La roccia era polverosa e non dava nessun affidamento. Chiodi non ce n’erano, poi figuriamoci sul mare…
La seconda lunghezza era un tetto di VI grado e mi ricordo che, incredibilmente, ci riuscii. Ormai ero galvanizzato, così decisi, a profilo piuttosto alto, di lanciarmi sull’impressionante via del Carasau alla Punta Giràdili. Con Bruno e Cecilia dormimmo nell’ovile Despiggius e attaccammo all’alba. I primi tre tiri andarono bene, ma poi mi arenai davanti a uno strapiombo che Marco aveva valutato A3. Dove mai era passato? Non riuscii a capire. Battemmo in ritirata demoralizzati. Riprovai qualche tempo dopo con la via del Tempo Reale, ma scesi dopo due tiri, peraltro valutati V-. Dato che altrove regolarmente superavo passaggi di VII, la cosa era altamente demoralizzante e ogni volta era un duro colpo all’autostima.
Andò finalmente meglio nel 2000, quindici anni dopo, quando con Simone Sarti ci aggiudicammo la prima ripetizione e prima libera di Sintomi Primordiali, sulla carta la via “classica” più difficile della Sardegna dove, persino “lui”, era stato costretto a un resting su 350 metri di via (dichiarato nella relazione con estrema onestà)! Ci aspettavamo pertanto l’inferno, invece, per una volta, i gradi ci parvero onesti. Fu in quell’occasione che capii, definitivamente, che quando Marco era con Gogna, le relazioni e i gradi li scriveva Alessandro e tutto risultava più umano! Il problema erano dunque le altre vie, come a esempio la terribile Spalle al Muro. Luca Maspes, il primo (e unico) ripetitore di questa via, mi riferì di un’impressionante off-width obbligatoria di VII+ in cui Marco era salito senza proteggersi, e in cui lui era stato costretto a utilizzare i friend maxi della Black Diamond. Infine l’anno scorso, mentre con Fabio Erriu stavamo ripetendo l’ennesima sua via, la Via dell’Unicorno, Fabio mi confidò che il suo sogno era ripetere il Pilastro Comino a Gorropu. Di lì a pochi giorni Fabio avrebbe compiuto 70 anni, così alla sua festa gli feci un biglietto di auguri con la foto e il tracciato del Pilastro. Alla prima occasione andiamo, gli dissi sottovoce! Ma non lo dire a nessuno! Pochi giorni fa, finalmente, quel giorno è arrivato ed ho così assolto il mio impegno con Fabio. Una via grandiosa, la prima di Gorropu, può rappresentare un bel regalo per un sardo che ha ammirazione e rispetto per i grandi arrampicatori del passato, specie se si sono espressi sulla sua isola con la leggerezza di una farfalla! Per tanti anni avevo creduto che il Pilastro Comino passasse più a destra, ma improvvisamente, ripetendo Notti In Bianco di Lorenzo Nadali, il suo tracciato esatto mi si era finalmente rivelato. Saliva in mezzo alle vie moderne… ma senza spit e senza chiodi, in vaghe fessure dove ormai erano ricresciuti i cespugli tanto da sembrare praticamente vergini. Non so davvero quante persone in questi anni abbiano ripetuto quella via, e magari ora qualcuno si farà vivo. So per certo che segni di passaggio ce n’erano pochissimi!
Purtroppo ultimamente alcune vie di Bernardi hanno finito per essere spittate, o per scelta o per errore. Al di là delle proprie opinioni etiche, penso che queste vie debbano rimanere così come sono sempre state: pulite. Sono, per così dire, patrimonio della “nostra” umanità, di noi alpinisti e arrampicatori. Sono storia, con la S maiuscola! Con Fabio ci siamo ripromessi di ripulirle dalla vegetazione ricresciuta e di renderle più “piacevoli”, magari mettendo qualche cordone qua e là sugli alberi. È già un bell’impegno, bisogna perderci giornate intere! Alessandro Gogna ha chiesto invece espressamente che vengano rimossi gli spit dalle vie che sono state spittate, in memoria di quell’epoca d’oro, affinché venga tramandato alle future generazioni il talento di arrampicatori come Marco, che erano in quei tempi tra i migliori del mondo. Fortunatamente, non come altrove, in Sardegna ancora nessuno ha pensato che spittare una delle sue vie serva a non cancellarne la memoria e ciò è avvenuto spesso per errore e ignoranza. Ci sono tante altre possibilità su cui ci si può divertire sportivamente, che le vie di quell’epoca gloriosa sono passate semplicemente inosservate, tanto che molti non sanno neanche di preciso dove passino. Queste righe vogliono essere un omaggio a Marco, certamente, ma un invito a riflettere sul senso della nostra storia e sulla necessità di poterla preservare. E, per chi lo desidera, anche fossero pochissimi, ri-viverla nella maniera più autentica.
Alcuni capolavori di Marco Bernardi in Sardegna
Torri di San Pantaleo
Prima e ultima volta, aperta con Anne-Lise Rochat il 16 aprile 1981
120 m – VI+
Una terribile fessura off width mai ripetuta
Punta Carabidda
Stupidi e malprotetti, aperta con Massimo Demichela, Ernesto Fabbri e Alessandro Gogna il 19 aprile 1981
170m – V+
La sua via più ripetuta, forse in ragione della sua difficoltà ma soprattutto per il fatto che è stata parzialmente spittata da ignoti.
Punta Cusidore
Incerto mattino, aperta con Anne-Lise Rochat, Monica Mazzucchi e Alessandro Gogna il 25 aprile 1981
640m – VI+
Via abbastanza ripetuta, una sola lunghezza difficile.
Bruncu Nieddu
Spalle al muro, aperta con Massimo Demichela il 20 aprile 1981
265m – VII+
Forse la sua via più difficile e psicologicamente impegnativa, ripetuta una sola volta.
Monte Uddè
Tempo Reale, aperta con Anne-Lise Rochat il 23 aprile 1981
170m – VI
Raramente ripetuta, oggi spittata parzialmente per errore da arrampicatori francesi.
Monte Oddeu
Coda dell’angelo, aperta con Alessandro Gogna il 13 aprile 1981
190m – VIII (fatto in libera solo da secondo)
Un’altra via mitica, forse una o due ripetizioni al massimo.
Gole di Gorroppu
Pilastro Comino, aperta con Andrea Gobetti e Claudio Persico il 28 giugno 1980
450m – VI+
Grandioso itinerario, pochissime ripetizioni
Codula di Luna, Parete di Donneneittu
Via dell’Unicorno, aperta con Roberto Bonelli e Alessandro Gogna il 27 aprile 1981
230m – VI
Una decina di ripetizioni al massimo. Arrampicatori francesi ne fecero alcune varianti dirette che chiamarono Le secret de la Licorne.
Punta Giradili
Via del Carasau, aperta con Claudio Persico il 2 luglio 1980
400m – VI+/A3
Una grande via ripetuta una sola volta con una variante che evita il tiro di A3. Nella parte alta oggi è probabilmente ricalcata dalla via moderna Wolfgang Guellich.
Punta Ginnircu
Sintomi primordiali, aperta con Alessandro Gogna il 1 maggio 1981
350m – VIII-
Altra grande via, ripetuta una sola volta.
Masua
Pan di Sale, aperta con Alessandro Gogna il 7 maggio 1981
180m – VII
Ripetuta probabilmente una sola volta.
Buggerru
West coast, aperta con Monica Mazzucchi il 9 maggio 1981
100m – VII
Probabilmente mai ripetuta, oggi incrociata da una via moderna a spit sul tratto chiave.
Nota: le notizie sulle ripetizioni si intendono a conoscenza dell’autore dell’articolo (quindi in data 2014, NdR).
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Ottimo intervento!!
Forse stiamo banalizzando questa attività, perchè tutti si sentono in diritto di fare tutto anche se non se ne possiede le qualità? E per poterlo fare non si ha riguardo della storia disegnata sulle pareti.
Bernardi faceva il settimo quando era ancora settimo, ma però oggi, che si parla sempre di gradi superiori, nessuno ripete le sue vie, anzi ne cancellano alcuni tiri o le incrociano banalizzandole. Qualche domanda sorge spontanea.
Sintomi Primordiali, nome bellissimo ed evocativo. Il nome di una via è importante
Segnalo solo che nel 94, quando ripetemmo “Spalle al muro” (nome bellissimo anche questo), io e Stefano Piccoliori non avevamo i friend BD che ancora non esistevano, salimmo invece con un friend della Ande, il più grosso (il nero mi pare) che però non andava per niente bene se mandato in pressione su quel calcare liscio. Questo difetto me lo confermò anche Giorgio Anghileri, dell’azienda produttrice dell’aggeggio.
Nell’89, quando con Sandro Pansini ripetemmo la via del Carasau a punta Giradili (o Iradile) non avevamo nessuna relazione. Trovammo un solo chiodo.
Nella parte alta seguimmo una fessura invasa dal rosmarino che non dimenticherò mai.
Nella mia vita di alpinista ho avuto due obiettivi/sogni nei posti a me più cari: il Cerro Torre in Patagonia e Sintomi Primordiali al Monte Ginnircu.
Per il secondo aspetto da anni il momento buono. Sole, compagno, ispirazione, ecc. Spero arrivi prima che poi.
Sintomi Primordiali, oltre alla bellezza della parete, del posto e della storia della via, ha il nome più bello e evocativo che ci sia.
Riporta al solo pronunciarlo, a sentimenti veri di sopravvivenza e autenticità, essenza profonda dell’alpinismo d’esplorazione. Per me, che ho passato nel baunese parte della mia adolescenza, è un ritorno alla giovinezza e a quei profumi di macchia che hanno marcato le mie narici e non solo.
E, ovviamente, da quando iniziai a scalare, Bernardi era ed è ancora, uno degli assi indiscussi. Un mito!
Io e Marco Pelfini abbiamo ripetuto Spalle al muro nell’ottobre 2007, insieme ad altre di Bernardi e banda.