Memoria di granito
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Quando con mani incerte incominciavo ad arrampicare non davo certo importanza al tipo di roccia su cui scalavo. Da buon principiante, trovarmi con tutto me stesso esposto nel vuoto era di gran lunga l’emozione più forte: ed è invece vero che le grandi differenze di sensazione tra una roccia e l’altra si avvertono poi, su difficoltà superiori a quelle dell’apprendistato. È quindi trascorso qualche anno prima che «sentissi» la roccia che avevo sotto le mani. I rudimenti di geologia appresi sui banchi di scuola mi erano sufficienti per distinguere molte rocce diverse, ma non andavo molto in là.

In seguito vidi la vigorosa coerenza che c’è tra le forme di una montagna e la roccia che la costituisce: quanto «tenero» è il calcare delle Dolomiti, tanto fantasiose, femminili e aggraziate sono le sue montagne, piccole e grandi; quanto «duro» è il granito, tanto maschili e severe sono le forme che assume. Femminile e maschile, barocco e classico, varietà e sobrietà sono alcune tra le opposte caratteristiche dei due tipi di arrampicata. Provate a prendere in mano un appiglio di granito: piccolo o grande che sia, sarà sempre ruvido, geometrico, forse un po’ prevedibile, quindi anche generoso. Ma per tutti gli alpinisti è un sogno. Gaston Rébuffat, per esempio, raccontava: «Quante volte ho sentito dire: – È una salita interessante, ma la roccia è buona? – Un granito proprio solido! E il viso dell’uomo si distendeva: vedeva i bei colori della muraglia, respirava l’odore della pietra, sentiva la “grana” della roccia sotto le dita….».

Volendo esprimere una sensazione personale, affermo che arrampicare su granito o altre rocce cristalline e metamorfiche, come lo gneiss, è come guidare un’auto con motore diesel, meno scattante ma più potente, meno volubile e più solido.
Ma, nel massimo rispetto per la roccia compatta, nello stesso tempo ho sviluppato un amore, tra gli alpinisti di certo insolito, per la roccia friabile. Tanti di loro la chiamano “marcia”, con evidente intento dispregiativo. Eppure non dovremmo essere noi a selezionare categorie estetiche, edoniste o utilitaristiche: di fronte alla vita minerale dobbiamo solo inchinarci con umiltà. Il primo ad aprirmi gli occhi fu Georges Livanos, quando scrisse in Au dela de la verticale che “non esiste cattiva roccia, esistono solo cattivi arrampicatori”. Solo un vero innamorato poteva esprimersi così: eppure era ritenuto uno spirito competitivo, un sarcastico dissacratore del romantico…
Una delle fotografie più note delle belle arrampicate sul granito delle Alpi di Uri mostra l’alpinista in cima all’ago sommitale del Salbitschijen, un obelisco di pietra sottile e altissimo: simbolo della rarefazione di struttura cui può giungere anche un solido e della vittoria dello spirito sugli elementi. In seguito quest’immagine, che tanto aveva fatto sognare negli anni ’50 e ’60, è praticamente scomparsa, sostituita da altre rappresentazioni dove il confronto tra uomo e roccia è ancora in corso e non già concluso.

Ho scoperto il granito delle Alpi Centrali svizzere assai tardi, un lontano e solitario mattino d’ottobre verso la Grauewand. Il deserto luminoso della valle saliva pian piano verso le pareti di fondo. Apparentemente sereno, mi guardavo attorno e come al solito cercavo. C’era solo un grande silenzio, incrinato dalle orme nella neve del nostro cammino. È un’attesa, la mia, che pare senza fine, una ricerca che dura da quando credo, con l’arrampicata, d’aver preso possesso della terra. L’ombra mi si prolungava avanti, sagoma visibile di un’antica inquietudine che anche tutto quel giorno sarebbe durata, fino a che la notte non l’avesse eliminata. Uguali a quell’inquietudine e a quella ricerca riconoscevo soltanto le immutabili strutture di granito che continuavano lì attorno ad attendere nei secoli.
Quanti sono andati alla base di una parete con questi pensieri? Quali erano le emozioni di Martin Scheel e compagni quando nel 1982 aprirono Eisbrecher sulla Grauewand? Si dice che si siano calati qualche giorno prima dall’alto e abbiano posizionato quei pochi spit che ci sono sulla via, con ciò irridendo a quei codici di comportamento alpinistico che fino ad allora avevano dominato la scena. Ma in seguito tutta l’attività alpinistica di Scheel si è svolta con totale rispetto della vecchia etica.
È notte fonda alla Tiefenbach Gasthaus, poco prima del Furkapass. Non riesco a prendere sonno. Eppure domani sarà una giornata tranquilla, come tante altre. Mi sembra di provare quell’agitazione e quell’insofferenza di quando mi trovo sdraiato a poca distanza da vene d’acqua sotterranea. Era stato Heinz Mariacher a farmelo notare, proprio nella sua abitazione di Carezza: sull’acqua noi dormivamo assai agitati. Tiefenbach… ma vuol dire «ruscello profondo»!! Dunque anche lì c’era dell’acqua. Con Bibi ho salito Conquest alla Grauewand: è una fessura da sogno, un vero oggetto del desiderio. E non avevo dormito per nulla bene, con tutta quell’acqua profonda.

Una delle più forti giustificazioni che mi diede Reinhold Messner quando gli chiesi perché lui, proprietario di un così bel maso a St. Magdalena di Funes, aveva a tutti i costi voluto trasferirsi in un castello: perché quel castello appoggiava su un cocuzzolo di gneiss, e sotto non c’era acqua.

La salita di una classica dell’Eldorado, Métal Hurlant, si svolge regolare e stupenda, un alternarsi incredibile di muri, placche e fessure di ogni dimensione. Accanto a noi e a sinistra, i fratelli Remy stanno aprendo un nuovo itinerario e quindi affinando quelle tecniche di apertura che porteranno l’alpinismo moderno ancora più avanti. Alla sosta resto meravigliato a guardare, a bocca aperta, la freddezza e la bravura di Claude, il capocordata: sta usando uno strumento da poco sulle scene, il perforatore a batterie. Fa un rumore discreto, un ronzio appena udibile nel vento leggero. Una ferita da bisturi. L’Eldorado è un grande cocuzzolone di granito, un’emisfera emergente da un lago artificiale, il Grimselsee. Una ferita bestiale. Ma “nessun’acqua potrà rimarginare / una ferita inferta nel granito (Maria Rosa Gogna)”. L’uomo distrugge e ama nello stesso tempo.

Ricordo la mia attesa di cinque ore a lato del Langer See: la più bella montagna del Verwall, l’aguzzo Patteriol, era lo sfondo di una grande rincorsa di nuvole in un primo pomeriggio potenzialmente minaccioso. E i tanti ciclisti che mi sono passati accanto cosa sapevano dell’Urgestein, come i tedeschi chiamano questa ruvida roccia metamorfica, questo gneiss che tanto mi piacerebbe scalare invece d’essere qui ad attendere? Perché e che cosa sto aspettando invece d’essere quieto e sereno?
“La vita dell’uomo / è un vago succedersi d’ombre / nel vasto chiarore del mondo. / I sogni dell’uomo / son sogni di luce nell’ombra. / La notte e il giorno / s’inseguono sempre cercando / la sosta serena (da Luce ed ombra di Maria Rosa Gogna)”.
Da piccolino mi piaceva, col secchiello, costruire castelli di sabbia in riva al mare. Ogni tanto arrivava un’onda a lambire la mia costruzione e me la distruggeva. Ci rimanevo tanto più male, quanto più mia mamma mi guardava e mi sorrideva con amore. Eppure era lì che bisognava edificare, con la sabbia bagnata.
Certi giorni ho ricordi così tenui che la memoria mi sembra diventata vento, forse per adeguarsi al volo delle foglie secche a lato della strada. Queste creano fuggevoli immagini, visioni inafferrabili, rimembranze liquide.
Certi giorni invece ho la memoria così viva da non aver bisogno di scrivere alcun ricordo sulle rocce. I ricordi di una bella giornata sono come le fiamme di granito che orlano le creste dei Bühlenhörner, vive lampade che c’illuminano di qualche piccolissimo particolare. I ricordi, fluttuanti nell’aria, si sfrangiano e si ricreano per sempre nuove immagini. Noi li fotografiamo con lo sguardo, gelosamente conserviamo spicchi di cielo e porzioni di paradiso nel nostro intimo. I ricordi degli uomini sono fiori di un giardino difficilmente posto in vendita. Anche perché sono fiori comuni, forse: e solo noi siamo in grado di apprezzarne le sfumature e il profumo ch’è soltanto nostro.
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Paolo, penso che neppure il responsabile supremo degli acquedotti di Gotham city lo sappia…
Mi credete che, io che mi occupo di acque, di questa faccenda non sapevo praticamente nulla?
Liberi da conosciuto, accediamo alla conoscenza.
In quasi tutti piccoli centri, ma non solo, prima di progettare un’abitazione si ricorreva ai rabdomanti, persone dotate di particolari sensibilità, che decidevano come orientare la casa secondo linee energetiche dovute allo scorrimento di acque sotterranee.
Sull’argomento:
http://www.arcetri.astro.it/~comore/skeptic/hartmann1.html
http://www.studio-olistico.com/ita/benessere-abitativo/geobiologia/le-geopatie/i-flussi-dacqua-sotterranei/
Perfettamente d’accordo sulle vie d’acqua sotterranee. Mia sorella, che abita in un vecchio mulino in cui l’acqua passa ancora senza però azionare la macina (che è in salotto), è sempre agitata.
Sapendolo fare, poi, è bello lasciare andare la penna senza pensare ma facendosi guidare dai sentimenti.
…e pensare che a me invece il rumore dell’acqua mi rilassa del completamente e mi piace moltissimo…si spiegano tante cose: decisamente devo appartenere ad un’altra categoria di uomini, però le sensazioni descritte così bene sono anche un po’ mie.
Bellissimo pezzo di “poesia”, grazie Alessandro Gogna! Questi ricordi hanno spalancato finestre su di un mondo immenso di fiori profumatissimi, in cui profumo tocca le corde più profonde dell’ animo sensibile. Questo fa, la poesia.