Marmolada
(un evento imprevedibile che riscrive le regole del muoversi in alta quota)
di Eugenio Maria Cipriani
(pubblicato su Lo zaino n. 18, autunno 2022 e su sassbaloss.com/lozaino)
Dopo la sciagura sulla Marmolada del 3 luglio 2022, niente in alta quota sarà più come prima. Né su quel che resta dei ghiacci della cima più alta delle Dolomiti né su qualsivoglia altro ghiacciaio montano. Andrà riscritta la storia dell’alpinismo poiché anche “vie normali” in ambiente glaciale solitamente ritenute mansuete è ormai dimostrato che possono trasformarsi da un momento all’altro in trappole mortali. E andrà rivisto pure il modo di affrontare l’alta quota, dalle vie di ghiaccio a quelle di misto. Revisione che per queste ultime, di fatto, era divenuta necessaria già da diversi anni un po’ ovunque a causa dello scollamento estivo di grossi blocchi di roccia con conseguenti interdizioni (spesso disattese dagli alpinisti) da parte delle amministrazioni comunali sia di qua che di là dalle Alpi. Esaminando nello specifico le Dolomiti, sono sotto gli occhi di tutti i principali effetti del cambiamento climatico in corso: inverni siccitosi, temperature estive sopra la media per lunghi periodi, eventi metereologici estremi (vedi Vaia) e rapido ritirarsi delle ultime zone glaciali (o glacio-nivali).
A parte il ghiacciaio della Marmolada, tipico ghiacciaio di “calotta” ma, un tempo, dotato di un discreto sviluppo vallivo, gli altri ghiacciai dolomitici erano (l’uso del tempo passato ormai è d’obbligo) prevalentemente di canalone e di conca. Facevano eccezione solo i ghiacciai sommitali di Cima Tosa, di Cima Brenta (che presentava pure un seracco pensile) e della Fradusta, sulle Pale, nonché numerosi nevai pensili minori come, tanto per fare un paio di esempi, il Pian del Lezuò, sull’Antelao, o il Cristallo sulla Nord-ovest del Civetta.
Purtroppo gran parte di essi non esiste più e anche i ghiacciai di canalone sono oggi ridotti, d’estate, a rock-glaciers assolutamente impraticabili sul piano alpinistico. Possono essere risaliti quindi solo in pieno inverno o all’inizio della primavera ma sempre accollandosi grossi rischi per il pericolo di crolli di roccia dalle pareti laterali.
Condizione fondamentale per la formazione e lo sviluppo di un ghiacciaio è l’esistenza, al di sopra del locale limite delle nevi permanenti, di superfici adatte alla raccolta, all’accumulo, alla conservazione e alla trasformazione della neve in “nevato” e poi in ghiaccio. I guadagni (accumulo) derivano soprattutto dalle precipitazioni in forma nevosa (alimentazione diretta), ma anche dalla neve trasportata dal vento e dalle valanghe, processo, quest’ultimo, di particolare efficacia nell’ambiente topografico e morfologico dei ghiacciai dolomitici. Luoghi deputati all’accumulo di neve destinata poi a diventare ghiaccio sono sempre stati, almeno sino a una quarantina di anni or sono, i canaloni esposti a settentrione e le sottostanti conche di accumulo. Rinserrati fra pareti verticali, spesso impostati su profonde diaclasi, raramente lambiti dai raggi del sole, essi rappresentano i siti dove più facilmente, anche a quote non elevate, può prodursi un bilancio di massa positivo. Sono luoghi strani e contraddittori: basti dire che in diversi di essi la zona di ablazione, cioè di scioglimento del ghiaccio, spesso si trova a quote più elevate rispetto a quella di alimentazione. Ciò a causa della particolare morfologia dei versanti entro cui s’insinuano queste lingue di ghiaccio e neve, ampi (e più “caldi”) verso l’alto, cioè verso lo sbocco superiore, stretti e incassati (e di conseguenza più “freddi”) nella parte inferiore.
In questi imbuti di raccolta nivo-glaciale, a partire dalla prima metà degli anni Novanta, il bilancio ha iniziato a trasformarsi da positivo a tendenzialmente negativo. Molti di questi canaloni, infatti, si presentano oggi in palese fase di ritiro, se non addirittura “morti” o trasformati in rock-glaciers a forte pendenza.
Parlare di rock-glaciers non è casuale e introduce un altro aspetto tipico delle zone interessate dai percorsi in questione: quello del consistente incremento dei fenomeni franosi sulle pareti che rinserrano gli imbuti ghiacciati. Il riferimento non è solo ai fenomeni erosivi conseguenti al passaggio e al successivo ritiro dei ghiacci, ma a macroscopici esempi di quarring, cioè di sradicamento di blocchi anche di ciclopiche proporzioni, uniti a una accentuata tendenza ai fenomeni clastici di disfacimento specie nelle pareti dove maggiore è l’escursione termica durante il giorno e dove corre la linea di demarcazione fra ghiaccio e roccia, buio e luce, umido ed asciutto.
Al di là dell’ormai trascurabile interesse alpinistico dei ghiacciai dolomitici di canalone, essi potrebbero tuttavia rappresentare, tanto nel loro insieme quanto considerati singolarmente, un interessante laboratorio di studi. Certo non sarebbe uno studio facile, né comodo e nemmeno del tutto esente da rischi. Però si tratterebbe di un orizzonte, per quanto piccolo e geograficamente limitato, ancora da studiare e che potrebbe essere utile per prevenire fenomeni analoghi a quello del 3 luglio 2022.
Che cosa è accaduto sulla Marmolada
Come giustamente ha osservato Reinhold Messner subito dopo il tragico evento, lo scollamento di parte della calotta sommitale del ghiacciaio di Punta Rocca è stato con buona probabilità dovuto al ruscellamento della neve di fusione (abbondante a causa delle prolungate alte temperature) che ha letteralmente scollato il ghiaccio dalla superficie rocciosa su cui la calotta poggiava da millenni. Un ghiacciaio, soprattutto se di calotta, può essere paragonato a una glassa di cioccolato sopra a un dolce. Se la temperatura esterna si alza, la glassa da compatta diventa viscosa e, se i bordi della torta sono spioventi, poco a poco si frattura e si scolla trascinando nella caduta anche qualche pezzo superficiale di torta. In Marmolada è successo esattamente questo solo che, anziché cioccolato, sono precipitati a valle circa trecentomila metri cubi di ghiaccio che hanno trascinato con sé enormi blocchi di roccia con le conseguenze drammatiche che tutti conosciamo.
Un fenomeno assolutamente imprevedibile ma che dal 3 luglio 2022 in poi dovrà comunque essere tenuto in debita considerazione come monito nella programmazione di qualsiasi escursione su un ghiacciaio. A rendere l’evento del 3 luglio 2022 ancora più imprevedibile concorre il fatto che la massa che si è staccata non poggiava su una superfice convessa e ripida come era un tempo quando la calotta ghiacciata si estendeva da Punta Rocca sino a poco sopra il Pian dei Fiacconi confluendo con il ramo nord-orientale di ghiaccio proveniente da Punta Penìa lungo il quale corre la “via normale” alla vetta della Marmolada. Da tempo la calotta ghiacciata di Punta Rocca, infatti, si era annidata dentro una sorta di enorme conca sospesa sopra l’ex scivolo ghiacciato, divenuto da anni una parete di roccia. In altre parole, quindi, non vi erano più né lo scivolo ghiacciato né la crepaccia terminale ma solo una sorta di “cappello” glaciale solcato da alcuni larghi crepacci, cappello che poggiava sull’ampio circo roccioso che ne faceva da basamento. Circo oggi ben visibile in quanto la metà settentrionale è emersa dopo il crollo di parte della calotta.
In conclusione, quindi, se la calotta glaciale fosse stata appoggiata su una superfice convessa, forse si sarebbe potuto ipotizzare un crollo. Poggiando invece dentro una gigantesca conca sospesa, tutto faceva pensare che il livello del ghiaccio si sarebbe ridotto poco a poco senza eventi catastrofici. L’opposto di ciò che è accaduto. Tutto ciò a riprova, se mai ce ne fosse bisogno, che la montagna non solo è imprevedibile ma che non si può mai dire di conoscerla a fondo e che quindi per affrontarla oltre all’esperienza, peraltro indispensabile, occorre anche una buona dose di fortuna.
Vie di ghiaccio in Dolomiti: la testimonianza editoriale della fine di un modo di fare alpinismo sulle Dolomiti
Sul finire degli anni Settanta e nei primi anni Ottanta, affascinato sia dal mondo dolomitico che dall’arrampicata su ghiaccio, mi dedicai all’esplorazione dei principali itinerari glaciali di arrampicata sui Monti Pallidi, intendendo col termine “itinerario glaciale di arrampicata” un percorso su terreno ripido nevoso e\o ghiacciato effettuabile anche e soprattutto durante la stagione estiva, scalabile solo con l’uso di appositi attrezzi (piccozze e ramponi) e con una appropriata tecnica di progressione. Il censimento degli itinerari glaciali mi portò all’identificazione di diciassette percorsi in diversi gruppi dolomitici dal Brenta alle Dolomiti di Sesto passando ovviamente per la Marmolada (1). Condensai queste mie esperienze in una guida (oggi esaurita) che venne pubblicata nel 1986 e che riscosse un insperato consenso di pubblico. A distanza di pochi anni dalla pubblicazione iniziarono a giungermi testimonianze, da parte dei ripetitori di questi percorsi, che riferivano di situazioni di fatto ben diverse da quelle descritte nella guida in quanto andava via via scemando ovunque la presenza del ghiaccio mentre, in parallelo, cambiava la morfologia stessa delle pareti che rinserravano i percorsi. Oggi la maggior parte di essi non esiste più o è diventata impraticabile – se non a prezzo di altissimi rischi – non solo d’estate ma anche d’inverno. I due scivoli nord e nord-ovest di Punta Penìa, ad esempio, da tempo erano stati messi nel dimenticatoio alpinistico mentre sino agli anni Ottanta erano vie di ghiaccio molto frequentate anche e soprattutto a inizio estate. Pure il versante da dove si è staccata parte della calotta glaciale il 3 luglio 2022 (Marmolada di Rocca) era sino a trentacinque-quaranta anni fa totalmente ghiacciato e, essendo meno ripido di quello di Punta Penìa, veniva non solo salito anch’esso con piccozza e ramponi ma persino sceso da chi voleva impratichirsi con lo sci ripido. La fusione di ghiaccio che sicuramente è presente all’interno [cioè nelle fessure o diaclasi) dell’enorme massa calcarea (non dolomitica!) di cui è composta la Marmolada potrebbe inoltre favorire il distacco di fette di roccia anche dal compatto versante meridionale della “Regina delle Dolomiti” analogamente a quanto è avvenuto pochi anni fa sulla parete sud del fratello minore della Marmolada, il Gran Vernel. La grande nicchia di distacco, biancastra, è ben visibile in Val Rosalia dal sentiero (Alta Via n. 2) che collega i rifugi Contrin e Falier attraverso il passo d’Ombretta.
Vecchie polemiche e nuove prospettive
Spettacolare e tragico, l’evento del 3 luglio 2022 ha avuto una vastissima eco mediatica non solo in Italia ma anche all’estero. Nel nostro Paese, in particolare, sono stati versati fiumi d’inchiostro e girate ore ed ore di servizi televisivi per analizzare la catastrofe in ogni dettaglio. Il bilancio complessivo di undici morti ha poi dato adito a considerazioni non solo in merito alla prevedibilità o meno dell’evento ma anche se non fosse stato e se non sia in genere opportuno interdire l’attività alpinistica almeno in quota. Circa la prima questione glaciologi, professionisti della montagna ed esperti locali hanno giudicato all’unanimità l’evento come assolutamente non prevedibile. Quanto alla seconda, ovvero l’opportunità o meno di vietare in qualche modo la pratica dell’alpinismo, come era prevedibile è nato un dibattito tanto clamoroso quanto inutile. Vecchie storie, che si ripetono da quando è nato l’alpinismo. Quando il 14 luglio del 1865, dopo aver raggiunto per la prima volta la vetta del Cervino ben quattro dei sette componenti della cordata precipitarono lungo la parete nord il fatto, gonfiato ad arte dalla stampa inglese, suscitò un tale clamore che per qualche mese la regina Vittoria stessa rimase in dubbio se vietare o meno ai sudditi della Corona la pericolosa moda delle scalate che stava diffondendosi a macchia d’olio. In tempi più recenti, nel luglio del 1961, la tragedia del Pilone del Frêney in cui persero la vita anche in questo caso quattro dei sette protagonisti (viene da pensare che scalare una cima in sette porti un tantino sfiga! NdA) diede fuoco alle polveri mediatiche e puntualmente si scatenarono i soliti opinionisti da salotto che invocarono la messa al bando dell’alpinismo. In entrambi i casi alla fine non se ne fece nulla e gli alpinisti continuarono imperterriti a scorrazzare su e giù dalle cime. La storia si è ripetuta anche dopo la sciagura del 3 luglio 2022 (viene da pensare che pure scalare in luglio, oltre che in sette, porti un tantino sfiga! NdA) ma di nuovo, per fortuna, non è stato posto alcun veto alla pratica alpinistica se non limitatamente al versante nord della Marmolada a causa dell’incombenza, questa volta più che evidente, del pericolo di nuovi crolli.
Si è però continuato a cercare un capro espiatorio e un noto quotidiano nazionale, titolando a caratteri cubitali “Siamo tutti colpevoli!”, sembra averlo trovato. Soluzione geniale perché incolpando tutti si finisce per non dar la colpa a nessuno. Così si salvano i proverbiali capra e cavoli. In realtà il giornalista, come è ovvio, non attribuiva colpe specifiche ma con quella dichiarazione di colpevolezza generale sottendeva che i Sapiens, per dirla alla Mario Tozzi, non stanno facendo abbastanza (in alcuni casi aggiungerei che stanno facendo proprio il contrario) per limitare la crisi climatica, il riscaldamento globale, ecc. Il giornalista non ha tutti i torti, anzi. Entrando un po’ più nello specifico, ovvero considerando l’ambiente montano e in modo particolare le Dolomiti, a me sembra che lo sfruttamento del territorio in molti, anzi troppi, casi venga spinto oltre la soglia di sostenibilità per favorire un tipo di turismo dannoso e palesemente obsoleto. A costo di risultare noioso e ripetitivo nei confronti di chi è solito leggere questa rivista, torno a puntare l’indice contro lo sci da discesa e contro la cieca e pervicace politica degli amministratori locali di continuare a promuoverlo e incentivarlo nonostante i fatti, vale a dire il cambiamento climatico unito alla crisi energetica e a quella idrica, ne segnalino l’evidente insostenibilità sia sul piano economico che ambientale. L’innevamento artificiale, all’unanimità ritenuto indispensabile dagli specialisti del settore sciistico almeno sino ai 2500 metri di quota, è una delle pratiche più energivore sia in termini di fabbisogno idrico che elettrico. Inoltre stravolge il territorio che, laddove sono presenti le piste da sci, viene contraddistinto da enormi totem metallici che definire orrendi è far loro un complimento e costellato da bacini di raccolta di una risorsa che in un futuro purtroppo non molto lontano diventerà più preziosa, e conseguentemente più costosa, dell’oro nero: l’acqua.
L’obiezione più ovvia a questa considerazione verte sull’enorme indotto economico che gira attorno allo sci alpino. Il turismo invernale legato allo sci oggettivamente porta molti soldi nelle casse di albergatori, impiantisti, ecc. Ma occorre tenere presenti due elementi non trascurabili. Anzitutto che i costi di esercizio sempre più elevati trasformeranno definitivamente lo sci alpino in uno sport d’élite e quindi vi è da chiedersi se vale la pena sperperare soldi (in parte pubblici e quindi anche di chi non scia), per garantire un futuro a un’attività riservata a pochi e che arricchisce solo alcune zone dell’arco alpino. In secondo luogo l’inverno pandemico 2020-2021 con i suoi impianti di risalita chiusi (fatta eccezione per i Mondiali di Cortina) ha registrato comunque ogni fine settimana il tutto esaurito in montagna con gente felice di passeggiare, ciaspolare e fare scialpinismo in piena tranquillità. Un turismo invernale alternativo è dunque possibile, ancorché auspicabile. Così come sarebbe auspicabile tagliare una buona volta i finanziamenti pubblici adibiti a opere che, per motivi climatici ed energetici, diventeranno inutilizzabili nel volgere di un paio di decenni al massimo. Non parliamo poi della pista olimpica da bob di Cortina che sarà utilizzata da uno sparuto manipolo di praticanti solo per qualche giorno per fare la fine poi di quella piemontese realizzata a Cesana per le Olimpiadi del 2006 o di quella, sempre a Cortina, realizzata per le Olimpiadi del 1956 e abbandonata da oltre mezzo secolo alle ortiche. A ben guardare le uniche strutture che tutto sommato, pur impattando sul territorio, potrebbero rivelarsi utili – sia chiaro, utili socialmente, non economicamente – sono i bacini idrici. Certo non per essere usati allo scopo di sparare la neve sulle piste ma come riserve di un bene destinato, anno dopo anno, ad acquistare sempre più valore specie quando, in un futuro ormai non molto lontano, tutti i ghiacciai si saranno liquefatti.
Note
(1) Ecco i percorsi, qui di seguito distribuiti in ordine di gruppo dolomitico di appartenenza. Dolomiti di Brenta: 1) canalone nord (Neri) di Cima Tosa; 2) canalino sud di Cima Tosa: 3) scivolo nord di Cima Brenta. Gruppo delle Pale di San Martino: 4) scivolo nord del Travignolo; 5) canalone della Beta. Gruppo del Civetta: 6) via del “Giazzèr”. Gruppo del Pelmo: 7) la “Fisura”. Gruppo dell’Antelao: 8) canalone nord (Oppel) all’Antelao: 9) scivolo nord (Menini) di Forcella Menini. Gruppo del Sorapiss: 10) canalone Comici-Brunner alla Fopa di Mattia; 11) canalone Nenzi-Pianetti alla Cacciagrande. Gruppo del Cristallo: 12) canalone Innerkofler. Gruppo dei Tre Scarperi: 13) canalone Comici-Fabjan-Brunner. Gruppo del Popera: 14) canalone “omicida” (canalone Schuster) del Monte Popera; 15) via del ghiacciaio pensile. Marmolada: 16) scivolo nord alla Punta Penìa; 17) scivolo nord-ovest alla Punta Penìa.
@ Baccolo, Carlo e chiunque interessato.
Per evitare di ripetere ogni volta le stesse cose, invito gli interessati a consultare la documentazione in archivio sul Gogna Blog.
“Più montagna per pochi”, parte 1 e parte 2 (settembre 2019):
https://gognablog.sherpa-gate.com/piu-montagna-per-pochi-1/
https://gognablog.sherpa-gate.com/piu-montagna-per-pochi-2/
@ Baccolo. Poni troppe questioni per risponderti in poche righe. Il mio DNA congenito è quello del martellatore e agisco cosi a prescindere dall’efficacia o meno del metodo. In più i feedback dell’intera via (non solo montagna) mi dicono che il modello è molto efficace: a martellate gli “amici” (allievi, dipendenti, soci ecc ec ecc) vengono su “come Dio comanda”, mentre i “nemici/avversari” sono totalmente sbaragliati. Circa patentini e divieti, mi pare che non hai colto perfettamente la mia posizione, perché li concepisco solo come misura alternativa e non prioritaria. Sull’ultimo punto ci sarebbe da scrivere un romanzo piu’ lungo di Guerra e Pace. La risposta sta in ciò che ho scritto Cominetti sulla Scuola torinese di scialpinismo e sul modello didattico del CAI coordinato dalla CNSASA. Ipotizzo tu non abbia esperienze e contatti con tale mondo. In particolare nella ns scuola esiste “UN” solo modo di fare le cose. Per tutti. È cosi da sempre e, se estistismo da oltre 70 anni, del tutto sbagliato non è. Segnalo che, girando io abitualmente per molte scuole CAI, intendo come ospite, ho registrato che il comparto delle scuole di scialpinismo è “monocratico”, mentre fra le scuole di alpinismo e arrampicata c’è un po’ più di variabilita statistica. Riflettendo penso dipenda molto dalla natura della disciplina (alpinismo più individuale, scialpinismo più di gruppo) e dalla tradizione storica ormai consolidata. In ogni caso difficilmente troverai un istruttore CAI di scialpinismo, specie se titolato, che ti dirà “io ti insegno in un modo, poi tu fai come preferisci”. In genere ti dicono ” Io ti insegno così e tu fari sempre cosi”. Io di istruttori CAI titolati, particolare di scialpinismo, “libertari” non ne ho mai conosciuti in 40 anni e pussa. Cmq io per DNA e per convinzione NON lo sono. Grazie per chiacchierata. Buona notte.
@28 Carlo (nota metodologica dovresti mettere il cognome o un qualcosa che ti specifica, perché oltre a me e te, c’è anche un altro Carlo che contribuisce-senza cognome- e vi si confinde).
Ti risponderei con piacere ripetendoti la descrizione del tema da zero, ma susciteremmo le ire delle vestali del “fast and furious”, per cui ti prego di perdonarmi se non esprimo con te la mia usuale disponibilità a ripetere i concetti.
Il tema è trattato abbondantemente da me in passato e lo trovi agli atti. In particolare in due articoli collegati e pubblicati sul Blog in data 30/9/2019 e 1/10/2019.
In effetti la “vera” contrapposizione non coinvolge i caiani (cioè i convinti sostenitori dellz visione caiana), bensì vede da una parte i “non cannibali” e dall’altra i cannibali. Maggiori delucidazioni negli articoli segnalati. Ciao!
24, Sign. Crovella. Lei mette in contrapposizione caini e cannibali, ma i cannibali non sono forse anche i turisti, i clienti delle guide e, alla fin fine, quelli che di iscrivono ai corsi del cai e che poi, magari, ci rimangono tutta la vita?
Carlo, rieccomi e grazie delle risposte.
Cercherò di essere conciso perché i tuoi commenti sono numerosi. Parto dicendoti subito che molti dei tuoi principi in realtà li condivido, non è quindi il contenuto ad allontanarci. In particolare il tuo ideale di “più montagna per pochi” è qualcosa che a grandi linee penso anche io. Semmai quello che davvero ci divide è il metodo attraverso cui porti avanti questa tesi.
Con metodo intendo due aspetti. In primis il tuo metodo comunicativo fondato sulla ripetizione allo sfinimento e in qualsiasi sede delle tue idee. Magari come dici tu funziona, nel senso che ogni singolo lettore occasionale alla fine incappa nei tuoi commenti, però ti assicuro che per chi legge abitualmente qui è dura superare lo scoglio e andare a leggersi i commenti diversi dai tuoi. Alla lunga, parlo per me, finisce che sebbene possa condividere alcune delle cose che dici, i tuoi commenti li salto a piè pari. Sicuro che il metodo che adotti massimizzi la diffusione delle tue idee?
Come suggerisci potrei benissimo leggere l’articolo ed evitare i commenti, ma ti dirò che i commenti sono un di più che mi piace leggere. Lo scambio che c’è sotto alla maggior parte degli articoli è un valore aggiunto. Ma se i commenti sono triti e ritriti (oltre che di lunghezza assurda), quello che potenzialmente sarebbe un di più diventa un peso. Poi certo, le critiche che ti si muovono sono spesso le solite. Non sei il solo ad alimentare il “circo barnum” (perdonami, non ho resistito) dei commenti. Ma converrai che molte volte sei tu a dare il là, iniziando le solite discussioni anche se il tema dell’articolo è tutt’altro. E se alcuni commentatori si dimenticano le tue spiegazioni potresti ignorarli, come tu suggerisci di fare a me con i tuoi commenti, non riproporre il pippone chilometrico per l’ennesima volta.
Per ultimo vengo al motivo che credo ci allontani maggiormente. Sebbene entrambi possiamo definirci fautori del “più montagna per pochi”, il mio approccio in tal senso è fondato esclusivamente sull’educazione e la cultura personale. Sono queste due cose che dovrebbero spingere chiunque a tutelare e preservare la montagna così come qualsiasi altro ambiente naturale. Non ho nemmeno nell’anticamera del cervello di proporre idee quali patentini, obblighi di frequentazione di corsi, numeri chiusi. Se tu sei diventato l’alpinista che sei, lo hai fatto seguendo un percorso che hai scelto. Per quanto tale percorso sia stato di successo (questo lo valuta ognuno di noi, usando il metro che più gli piace), io non mi sognerei mai di imporlo o erigerlo al di sopra degli altri modi che esistono per diventare umili conoscitori e frequentatori della montagna. Ed è qui che siamo agli antipodi, per te esiste UN metodo, per me no. Per me l’importante è frequentare la montagna con rispetto e limitando al massimo i nostri impatti su di essa. Come si arriva a costruire tale consapevolezza o attraverso quale disciplina per me non ha alcuna importanza. Saluti a tutti e lunga vita al blog!
Vogliamo dire che agli istruttori di scialpinismo non viene chiesta la capacità di sintesi???
Beh….diciamolo
Se proprio vogliamo andare di precisione, allora:
Boccolo -intervento n°11- 149 parole
Crovella -intervento n°12 e 14- 996 + 362=1358 parole (9.11 volte di più)
Cominetti -intervento n°15 e 16- 215+250=465 parole
Crovella -intervento n°19- 1029 parole (2.21 volte)
Raffin -intervento n°23- 63 parole
Crovella -intervento n°24- 161 parole (2.55 volte)
Per constatando una tendenza a limitare la logorrea, appare evidente la sproporzione e l’asfissia indotta dagli interventi fiume, come sottolinea Raffin.
Anche ammettendo che non si possa pretendere da tutti la lucidità di coniugare chiarezza e concisione, secondo me qualcuno esagera.
@23 Per amor di precisione, specifico due cose: 1) La contrapposizione NON è fra caiani e GA (Guide alpine), come da te scritto nel 23, ma fra caiani e cannibali. Le GA sono state coinvolte stamattina solo come esempio per rispondere alle valutazioni di Cominetti, per il resto non c’entrano per nulla. Io ho molto amici fra le GA e ho una stima significativa nei confronti del loro mondo. 2) La digressione rispetto la tema cardine (Marmolada) è stata aperta ieri da Boccolo (commento 11), che mi ha posto esplicitamente la domanda “a che pro?”. Lo ha fatto con stile cortese e molto educato e con altrettanto stile gli io gli ho pazientemente risposto. Ooi stamattina su questo tema alternativo si è inserito anche Cominetti e con altrettanto pazienza ho risposto anche a lui.
Allora decidetevi, delle due l’una: o non si aprono mai delle parentesi rispetto al tema cardine dell’articolo giornaliero oppure, se mi pongono delle domande, lasciatemi rispondere.
A
I commenti del Sig. Crovella (con tutto il rispetto) monopolizzano le discussioni spostando l’attenzione dall’articolo alle sue “beghe personali” nell’eterna sfida tra Caiani e GA. Commenti lunghi 82 chilometri che si ripetono nei contenuti da sempre. Non se ne può più. Nulla di personale, molti punti di vista li condivido, è che mi passa la voglia leggere il resto dei commenti. Cedo prima.
Le cazzate le fanno tutti. Guide alpine comprese.
Crovella, hai ragione.
“Ma ti sbagli completamente quando estendi questi casi alla totalità degli istruttori”
è lo stesso errore che tu commetti ogni volta che accomuni con “voi pensare, dite, fate” tutti quelli che in una qualche maniera non sono d’accordo con quello che scrivi…tipico caso del bue che da del cornuto all’asino!
@16 Può darsi che, nella miriade di istruttori CAI (mi pare che siano almeno 10.000 i soli titolati complessivi nelle diverse discipline, cui si aggiunge una marea di istruttori sezionali, impossibile da quantificare, ma se non sono altrettanto poco ci manca: diciamo che il totale “titolati+sezionali” sta fra 15.000 e 20.000), può darsi – dicevo – che in tale miriade ci sia qualcuno non aggiornato e/o non adeguatamente preparato. D’altra parte, trattandosi di un ruolo di volontari, non si riesce ad esser così capillari al 100% su tutti. Il lavoro che viene fatto dalla CNSASA (vedi sotto) e, a cascata, dalla scuole CAI è cmq rimarchevole
Ma ti sbagli completamente quando estendi questi casi alla totalità degli istruttori. Commetti un errore per tua superficialità concettuale. L’errore è: “io Cominetti ho visto alcuni istruttori commettere scemenze, ergo TUTTI gli istruttori CAI fanno cazzate, compreso Crovella.”
Prima provami di persona e poi eventualmente lasciati andare a questi commenti, piuttosto stupidi. Doppiamente stupidi, come ti ho già detto più volte, perché tu hai dimostrato moltissime volte che non conosci NULLA della Scuola SUCAI, quella cui appartengo, che è una delle “sancte santorum” della didattica, cioè uno dei templi del approccio maturo e consapevole alla montagna, delle sue continue evoluzioni e migliorie e della diffusione di tutto ciò al mondo degli appassionati di montagna (non necessariamente scialpinisti, perché molti concetti sono trasversali a tutte le discipline).
Nota ai lettori: consentitemi il plurare un po’ forzato – “sancte santorum” – perché intredo affermare publbicamente che vi sono altre scuole di scialpinismo importanti a tal fine, es la Righini di Milano (ma anche molte altre). Se storcete il naso sul piano linguistico e preferite il singolare, allora taglio la testa al toro e vado sul singolare, ricordando che la SUCAI è stata la prima scuola di scialpinismo ad esser fondata – 1951/52 -, che opera da oltre 70 senza soluzione di continuità, che “gira” almeno 90 allievi all’anno, che ha tre corsi di scialpinismo ogni anno, che ha un organico istruttori di quasi 100 persone, che è stata la prima Scuola a costituire uno specifico corso di Snowboard alpinismo (SBA), giunto alla 18 edizione annuale consecutiva, con un “suo” organico istruttori e che, a sua volta, gira altri 20 allievi annui. Potrei continuare, segnalando che su iniziativa dei sucaini a fine dei ’60 è stata inventata la figura di istruttore nazionale di scialpinismo (INSA) e che da allora si è registrato la quasi sistematica presenza di rappresentanti della Scuola SUCAI in seno alla CNSASA e relativa Scuola Centrale, ovvero negli organi centrali del CAI dove vengono elaborate e aggiornate con sistematicità le nozioni che poi, attraverso una capillare distribuzione con manuali e aggiornamenti sul terreno, arrivano fino alle più piccole e lontane scuole CAI. Quindi mi sento di affermare che in ogni novità tecnica, metodologica, comportamentale del modello didattico del CAI c’è quasi sicuramente lo “zampino” della SUCAI. A volte di più, a volte di meno, ma sono rarissime le nozioni rispetto alle quali il mondo SUCAI è completamente estraneo. Ecco perché affermo che la SUCAI è una sancta santorum della didattica del CAI, magari oggi non l’unica ma certamente una delle più rilevanti.
E’ praticamente impossibile che i nostri istruttori (e fra questi rientro anche io, seppur ormai sono fra i “vecchi” per una questione anagrafica) siano quindi “approssimativi” su uno qualsiasi degli aspetti (da come si attaccano le pelli fino alle manovre di soccorso più complicate). Uno dei nostri assiomi è “si è SEMPRE istruttori“, il che significa che come ti comporti durante le uscite ufficiali, laddove devi far vedere, in prima persona, il comportamento che stai insegnando agli allievi, così ti comporti SEMPRE, anche in qualsiasi uscita privata (con amici della SUCAI, ma anche con soggetti terzi).
Pertanto le tue insinuazioni – per estensione e forse implicite nelle tue affermazioni – sul mio modo di andare in montagna sono completamente prive di fondamento. Poiché te l’ho già detto numerosissime altre volte, apro un piccola parentesi e richiamo l’attenzione di Giovanni Baccolo sull’inevitabilità della ripetizione dei concetti. Infatti se addirittura una guida alpina necessita, ogni tot settimane, di dovergli ripetere le stesse identiche cose, figurati il lettore di primo accesso al Blog o anche il cannibale che non ha il minimo inquadramento su come si affronta la montagna con metodo e intelligenza.
Torniamo a Cominetti. Ci sono due altri errori concettuali nella tue affermazioni. Primo equipari e mescoli istruttori e semplici soci CAI. Sbagliatissimo. Il modello CAI purtroppo NON obbliga chi si associa a seguire con profitto un corso di addestramento delle scuole CAI (ricordo che per corso di addestramento intendo almeno 3 stagioni consecutive, non un corsetto di 3 uscitelle e via). Magari ci fosse tale obbligo! Musiva per le mie orecchie! Ma non c’è. Quindi, considerato che i soci totali sono 327.000, è possibile che vediamo in giro semplici soci CAI che vanno in montagna secondo la “loro” visione e non secondo la “visione” ortodossa del CAI (quella del modello didattico governato dalla CVSASA). Spesso tale visione personale di soci CAI può essere anche terribilmente cannibalesca. se non si introduce il suddetto obbligo di partecipazione ai corsi di addestramento, questa discrepanza si manterrà nel tempo e potrebbe anche aumentare nei numeri.
Secondo errore di superficialità concettuale. Per curiosità e abitudine personale, io osservo sistematicamente chi incontro per le montagne e registro innumerevoli “cazzate” attribuibili anche a guide alpine, che incrocio qua e là. Alcune volte sono cosettine più di “principio”, quindi sono delle semplice scemenze, ma le noto al volo, perché “conosco” quasi a memoria i manuali aggiornati dalla CNSASA (per i motivo che ho illustrato sopra). In ogni caso verificare sul terreno che una guida alpina, ovvero un professionista accreditato, vada in montagna secondo prassi discordanti da quelle ufficiali, mi fa rimanere quanto meno perplesso. Ma io sbaglierei alla grandissima se estendessi in automatico la mia valutazione del momento all’intero mondo delle guide, ragionando (specularmente a come fai tu): “ho visto quella guida fare una scemenza, ergo tutte le guide fanno scemenze, compreso Cominetti”. Prima di esprimermi su come ti muovi in montagna, mi riservo di verificarlo di persona. Questi giudizi, infatti, devono essere cuciti sulla singola persona e non essere il frutto di generalizzazioni. Stammi bene.
1500 caratteri per tutti….150 per Sign. Crovella???
Mi trova d’accordo
D’accordo con [11]. Forse bisognerebbe mettere un limite massimo alla lunghezza di ogni intervento…
“ho insegnato certe cose, anche banali (come attaccare le pelli agli sci, come legarsi in cordata, come attrezzare una sosta…) e le ho ripetute migliaia se non addirittura milioni di volte”
Ecco, ora mi spiego perché tutte le volte che ho visto una cordata di caiani, sia istruttori che normali soci o mista, sia su ghiacciaio che su roccia, la tecnica impiegata era palesamente scorretta. Parlo soprattutto di corda corta, situazione in cui la corda stessa può diventare un pericolo enorme se non usata alla perfezione.
Lo stesso posso dire per le soste. Parlo di ciò che ho visto o che hanno riportato colleghi guide che avevano anche loro notato mettendoci tutti le mani nei capelli.
Il fatto stesso che il legarsi in cordata, allestire una sosta e attaccare le pelli sotto gli sci (operazione semplicissima e a prova di idiota) vengano considerate tutte e tre delle banalità di pari importanza, la dice lunga sulle qualità di istruttore del nostro trapanatore.
Crovella, penserai che io ce l’abbia con te a prescindere ma ti sbagli. Mi sorbisco le tue filippiche ripetitive e spesso mi trovo d’accordo con alcuni concetti che esprimi, ma questo ripeterti ossessivo con fiumi di parole ti espone al rischio di darti spesso la zappa sui piedi.
Datti una calmata e…rivedi i tuoi concetti tecnici da istruttore. La prima cosa è per non ammorbare noi altri lettori del blog, la seconda è per non instillare in neo alpinisti o scialpinisti pericolose certezze che mai lasciano spazio a dubbi.
L’articolo avrebbe fatto meglio a restare sul tema glaciale perché quando parla dello sci, la neve artificiale, gli impianti di risalita e…i finanziamenti statali a questi ultimi, perde di interesse e senso del reale.
Lo stato (lo scrivo volutamente con la minuscola per evidenziare la scarsa considerazione che ne ho) finanzia volentieri opere come impianti e piste da sci perché l’indotto che questo genera crea un gettito fiscale molto più grande dei finanziamenti stessi. Quindi, questo apparente cane ghiotto della sua stessa coda, sarà difficile da sradicare contando su argomenti triti e ritriti (su questo blog fino alla nausea e con molta approssimazione e dispendio di luoghi comuni) come il consumo di suolo, acqua e elettricità, perché anche questi ultimi elementi portano soldi nelle casse dello stato.
La svolta dovrebbe essere politica prima che ambientale ma ai politici dell’ambiente non gliene frega niente anche quando sembra il contrario. Il soldo regola tutto, proprio tutto, anche la stabilità o meno dei ghiacciai, perché si definisce nell’articolo come catastrofico un evento che in luoghi dove non va nessuno non sarebbe affatto stato tale.
Quindi queste ramanzine tanto care all’italiano medio che ama passeggiare sui monti la domenica, lasciano il tempo che trovano con chi magari mastica l’ambiente alpino un po’ di più per passione, sostentamento e cultura.
@11 Baccolo. Riprendo sinteticamente la parola per dimostrarti un caso “in diretta”. Nei commenti dell’articolo Commissione CAI Uguaglianza di genere (uscito l’8/3), poco fa dopo 113 commenti, se ne è inserito uno che ha riportato il dibattito al punto zero. In teoria occorrerebbe ripercorrere per intero tutto quanto già espresso nel dibattito… Praticamente capita a ogni articolo e anche più volte per articolo.
Proprio un paio di settimane fa un istruttote di una importante Scuola del CAI, tra l’altro Accademico in prima persona, mi ha detto: “Grazie Carlo per come ti batti a difesa dei valori tradizionali dell’alpinismo!”. Si riferiva alla mia attività complissiva sul tema, non solo a quanto faccio in questa sede, ma immagino coinvolgesse anche quanto faccio qui, visto che so che egli è un lettore del Blog.
Credo sia la più precisa risposta alla tua, legittima, domanda “A che pro?”.
Aggiungo una chiosa finale. Proprio per il tuo modo pacato e cortese di esprimerti, tendo a immaginarti, come dire?, non appartenente alla schiera dei cannibali. Ecco allora sono io che non comprendo il fastidio che può provare uno come te. La posizione ideologica che dovremmo avere tutti noi, noi alpinisti moderati, oculati e “consapevoli” sul modo di andar in montagna, dovrebbe essere quella di unire le forze per difendere i valori tradizionali dell’alpinismo e cercare strenuamete di educare i cannibali (in subordine se non vogliono proprio farsi educare vedere cime alleggerire la pressione sulla montagna). Questo sia per motivi ideologici, ma anche nel nostro interesse diretto: più cannibali in giro, più imprudente e scriteriatezza, più incidenti, più elevato è il rischio di chiusure valide erga omnes (quindi anche per noi).
Per cui, da personaggi come te, mi aspetterei interventi di segno completamente opposto: “Grazie Crovella per il gran mazzo che ti fai per la pazienza e l’abnegazione con le quali ripeti le cose laddove altri avrebbero perso gia” la pazienza…”.
Se non facciamo tutti insieme questo sforzo, tanto vale che facciamo che metterci metterci definitivamente una pietra sopra all’idea di tornare ad andare “liberi” in montagna: finiremo strangolati dall’eccessivo numero dei cannibali.
Spero di esser riuscito a spiegarti in efficacia a cosa servono i miei sforzi.
Buona serata!
Je ne voudrais pas être pessimiste, mais la population mondiale devenant de plus en plus importante, et les besoins énergétiques aussi, on ne pourra pas contrer le réchauffement climatique. Il faudra apprendre à vivre autrement.
@11 Ti ringrazio perché mi dai l’occasione per spiegare (in realtà ri-spiegare perché già l’ho spiegato diverse volte) pubblicamente la mia impostazione metodologica. Le tue considerazioni hanno un certo fondato, è ovvio. Tuttavia, quasi ogni giorno, mi vengono spesso richieste (direttamente sul Blog o indirettamente nei più vari canali) ulteriori precisazioni (a volte di tratta non di domande ma di “polemiche”) da cui si desume che le controparti del momento non si erano imbattuti in precedenza nei concetti in questione. In soldoni: gente cui devo rispiegare la tiritera.
Banalmente può accadere che si tratti di lettori che si sono avvicinati da poco (o addirittura quel giorno stesso) al Blog ecc. E’ vero che ripetere è fastidioso per i lettori abituali, ma è anche vero che la comunità di questo blog è “elastica”, per cui in teoria ogni giorno entrano nuovi lettori, che non hanno letto il pregresso.
Io frequento sistematicamente il Blog dal 2014 e collaboro con altrettanta sistematicità dal 2015. Dispongo quindi un orizzonte temporale abbastanza ampio su cui montare delle statistiche numeriche rilevanti. Non ho ovviamente tenuto i dati alla mano, ma ti posso assicurare che, a sensazione, sono quasi di più i lettori di passaggi dei pochi che leggono e commentano ogni giorno. In ogni caso il lettore che “passa” quel giorno e magari non lo rivedremo mai più, richiede attenzione per il solo fatto di essere un lettore che pone delle domande o, spesso, delle contrapposizioni polemiche.
A questi si aggiungono i lettori che, seppur abbastanza sistematici ( a volte anche molto sistematici), o sono superficiali (e non comprendono quello che leggono in quel momento) o lo dimenticano facilmente. Il giorno dopo ripropongono la stessa domanda o la stessa polemica. A volte mi è capitato a distanza di mesi (se non di anni) di sentirmi porre le stesse identiche questioni metodologiche dagli stessi identici individui. nA volte capita che i lettri, per quando sistematici, abbiano perso quella specifica giornata in cui ho fatto quella specifica precisazione e ciò mi costringe a rispiegare il tutto. Per esempio è evidente che tu realizzato l’accesso a giornate in cui altri mi hanno posto le tuer stesse obiezioni (in modo molto più violento e maleducato del tuo) e cuai avevo risposto. Legittimamente mi ri-poni la stessa questione e io ti rispondo, ma può essere che per altri lettori questo mio specifico commento sia vista come una “palla” perché l’ho già fatto in passato e forse anche più di una volta…
I miei tentativi in passato di obiettare (con riferimento alla generalità delle cose da me dette) cose del tipo “i concetti sono gli atti” non fanno presa.
Aggiungo alcune considerazioni. Primo: sarà che il DNA di istruttore “storico” è così marcato in me, ma non ci trovo proprio nulla di male a ripetere a iosa le cose. Nei miei oltre 40 anni di carriera didattica ho insegnato certe cose, anche banali (come attaccare le pelli agli sci, come legarsi in cordata, come attrezzare una sosta…) e le ho ripetute migliaia se non addirittura milioni di volte. Non sempre ad allievi diversi, spesso anche agli stessi allievi, perché anche in quel caso molti allievi sono (inizialmente) superficiali, svagati, distratti e la gita dopo gli devi ripetere le stesse identiche cose dette la gita prima (però a forza di “martellarli” dopo 3 anni escono perfetti). Di conseguenza per me è normale ripetere le cose, fa parte della ruolo didattico. Mi capita anche quando tengo i corsi di formazione in ambito professionale (cioè ben lontano dalla montagna). Sia nella didattica della montagna che in quella extramontanara io sono molto apprezzato per diversi risvolti (lucidità didattica, capacità di facilitare l’apprendimento, attenzione ad ogni singolo interlocutore…), ma fra queste caratteristiche positive rientra indiscutibilmente la mia estrema disponibilità a ripetere le cose fino a che qualsiasi interlocutore (che sia l’allievo della Scuola CAI come il manager del corso professionale) ha “capito” e “interiorizzato” i concetti.
Proprio perché altrove sono apprezzato per questa caratteristica, devo dire che sono stupido da obiezioni come le tue, per quanto poste con toni molto educati e controllati. Repetita juavant, dicevano gli antichi. Se infastidisce, saltate i commenti. Chi vi obbliga a leggere i commenti? Ancora ancora, se il fastidio (che cmq io non condivido in assoluto) si innesca quando le mie tesi sono contenute (come capita spesso) negli articoli principali del giorno: se siete abituati a leggere l’articolo principale, scartarlo quel giorno perché è scritto dal solito palloso Crovella, può apparire come un “minus” ai vs occhi. Ma i commenti sono un’aggiunta all’articolo (a maggior ragione se scritto da altri), per cui si possono leggere come non leggere. Se tu sai già che le mie posizioni e la mia ripetitività ti infastidiscono, perché ti fai del male “obbligandoti” a leggere i miei interventi?
Completo dicendo che, mixando la mia figura didattica con una scelta di tipo politico (politico, non partitico), da circa 12-15 anni sto portando avanti una iniziativa (la famosa “più montagna per pochi”), perché sono convinto che si debba andare in quella direzione: come ogni attività “promozionale” essa comprende la riproposizione tambureggiante dei concetti che la compongono. Qui, come altrove, su altri siti, nei libri, sulle riviste, nelle conferenze, nelle lezioni teoriche ecc ecc ecc.
Ma dalle tue note, ame pare che, sotto sotto, il problema sia diverso. Tu leggi con gusto l’articolo principale, poi sei infastidito dai commenti (“ripetitivi”) di Crovella. Non è che invece della ripetitività quello che ti infastidisce davvero è il contenuto delle tesi di Crovella. Capita a molti miei detrattori, cercano di strumentalizzare (magari inconsciamente) la lunghezze e la ripetitività dei miei scritti, quando invece è il contenuto che dà fastidio. Chossà se ci ho inzerzato, come direbbe Montalbano?
Mi sono dilungato un po’, con la speranza di aver risposto esaurientemente alle tue riflessioni (che hai espresso con grande cortesia), ma contemporaneamente spero anche di aver ricordato questi stessi concetti ad altre lettori, cui li avevo già spiegati, ma sicuramente nel frattempo se li sono dimenticati…
Buon proseguimento a tutti!
Piccola considerazione estemporanea: seguo questo blog da anni e spesso l’articolo del giorno è tra le prime cose che leggo mentre bevo il caffè.
Da qualche tempo mi è più difficile farlo. Trovare i soliti commenti, triti e ritriti, sui medesimi punti ripetuti all’ossessione è noioso e rende purtroppo anche il blog stesso noioso ed è un peccato perché le storie e le notizie raccontate in questo spazio sono importanti e belle da conoscere, come nel caso di questo pezzo sul glacialismo dolomitico.
Certo ognuno è libero di dire\scrivere quello che vuole, ma allo stesso modo ci tengo a dire la mia e a chiedere a chi ripete fino alla nausea sempre le stesse cose, a che pro? I lettori conoscono bene le idee di chi immancabilmente non perde occasione per presentarci il suo “manifesto alpestre”. Fatico a comprendere la necessità di “marcare il territorio” in modo così pervasivo.
@6 i Cannibali si potrebbero “educare”, ma solo se tutti fossero disponibili a frequentare lunghi corsi di addestramento alla montagna. Da caiano quale sono, cito come riferimento le Scuole del CAI, ma non necessariamente. Oggi esistono mille altre ipotesi: iniziative di guide, Pro loco, maestri di sci, soccorso alpino ecc ecc ecc. Basta scegliere.
Quel che è certo è che un “vero” addestramento al saper andare in montagna non è un cosina da 2 massimo 3 uscite. L’apprendere ad andare in montagna è cosa lenta, anzi lentissima, necessità di tempi MOLTO lunghi. Per esempio nelle Scuole di scialpinismo torinesi consideriamo il ciclo didattico pari ad almeno 3 stagioni consecutive, in certi casi di allievi un po’ “testoni” anche 4, al massimo 5 (oltre 5 anni non accettiamo più iscrizioni, per lasciar posto ad altri). Ebbene siccome osni stagione ha almeno 9 uscite (di cui quelle primaverili sono doppie -weekend – e, in cado di ponti vacanzieri, anche triple) significa che il ciclo didattico completo comprende almeno una TRENTINA di uscite, ccui si aggiungono altrettante lezioni teoriche, test teorici, esercitazioni pratiche sul terreno ecc ecc ecc. Per imparare ad andare bene in montagna bisogna avere voglia di farsi il rispettivo mazzo, è questo il punto.
E’ chiaro che un allievo, che magari entra nella scuola nudo e crudo, dopo un ciclo così lungo e intenso ne esce alpinista/scialpinista maturo, prudente ed oculato. Tutti dovrebbero seguire questa “gavetta” per sapersi muovere adeguatamente su terreni potenzialmente mortali come le montagne.
Ma quelli che oggi ne avrebbero più bisogno, i famosi cannibali, non sono disposti a investire così tanto tempi e così’ tanta fatica per diventare alpinisti esperti, maturi e consapevoli. Vogliono tutto e subito: è per questo che su di loro grava maggiormente la percentuale di probabilità negative in montagna.
Verissimo anche ciò che afferma il Sign. Enri, giusto ieri ho sceso un canalone che di solito di fa a giugno, trovandolo nelle stesse condizioni
@5 Non condivido la fondatezza concettuale del tuo ragionamento, neppure sul piano statistico (elo spiego nel secondo paragrafo).
Ma il punto chiave, oggi come oggi, è un altro, ovvero è quello che, rispetto al passato (neppur troppo lontano), sono all’ordine del giorno casi di responsabili politici (sindaci, ARPA, ecc ecc) portati in tribunale perché non hanno “previsto” a priori (con adeguati e prudenziali divieti di accesso) quelle situazioni drammatiche poi dannose per i cittadini. Questo proliferare del fenomeno è la prima causa della propensione alle chiusure anticipate.
Per la seconda, io continuo a restare convinto, è conseguenza dell’incredibile aumento percentuale dei cannibali all’interno di un aumento esponenziale dei frequentatori della montagna. A parte i cannibali, se i numeri in gioco fossero molto più contenuti, anche gli effetti “mediatici” sarebbero memno eclatanti.
In parole povere: l’anno scorso l’incidente della Marmolada ha provocato 11 vittime perché in quel momento erano sul ghiacciaio da 40 a 50 persone. cito a memoria, ma ricordo numeri del genere. Se invece le persone sul ghiacciaio fossero state in totale 10, avremmo avuto presumibilmente 3 morti. Evento tragico lo stesso, non discuto, ma incidenti in montagna con 3 vittime ne abbiamo a bizzeffe nella storia, per cui l’impatto mediatico sull’opinione pubblica sarebbe stato molto più tenue e, di conseguenza, anche l’apprensione delle autorità in termini di decisioni prospettiche sulle prossime estati.
2 lo presi alla sua uscita ed ebbi la fortuna di poter ripetere tutte le vie segnatevi. Altri tempi, ormai andati, come moltissime altre imprese compiute dai nostri predecessori.
Concordo, anche se con miglior garbo, quanto agferma il Sign. Regattin.
Quelli che il Crovella chiama cannibali altro non sono che i turisti, vezzeggiati dai politici e benvoluti dalle comunità montane, elevati a somma aureo ecologica di una economia green. La vedo dura la battaglia di educarli…..
3. Ma smettila di scrivere scemenze! La storia alpinistica è strapiena di morti di alpinisti esperti dovute ad imperizia o a sopravvalutazione delle proprie capacità. Se li rapportiamo alle presenze, probabilmente avremmo delle sorprese, ovvero molti più decessi in percentuale tra i cosiddetti esperti che tra i merenderos.
E’ vero che quelli che Crovella chiama cannibali potrebbero percorrere ghiacciai senza la sicurezza necessaria. E’ anche vero che se non erro l’anno passato nell’evento della Marmolada mori’ una guida alpina ed altri alpinisti piuttosto esperti. Quindi condivido il pensiero che andar per ghiacciai quando fa un caldo eccezionale non è’ mai una buona idea, fosse anche solo quello della Marmolada o le piste del Breithorn. Mica abbiamo la mappa dei crepacci nascosti!
Da qualche anno a questa parte dovremmo tutti aver imparato che ciò’ che tanti anni fa si faceva fino a fine luglio oggi si può’ fare fino a fine maggio. Tutto è’ spostato indietro come minimo di due mesi.
Ciò che distingue, o meglio “dovrebbe” distinguere, l’uomo (Ops! pardon! intendevo: la specie umana! cioè sia m che f, ovviamente…) dagli animali è l’intelligenza.
Applicata all’andar in montagna, l’intelligenza (la “testa” come la chiamo io) è quella facoltà che ci aiuta a dribblare i pericoli oggettivi, riducendo la fatalità imprevedibile e inevitabile alla percentuale statistica del 5% convenzionalmente stabilito (cioè si ritiene che un 5% di eventi negativi sia “inevitabili”: il 95% degli incidenti è però frutto delle scelte umane, azzeccate – se li eviti – o non azzeccate – se ci finisci dentro).
Il problema strutturale della crescita esponenziale di chi va in montagna, problema iniziato nel corso degli anni ’90 e poi esploso dal decennio ’10 in poi, è che il grande numero di individui è composto da persone che NON usano l’intelligenza o non la usano a sufficienza. Sono i famosi cannibali.
L’elevata presenza di cannibali negli ultimi decenni produce danni per tutti gli alpinisti, compresi quelli intelligenti, quindi oculati e prudenti. Il meccanismo è di semplice descrizione.
L’episodio della Marmolada 2022 possiamo ascriverlo alla fatalità, anche se trovarsi a metà giornata su un ghiacciaio “basso ” (3000 m circa) a inizio luglio dell’estate più calda da che ci sono le statistiche climatiche… bhe… diciamo che non è proprio una scelta “prudenziale”. L’anno scorso bisognava evitare a priori tutti i ghiacciai, a maggior ragione quelli a bassa quota.
Tuttavia tagliamo la testa al toro e diciamo che, in assenza di segnali premonitori da parte delle masse glaciali, l’episodio 2022 può esser ascritto alla fatalità, quella che rientra ne 5%, considerato da tutti i manuali di montagna come “inevitabile”.
Ora però sappiamo che quel ghiacciaio non è in equilibrio. Ne abbiamo avuto la prova provata l’anno scorso. Se, come temo, a inizio estate 2023 si percepirà che si tratterà di nuovo di un’estate “calda”, come pensate che reagiranno le autorità competenti? Diranno forse “ci fidiamo dell’intelligenza degli alpinisti, della loro prudenza e della loro oculatezza, quindi lasciamo decidere a loro se percorrere o meno quel ghiacciaio, perché loro sanno capire se il ghiacciaio è ragionevolmente sicuro oppure no….”.
Ma ‘sto piffero! Le autorità (sindaci, ARPA, forse Regione Veneto, se non addirittura lo Stato centrale…) se la farà sotto di fronte al rischio di trovarsi ex post sul banco degli imputati perché alcuni “spavaldi” alpinisti saranno transitati, parlo dell’estate 2023, a metà giornata sotto alla gobba glaciale che a quel punto sarà, siamo in questa ipotesi, nuovamente crollata…. Se la faranno sotto le autorità e…chiuderanno ex ante. Nel dubbio, meglio non rischiare.
Il guaio di queste chiusure è duplice: 1) hanno validità erga omnes, cioè riguardano TUTTI, sia alpinisti oculati che cannibali (e quindi noi alpinisti oculati registriamo un “danno” per colpa dei cannibali. Tra l’altro la cosa riguarda a maggior ragione anche le guide alpine, che hanno un danno in senso stretto…); 2) Si può creare un effetto domino, ovvero: chiude preventivamente la Marmolada, allora se la fanno sotto anche i sindaci degli altri, seppur agonizzanti, ghiacciaietti in zona e chiuderanno anche loro, a quel punto magari verranno chiusi per estensioni anche quegli altri tratti di montagna che, senza esser glaciali, sono soggetti a frane e crolli, e poi la cosa si estenderà dalle Dolomiti agli altri gruppi montuosi…. Insomma ce la teniamo tutti nel piede, come diciamo a Torino.
Pertanto: finché non capiremo che i cannibali sono un “danno” per gli alpinisti oculati (e quindi o li “obblighiamo” a evolversi o troviamo dei meccanismi di scrematura per cui i cannibali non accedono – solo loro – alle montagne), saremo tutti nella stessa barca e le autorità (specie se non capiscono una mazza di alpinismo) ci considereranno tutti come cannibali. Le decisioni conseguiranno in modo automatico per tutti.
Bellissimo articolo, complimenti. Pochi mesi fa passeggiavo per Asiago e ho avuto la fortuna di trovare un volume di “Vie di Ghiaccio in Dolomiti”, l’ho preso al volo. Ho passato il giorno successivo a sfogliarlo e a immaginare montagne che non ci sono più e che mai avrò la possibilità di vedere. Archeo-alpinismo.
Gran bell’articolo per dire che in montagna sono esistiti, esistono ed esisteranno pericoli oggettivi il più delle volte non prevedibili.