Marmolada 1961 (AG 1961-003)
(dal mio diario, gennaio 1962)
Quando Paolo Baldi mi parlò del suo progetto di salire ancora sulla Marmolada feci in modo che capisse che avrei desiderato andare anch’io. Non vedevo altri mezzi per raggiungere la vetta: mio padre non si sarebbe mai sognato di organizzare una gita così: per lui queste sono scemate, così per gente che vuole mostrare la propria abilità, così pericolose, e non considera per nulla il lato spirituale e sportivo; non comprende la gioia che procura una buona ascensione faticosa con anche un pizzico di pericolo o più che pizzico, illusione. Comunque Paolo in principio cercò di non parlarne, ma alle mie insistenze promise che quando sarebbe arrivato suo padre gliene avrebbe parlato. Poco fiducioso di ciò non mi accontentai e continuai a scocciarlo finché il 13 di agosto non arrivò suo padre. Visto che non si approdava a nulla e che quasi lui ci si divertiva, intensificai ancora le mie richieste. Mi disse che finché non arrivava suo zio con i tre cugini, un amico di suo padre e i suoi due figli, non si sarebbe fatto nulla: per il momento mi calmai. Ma verso il 20 i grandi cominciarono a parlottare tra di loro di quell’argomento ed esortai per l’ultima volta Paolo: ma non fece nulla, allora decisi di parlarne io stesso a suo padre e un giorno, incontrandolo, lo salutai e gli chiesi se per caso c’era una gita alla Marmolada in programma. Rispose di sì ed io, con una faccia tosta terribile, gli chiesi se potevo aggregarmi. Rispose che potevo se mia madre dava il consenso e se c’era posto nella cordata. Dato che le cordate sono al massimo di sette persone e siccome c’erano già Paolo, il padre, lo zio i tre cugini e una delle tre sorelle di Paolo, io avevo ben poche speranze di partecipare alla gita. Per fortuna avvennero delle così inaspettate: si aggiunse altra gente che voleva partecipare e si arrivò alla necessità di comporre due cordate; dissi a mia madre di prepararsi e un giorno con infiniti accorgimenti, sotterfugi, speranze, timori, gioie e disperazioni, ebbi il tanto sospirato permesso.
Si è a giovedì 24, la gita sarà tra due giorni. La famiglia di Paolo fa gli ultimi preparativi. Acquistano pantaloni alla zuava, sacco da montagna nuovo, ramponi, eccetera. Da parte mia ho già tutto, anche i ramponi: solo gli scarponi sono un po’ vecchi e logori e fanno acqua al contatto della neve. Comunque rimedio portandomi dietro ben nove paia di calze di ricambio. Sono tanto contento, entusiasta, che ho già preparato tutto fin da venerdì, anche il mangiare: la notte tra venerdì e sabato la passo mezzo insonne in agitazione e finalmente giunge l’ora della partenza. Alcuni prendono la corriera, altri vanno in macchina per riunirci ad Alba di Canazei. Sembriamo un esercito: il padre di Paolo, Paolo e sua sorella Maria Teresa, lo zio di Paolo, che chiamerò lo «zio» (il suo nome è Leo Baldi), due dei suoi tre figli, due fratelli di cognome Malatesta, un certo Nicola e una signora molto brava in alpinismo su roccia: in totale undici persone. Per la cronaca ecco l’abbondante equipaggiamento mio personale: dieci paia di calze tra lunghe e corte (avrei potuto risparmiarle portando un paio di calzettoni di lana), un paio di scarponi vecchiotti, pantaloni lunghi-blue jeans, camicia felpata, pullover senza maniche, tre maglioni, la giacca a vento, due papaline, occhiali da sole per proteggermi dal riverbero della neve, guanti di lana e i ramponi che mi ha prestato il padrone di casa. Nel sacco ho dei panini, ma pochi, con prosciutto e formaggio, molta cioccolata, molti quadretti di zucchero, un coltello, due carte militari al 25.000, dei biscotti crackers, una scatola di pesche sciroppate e un po’ di frutta fresca. In tutto cinque chili sulle spalle. L’inizio della strada è alla fermata della corriera, sotto un crocefisso e un cartello: “Visitate il rif. Contrin”. Attorno, prati e boschi. Mi fermo su una panchina messa li dal Comune e metto a posto quelle così che mi ero proposto di fare all’ultimo momento. Chiudo di nuovo il sacco, guardo un po’ in giro e aspetto gli altri che pure s’affaccendano. Finalmente il padre di Paolo dà il segnale di partenza. Subito mi metto in testa: è come un’abitudine. Assumo il passo cadenzato da montanaro, che è il migliore di tutti, e procediamo di buon accordo per un bel pezzo, chiacchierando a gruppi di gite e di tante altre cose. Io sono con Paolo e finito il primo pezzo che pur non essendo duro è abbastanza ripido e si snoda per un sentiero larghissimo, percorso anche dai muli e piuttosto acciottolato, ci fermiamo un po’ per far riposare i più deboli. Abbiamo oltrepassato una zona boscosa abbastanza fitta. La strada fa giri piuttosto larghi su una stessa zona di terreno: alcuni sentieruzzi tagliano i tornanti e si inerpicano in canaloni di brughiera. C’è una deviazione che porta alla cascata. L’aria qui intorno è carica di vapore e il sole calante scherza con le minuscole goccioline provocando bellissimi arcobaleni. La boscaglia vive intorno a noi con le api e gli uccelli, voci di altri gitanti di ritorno ci arrivano dall’alto… La vita del bosco è sempre bella, anche quando nello stesso luogo ci si è già stati: non si può dire che i suoni e le immagini siano diversi, ma è sempre bello offrire il nostro animo ad essi. Siamo a quota 1730 m: qui, stando alle carte topografiche, c’era un laghetto, ma adesso non c’è altro che una distesa di ghiaia e di sabbia trasportata dalla corrente. A destra ci sovrasta il Collac, blocco roccioso suggestivo per la sua solitudine ai piedi dell’altro gruppo di fronte: la Marmolada. Non che la Marmolada si abbassi a vedere il suo minuscolo cortigiano: ben altre cime e cimette frappone tra lui e se stessa, a cominciare dal Cogolmai, che è il primo della serie.
Dopo quella salita iniziale il sentiero si fa più largo ancora e più piano, costeggia il torrente per poi giungere con un’ultima salita al rifugio. La val Contrin è la tipica valle trentina: non intendo una valle di transito, parlo di quelle valli piccole e brevi che alle persone che vi entrano si presentano subito bene; non ha curve e si vede perciò il fondo, non è stretta ma neppure larga. Vi sono prati e pascoli in cui le mucche possono ben nutrirsi, ma vi sono anche fitte pinete. La valle sbocca dove ci siamo affacciati noi e dalle altre parti è molto faticosa l’entrata, essendovi infatti tre valichi da superare, uno più ripido dell’altro: il Passo Ombretta (o di Contrin), il Passo Cirelle e il Passo San Nicolò. È in sostanza una valle di quelle che piacciono a me, quasi selvaggia: vi è infatti appena un rifugio vicino a una malga, poi ancora qualche fienile e la Cappelletta vicino al rifugio. Questo è situato su una piccola collinetta, contornata da pini e dallo spiazzo antistante c’è una bella vista sul Sassolungo. C’è ancora tempo per la cena, perciò andiamo a gironzolare mentre i grandi fissano le camere. Paolo ed io ci stacchiamo dagli altri e andiamo verso la strada di domani: ci divertiamo a scalare qualche masso con parziale successo. Alle prime oscurità torniamo al rifugio. Lì seduto su una panca di legno con davanti il tavolo e il mio pasto frugale, alla luce scialba cui fa contrasto la generale allegria, mi sembra di appartenere ad un altro mondo. Credo che anche Paolo provi una sensazione simile: lo vedo mogio, gli occhi fissi, forse nel mio medesimo pensiero. Eh, sì! È certamente una cosa fuori dall’ordinario questa! Sono contento di gustare questa felicità serena. Forse sto per dormire e pur essendo nella massima tranquillità, mentre distrattamente maneggio il cucchiaio tra bocca e brodo, temo qualcosa di indefinibile: sono inquieto e non me ne accorgo. Per riscaldarci un po’ prendiamo un bel tè bollente con limone e finalmente, verso le 21, ci avviamo nell’altro edificio per dormire. Occupiamo la stanza che ci è stata assegnata assieme a due giovani tedeschi, ci svestiamo sommariamente e ci accomodiamo in cuccetta.
Sulla via ferrata della cresta nord-ovest della Marmolada
Subito cerco di dormire, immaginando di riuscirci non appena toccato letto, ma sono troppo agitato e con il tempo mi eccito sempre di più. Sento gli altri che a poco a poco si addormentano ed io… niente! Non riesco che a pensare alla Marmolada, agli sforzi fatti per partecipare a questa gita e a quello che finalmente avrei provato nel posare il piede sulla sospirata vetta. E intanto mi struggo nell’impazienza, mi giro e mi rigiro nelle coperte, stringendo i denti per la rabbia di non poter partire subito… E poi, che rabbia non poter sapere l’ora! Ho cercato nel sacco l’orologio e non l’ho trovato. Prendo una busta di crackers e mangio. D’improvviso un pensiero spaventoso: e se il tempo s’imbruttisse? La sera è stata bella, ma chissà? Decido di andare a vedere, tanto non mi sarei addormentato più. Nell’oscurità cerco i vestiti, che indosso pian piano, mi alzo, infilo gli scarponi, apro silenziosamente la porta e dopo aver fatto alcuni passi quatto quatto mi slancio per il corridoio e poi giù per le scale. Finalmente sono fuori dalla prigione della mia prima notte in rifugio. Non ho ancora fatto un passo al di là della soglia che, dopo aver respirato una boccata di quella brezza notturna, mi fermo estatico: il cielo è completamente cosparso di stelle e la luna risplende e abbaglia; i monti sono illuminati e fanno una vivida cornice alla valle buia; alla mia sinistra il gruppo del Vernel è in piena luna e davanti a me le Cime Ombretta, le Cime Cadine. Queste, essendo più lontane, occhieggiano sinistramente. Il profilo del Passo San Nicolò si staglia nitido. Con reverenza guardo la Marmolada: non si nasconde più ora. Ora comanda allo scoperto. La sua parete sud ovest è assurda, irreale e opprimente. Il profilo, che già alla luce del giorno è selvaggio e superbo, di notte è tetro e spettrale. Sembra proprio un, disegno della fantasia, una di quelle visioni terribili che travagliano le notti dei più piccini. Le così che spaventano e danno i brividi non si ammirano mai a lungo, perciò torno dentro, anche perché così mal vestito ho freddo. Torno nel dormitorio, assieme alle altre persone ignare di così gravide visioni. Termino di vestirmi e mi stendo sul lettino. Dopo tanto tempo sento un tramestio, una voce che parla e sveglia tutti: è una delle nostre guide. Capisco di essermi addormentato. Mi alzo, stropiccio a lungo gli occhi, faccio ordine nel sacco tenendo da parte qualche zuccherino e qualche pezzo di cioccolata che metto in tasca. Quando escono, tutti rivolgono esclamazioni meravigliate per quanto io ho già visto prima: ma non è più la stessa cosa, l’alba è vicina e non c’è più solitudine. In rifugio beviamo il tè e mangiamo qualcosa: esamino le due guide sottoponendole a un personale esame: la prima non mi va tanto a genio, non che mi sia antipatica a vista, solo preferisco la seconda. Spero che questa si metta in testa e per fortuna sarà così. Subito dietro all’uomo simpatico ci sono io, poi Paolo, in seguito le posizioni non sono fisse. Saliamo per declivi erbosi, gli ultimi pascoli, poi su terreno pietroso ma non roccioso. Mentre la valle si restringe, incominciamo le serpentine. Aspettiamo che il minore dei Malatesta si scarichi gli intestini del superfluo. Dopo la biforcazione per il Passo Ombretta si è su una specie di ripiano, al principio del ghiaione che porta alla stretta Forcella Marmolada, quota 2503 m. Consumiamo cioccolata e prugne secche di Paolo. Ormai si vede al di là del cammino che abbiamo appena fatto: il Latemàr comincia ad arrossarsi con i primi raggi solari e il cielo sereno fa nitida quella bella visione. Le cime più in basso sono ancora all’oscuro, immerse in una luce incerta che le fa così di uno stesso colore grigiastro: è questione di attimi però, perché subito intervengono altre trasformazioni.
La cartolina inviata a mio padre con il tracciato e quell’io così orgoglioso
Nessuno è stanco ma ci aspetta una bella tirata: perciò la guida ci richiama e si mette di nuovo a capo fila. I ghiaioni, non per dire, sono il mio forte: è raro che faccia un passo e scivoli, come capita spesso ad altri. Procedo sempre sicuro e senza fatica, sopra un terreno che sfugge. Il sentiero su ghiaione è ben visibile, dapprima sale a destra (sinistra orografica), poi attraversa e si porta sul lato sinistro (destra orografica), dove con infinite serpentine, con curve di 30° ogni due metri, raggiunge un poggio di cinque metri quadrati, poco al di sotto della forcella, a quota 2892 m. Le guide ci fanno riposare bene, poi ci legano la corda attorno alla vita; a un tratto il minore dei Malatesta si sente male e si sente svenire; si vede che soffre il mal di montagna giacché siamo ad un’altezza non trascurabile. Comunque un buon grappino lo rimette in sesto. Per maggior precauzione la guida lo mette dietro di sé ed io mi devo accontentare del terzo posto. La prima cordata è composta dalla guida simpatica, dal minore dei Malatesta, da me, dal maggiore dei Malatesta, da Nicola, da Pio, cioè il fratello maggiore dei cugini di Paolo e dal padre di Paolo; la seconda dall’altra guida, da Paolo, dall’altro suo cugino, da sua sorella, dallo zio e dalla Signora. Lasciamo quel poggio e ci avviamo su per il canalone finale e giunti in cima vediamo che c’è da salire una scaletta di ferro su una parete che, senza scalette, sarebbe di quarto grado, a quanto dice la guida. Non mi spavento certo per questo, ben sapendo che gran parte del cammino per raggiungere la vetta dovremo farlo su per la via ferrata, cioè salendo su una serie di scale di ferro più o meno a precipizio, aggrappandoci alla corda metallica. Dopo la prima gradinata giungiamo alla Forcella Marmolada, 2910 metri. Che spettacolo magnifico! La vista è limitata perché le rocce del Vernel e della Spalla della Marmolada impediscono, ma è fantastico lo stesso. Ormai il sole ha quasi inondato il basso ghiacciaio e le cime di fronte al lago, cime erbose che ho già asceso in parte, sono anch’esse illuminate. Il ghiacciaio sotto di noi è però ancora in ombra. Dopo poco ricominciamo la salita. Presto impariamo il meccanismo della cordata, che sugli scalini di ferro è più d’impaccio che altro. È divertente salire a perdifiato su quegli scalini che si susseguono a circa trenta centimetri uno dall’altro. Saliamo senza un attimo di sosta e quando si passa da una rampa all’altra bisogna fare attenzione ad alcune placchette di vetrato. Alla fine ci fermiamo al sole e ci scaldiamo alle sue carezze: dovrei essere al di sopra del limite d’altezza del Piz Boè. Il panorama si è immensamente allargato, mastichiamo zucchero, caramelle e cioccolata, aspettiamo l’arrivo dell’altra cordata. Quando ripartiamo, mettiamo piede su neve e attraverso estese placche di neve dura e di ghiaccio arriviamo alla capanna della Punta Penia, cioè a dieci metri dalla cima. In preda ad una speciale agitazione entro in capanna, poso il sacco e corro in cima, alla croce. Finalmente a 3342 metri! Poi scorgo sulla sinistra un monticiattolo di neve e mi viene in mente che la cima sia quella. Perciò torno dalla guida, mentre intanto arrivano Paolo e la sua cordata, m’informo e poi gli riferisco che la vera cima è quella con la croce, quella cui si riferiscono le quote delle carte. Però esiste sempre anche l’altra cimetta nevosa, che non è tenuta in considerazione. Ma quel monte di neve è più alto, perciò per aumentare il nostro record ci slanciamo su, misurandone l’altezza a occhio e decidiamo di essere a 3348 m. Con un passo di esitazione facciamo il movimento finale e raggiungiamo quella quota; indi ci prepariamo per il salto finale per raggiungere una quota ancora più alta. Prima salto io e a suo giudizio raggiungo gli ottanta centimetri. Poi salta lui e do lo stesso giudizio. Quindi senza nemmeno guardare il panorama ritorniamo alla capanna dove tutti mangiamo: sono le 9.50. In seguito tutti insieme ritorniamo in cima e scattiamo molte fotografie perché il tempo è splendido (segue minuziosa descrizione delle montagne intorno, NdR). Si domina tutto, ma non i giganti all’orizzonte che, unendosi in uniforme linea biancastra, paiono contrapporre a tale dominio un’assurda barriera… In basso e in primo piano, ancora in parte oscuri, i crepacci insidiosi del ghiacciaio. Il Pian dei Fiacconi si scorge bene, molti puntini neri si muovono allegramente. Alcuni sciano sui campi di neve della Marmolada di Rocca. Magnifica la voragine scura del Passo Ombretta, dove non è ancora penetrato il sole. Tutto però appariva ordinato a delizia dell’anima.
Un pezzo di discesa si deve effettuare con i ramponi per poi scendere sul ghiacciaio seguendo con attenzione le orme per non cadere nei crepacci profondi di quell’estate, dai venti ai centottanta metri a detta della guida. Forse l’avrà detto per spaventarci e per farci stare più attenti. Dopo gli ultimi preparativi calziamo i ramponi e dopo aver provato a camminare con quelle punte sotto i piedi, avendo visto che sono molto utili perché mordono bene il ghiaccio e aiutano a non scivolare, ci disponiamo in fila, legati in cordata. Poiché nelle discese la guida sta sempre ultima, la nostra si mise in fondo e io penultimo. Egli dà alcuni consigli al padre di Paolo che è per primo. Poi anch’egli si mette i ramponi e dà il segnale di partenza ed è a malincuore che io lascio la cima. Si inizia la discesa su una crestina di neve ghiacciata larga non più di quaranta centimetri dalla quale sono caduti tre giorni fa due giovani sfracellandosi nell’orrido burrone ghiacciato. Tolti i ramponi, scendiamo su roccia, per alcuni un po’ difficile, e infine arriviamo a un ponte di ghiaccio che sovrasta il crepaccio più profondo della stagione. È l’ultimo ostacolo, superato il quale ci sentiamo abbastanza stanchi da poter scivolare: la guida subito dietro di me ci rimprovera e queste frasi un po’ dure mi toccano nell’orgoglio. Ci avviciniamo al Pian dei Fiacconi dove, all’arrivo della seggiovia, ci dovrebbero aspettare venti persone, tra cui mia madre, la madre di Paolo con le sorelle, parenti, amici, eccetera. Noi, alla fine dei ghiacci, ci sleghiamo e ci slanciamo giù sul nevaio. Nella neve marcia arrivo per primo tutto bagnato, con cinque minuti di vantaggio, a recar notizie. Tutti e venti mi arrivano addosso, saluto tutti e dico che gli altri stanno arrivando; dopo poco saluti, abbracci si susseguono a bizzeffe. Ma intanto l’altra cordata non si vede. In tutta quella folla non si vede nemmeno se stanno arrivando. La mamma di Paolo comincia a temere per il figlio e la figlia. La sofferenza ha un termine, così salutiamo le due guide che portano in cima un’altra comitiva. Tutti insieme, trentun persone, entriamo nel ristorante del Pian dei Fiacconi, tutti i particolari sono raccontati e tutti parlano allegri dello stesso argomento.
A Soraga, dopo i saluti, ognuno torna alle proprie case. Dopo aver riempito la testa a mia madre di tutti i minimi particolari, dopo aver mangiato e riassettato la roba che mi sono portato dietro, mi spoglio e mi metto a letto dove dormo come un masso fino all’indomani, convinto di aver compiuto una cosa che per altri non avrà nessun valore, ma per me ne ha moltissimo e che ha segnato una data per me indimenticabile: 27 agosto 1961, ore 9.48 a quota 3348,800, Punta Penia della Marmolada.
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Carissimo Alessandro, ti ringrazio moltissimo per il tuo racconto, così preciso e dettagliato, che mi ha rinfrescato ricordi e sensazioni di un’esperienza anche per me importantissima. Sono il “più piccolo dei Malatesta” e ricordo bene sia lo spettacolo straordinario della luna che sembrava un lampione appeso alla parete Sud della Marmolada, come non posso dimenticare il mal di pancia che mi prese ad un certo punto, da te ricordato con delicatezza. Avevo dimenticato invece il malore che mi prese prima dell’attacco della ferrata, si vede che il grappino lo aveva fatto evaporare anche dalla memoria! Un caro saluto e un abbraccio
Giovanni Malatesta
In qualcosa mi ritrovo anche io: i pantaloni blue-jeans, la camicia felpata (ricordo una gita di un CAI nel 1980 dove tutti eravamo vestiti allo stesso modo: camicia felpata scozzese e pantaloni di velluto beige), equipaggiamento sovradimensionato (3 maglioni + giacca a vento), vivande pure sovrabbondandi (mia madre era fissata con panini alla cotoletta) e guai dimenticare la frutta (adesso non mi sogno nemmeno di portare nello zaino una scatola di pesche sciroppate ma un pò di pomodorini e due banane) .
Che emozione scaturisce da queste pagine di diario di un ragazzino, che non finirà mai di emozionare con esplorazioni, avventure, spedizioni, scalate, salite e scrivendo e documetando il mondo della montagna.
grazie per aver condiviso.
Bel racconto.
Quando mio padre salì la Marmolada per la ferrata della cresta ovest prese la guida e non mi portò, raccontando al ritorno cose pazzesche. Quando la salii io mio padre era già morto e lo pensai con tenerezza, perché non era così tremenda. Ma erano i tempi e mi ritrovo molto nei tuoi racconti. Ho perfino le stesse cartoline in bianco e nero!
Commoventi questi ricordi e le sensazioni “da bambino” che riesci a trasmettere… Bravo Alessandro!