Montagna scuola di vita
Il valore etico dell’alpinismo
di Carlo Crovella
(pubblicato su caitorino.it il 9 maggio 2019)
(Foto Archivio Crovella)
Lettura: spessore-weight(3), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(2)
Chi prima, chi poi, ad un certo punto si scavalca uno spartiacque esistenziale, oltre il quale la tendenza a stilare bilanci prende il sopravvento sulla propensione ad elaborare nuovi programmi. Molteplici sono le variabili che determinano il timing di questo evento e l’età anagrafica non sempre è quella determinante.
I miei recenti problemi di salute, con relativa fermata ai box, hanno creato le condizioni per un lungo periodo di riflessioni. In realtà più che stilare bilanci, in questa fase ho messo in ordine i concetti, li ho ripuliti dalle incrostazioni dovute al tempo, provando un rinnovato piacere a ponderare su alcuni temi. Quando si spolverano gli scaffali della libreria, capitano in mano libri letti molto tempo fa: immediato riemerge lo stimolo a riaprirli, a scorrere l’indice, a soffermarsi su pagine particolari.
Chi mi conosce sa che, essendo nato in una famiglia di appassionati di montagna, sono stato spinto prestissimo verso l’alpinismo (inteso come frequentazione della montagna a 360 gradi) e così, a ridosso dei 60 anni anagrafici, posso dire di aver accumulato cinquant’anni abbondanti di ininterrotta esperienza sui monti. A volte con gli sci, a volte senza, per sentieri, ghiacciai, pietraie e anche su rocce verticali, lungo cascate ghiacciate o dentro ai torrenti. Ho dormito in baite abbandonate, nei prati, sulle morene, in bivacchi incustoditi e anche in rifugi gestiti. Non mi considero un top climber, anche se a cavallo dei miei 25-30 anni ho realizzato delle performance di un certo rilievo, sia con gli sci (discese di canali nell’ambito dell’allora nascente sci ripido) che su roccia e ghiaccio. Dalle Calanques marsigliesi fino alla vetta del Monte Bianco non mi sono fatto mancare proprio nulla.
Ora che, fermo ai box, dispongo di tempo per lucidare i concetti (come se fossero dei pomelli di ottone), mi sono chiesto in che cosa consista veramente l’importanza della montagna nella mia vita. Nell’attività atletica? Certo, ma ho praticato anche molti altri sport (dalla scherma al canottaggio), che mi hanno fatto gioire mentre sentivo i muscoli tirare e riempirsi di acido lattico. Nella soddisfazione per le performance realizzate? Non nego che scendere un canale ripido o innalzarsi per una parete verticale si siano spesso tradotti in una notevole autogratificazione, ma non è ancora questo il punto. Nella condivisione con gli amici di belle giornate all’aria aperta? Anche questo risvolto ha la sua importanza, ma una cena o un bel giro in bici possono rispondere adeguatamente alle esigenze ricreative e sociali, senza scomodare la montagna. Sarà dunque la vena esplorativa, quel voler girare dietro l’angolo per metter il naso in un nuovo vallone, su una parete, in un canale? Ovvio che il gusto della scoperta ha per me una notevole importanza, ma non è l’ambizione più profonda. Ancora: sarà forse il risvolto culturale, cioè il saper conoscere le montagne da ogni lato, apprendere la loro storia, scrivere e leggere su di loro e sui personaggi che le hanno frequentate? Indubbiamente è un elemento tutt’altro che secondario, ma non è l’essenza chiave. Forse il coinvolgimento nella natura e il rispetto dell’ambiente? Anche questo fattore esiste nella mia vita, ma – ancora una volta – non è il motore principale della “mia montagna”. Potrebbe forse essere il piacere di aver insegnato a decine di allievi in quarant’anni di attività didattica intrapresa in scuole diverse sia per attività (alpinismo, scialpinismo, canyoning…) che per contesti umani? Non nego che sia un indiscutibile piacere veder crescere fra le proprie mani le nuove generazioni, ma non è il valore più profondo del mio frequentare i monti.
La mia passione per le montagne coinvolge tutti questi aspetti, mixandoli a dovere, ma il cuore pulsante è ancora un altro. Per approssimazioni successive sono infine arrivato a focalizzare che la frequentazione della montagna ha per me un’importanza così rilevante perché attraverso l’esperienza della montagna ho potuto costruire una marcata personalità caratteriale, che ha segnato tutta la mia esistenza.
Ecco, questo è ciò che io definisco il senso etico della montagna. Montagna intesa come scuola di vita, come terreno psicofisico dove acquisire elementi, qualità, valori che si estendono poi all’intero nostro stare al mondo.
La vita mi ha proposto alcune difficoltà di rilievo. Tali difficoltà avrebbero potuto rivelarsi anche più numerose e molto più provanti, ma possiamo già dire che lo sono state in misura significativa.
Ebbene la tenacia, la caparbietà, la determinazione, grazie alle quali ho affrontato le difficoltà del vivere, si sono formate in me durante le esperienze vissute in montagna. Quando, seppur esausto, ho imparato a stringere i denti per giungere in vetta, proprio allora si sono forgiate quella tenacia, quella caparbietà, quella determinazione. Ma l’esperienza della montagna aiuta anche in risvolti della vita non necessariamente tragici o impegnativi. Per esempio ho imparato a scegliere a tavolino l’itinerario coerente con le condizioni del momento, a saperlo seguire sul terreno, modulandolo però sulla base dei messaggi che lanciava la montagna. In parole semplici ho imparato ad alternare desiderio (di completare la gita) e lucidità (di saper valutare freddamente la situazione). L’abilità di condurre adeguatamente la barca, dalla programmazione alla realizzazione delle gite, aiuta sensibilmente nella vita di tutti i giorni. Parallelamente ho imparato a fare lo zaino, calibrando il compromesso ottimale fra la necessità di disporre di un adeguato contenuto (anche a fronte di eventi imprevisti, come un bivacco non programmato) e l’antitetico obiettivo di non gravare troppo sulle spalle.
Saper ipotizzare le situazioni di emergenza, avendo con sé gli strumenti per fronteggiarle, mi è servito moltissimo nella mia vita professionale, quando per esempio ho preparato le riunioni di lavoro oppure ho impostato trattative di ogni tipo. Avere già in testa un “piano alternativo”, da sfoderare all’occorrenza (in più sapendolo adeguare ai feedback della situazione in corso), inevitabilmente deriva dall’approccio mentale affinatosi con l’esperienza della montagna. Anche sapermi adattare a contesti disagevoli è un’eredità del mio andar per monti: quando, imberbe adolescente, mi sono trovato a dormire in una baita abbandonata o in una truna scavata nella neve, ho imparato a saper affrontare, il giorno dopo, un bel “gitone”, avendo alle spalle solo una cena con minestra Knorr confezionata sul Camping Gas ed una colazione con il tè riscaldato nel pentolino non lavato. Durante le mie avventure sui monti, sia con gli sci che su roccia e ghiaccio, ho anche imparato a cogliere i messaggi che mi fornivano, di volta in volta, il mio fisico e la mia psiche, arrivando a gestire la mia “macchina” rispetto alle condizioni di quel particolare momento. Da allora applico un approccio analogo in ogni mia giornata, di lavoro, di svago, di impegni vari.
Tutto ciò (e molto altro ancora) costituisce quell’arricchimento personale che si può ottenere grazie alla montagna. Per questo mi riconosco perfettamente nel detto “Montagna scuola di vita”. Anzi mi riconosco a tal punto che, senza voler cancellare l’importanza degli altri risvolti, ritengo che questo specifico aspetto rappresenti il valore più profondo dell’alpinismo. La montagna è un contesto bellissimo, ma dove non si può sgarrare né bluffare, perché le regole le stabilisce la montagna stessa. Imparare a non trassare è il vero insegnamento etico della montagna.
Per acquisire tutti questi elementi e recepirli nella quotidianità non è necessario che la frequentazione dei monti si sviluppi su elevati livelli di impegno e di rischio. In altri termini non sono solo i top climber che riescono a costruirsi una personalità di spicco grazie alla montagna. Anzi, proprio la mia esperienza personale è una conferma che una normalissima attività da alpinista “medio” permette di evolversi in questa direzione. Ovviamente ci deve essere la disponibilità individuale in tal senso, se non addirittura la ricerca prioritaria di questo obiettivo.
E qui giungono le note dolenti: l’attuale società che ci circonda esprime (in tutti i settori) l’ambizione di voler garantire il massimo del divertimento con il massimo della sicurezza e del comfort. In pratica il perno basilare è la deresponsabilizzazione individuale: c’è sempre qualcun altro che provvede alla tua sicurezza o al tuo comfort, tu devi solo pensare a divertirti al massimo.
Tralascio l’analisi delle cause che spingono l’intera società in tale direzione, ma per la montagna sono brevemente sintetizzabili: più persone euforiche corrispondono a più consumi (di materiale, di abbigliamento, di oggetti innovativi…). Anche il modo di trascorrere le giornate in montagna è notevolmente virato verso livelli consumistici: ormai quasi nessuno si porta i viveri nello zaino e anzi la cucina stellata è diventata un’attrazione dei rifugi più importanti.
Di conseguenza chi, di recente, si avvicina alle montagne lo fa con uno stile “mordi e fuggi”, uno stile che inevitabilmente comporta un minor coinvolgimento esistenziale. Ovviamente non è colpa di qualcuno in particolare se la società negli ultimi decenni si è modificata nella direzione descritta. Ma tutto ciò comporta una differenza profonda nel rapporto con i monti: quello di oggi è sport, non è più una passione che dura tutta la vita. L’approccio sportivo alla montagna è assolutamente legittimo, se ragioniamo in termini di libere scelte individuali, ma stride agli occhi di chi, come me, nelle montagne vede l’origine della propria visione etica.
Se da un lato sarebbe antistorico contrapporsi all’evoluzione dei tempi, dall’altro riproporre la montagna come scuola di vita trova una profonda giustificazione proprio nel fatto che raramente, oggi come oggi, la si presenta in tale veste: magari, fra le persone che negli ultimi tempi si sono avvicinati ai monti, qualcuno si sarebbe anche riconosciuto in tale impostazione, se solo avesse avuto l’occasione di imbattersi in qualche proposta del genere.
Nell’odierno contesto sociale, quella descritta sembra una sfida perdente, ma io non smetterò mai di coltivare la speranza che, riproponendo un tale messaggio ai giovani di ogni generazione, qua e là il seme possa germogliare e rifiorire.
Vero è che queste persone, che puntano sull’esasperazione tecnica e non sul sapere agire efficacemente (con ovviamente opportuna conoscenza tecnica) in ogni imprevisto, sono proprio quelle che se la fanno sotto quando c’è da agire sul serio. Ricordo quando ero nel soccorso che i più bravi nelle esercitazioni erano pericolosissimi negli interventi reali. Spero che oggi non sia più così.
da istruttore CAI quale sono dal 1984 .
Carlo su questo, purtroppo, hai perfettamente ragione !
Troppo tecnicismo.
Evidentemente (in particolare dopo 40 anni di attività da istruttore nei diversi campi della montagna) in me è inestirpabile l’ “animus educandi“, chiamiamolo così.
Mi è sempre piaciuto completare il mio personale approccio alla montagna con la possibilità di divulgare questo stesso approccio, in particolare fra i giovani. Io sono convinto che aver avuto l’istruzione ai monti, che ha caratterizzato la mia personale esistenza, è stata una vera fortuna perché mi ha formato anche e soprattutto come uomo, come cittadino, come persona al di là dei monti.
Purtroppo il mondo delle scuole del CAI da circa 15 anni ha virato decisamente verso un’altra impostazione, dominata dalla ricerca esasperata (spesso fine a se stessa) della perfezione di tecniche e manovre (l’ultimo nodino, il moschettoncino, il cordinetto….) e non c’è più spazio per la divulgazione della filosofia “Montagna scuola di vita”. Anzi viene considerata un vecchiume ideologico.
Peccato: personalmente considero questo fatto un “impoverimento” delle scuole e non una loro crescita ideologica.
Sono d’accordo con Roberto.
Questo rapporto con la montagna è del tutto personale. Ognuno lo costruisce, lo porta avanti, lo interrompe a modo proprio.
Non vedo la necessità che gli altri capiscano e/o soprattutto giustifichino.
Posso raccontare, parlare del mio alpinismo, del mio modo di vivere la montagna. Ma a titolo di cronaca, per raccontare uno stile, una concezione. Ma se poi gli altri non capiscono, non mi interessa.
Quello che è mio resta mio.
Perchè aspettarsi, quasi pretendere che gli altri capiscano ?
Godiamoci il nostro rapporto con la montagna . Punto .
Bello, spieghi molto bene cosa significhi nella vita l’andar per monti.
Ora mi dico che è conoscenza della natura, di se stessi e degli altri senza fronzoli, ipocrisie e falsità: si è se stessi e non ci si può camuffare se non per brevi periodi e la natura di ognuno viene coltivata e sviluppata sia nel bene che nel male.
E se mi dico questo capisco perché l’andar per monti sia oggi favoleggiato, divinizzato, sicurizzato, osteggiato, banalizzato, condannato, incompreso e mistificato: qualsiasi conoscenza non interessa.