Montagne, uomini e idee – 3 (3-4)
di Carlo Battista Mazzoleni
(tesi di laurea in storia, Bologna, 2013)
Continua da https://gognablog.sherpa-gate.com/montagne-uomini-idee-2/
Lettura: spessore-weight***, impegno-effort**, disimpegno-entertainment**
6.4 La nord dell’Eiger, roccia, ghiaccio e nazionalismo
La montagna su cui però si esasperarono spiriti e pericoli, producendo spettacolari tragedie che lasciarono con il fiato sospeso mezza Europa fu la parete nord dell’Eiger. Vetta che, a differenza delle altre due citate, non raggiunge nemmeno la simbolica quota di 4000 m, ma che presenta una delle pareti più severe dell’intero arco alpino, racchiudendo in se stessa tutti i pericoli e le difficoltà dell’alpinismo. Una salita di 1600 metri di dislivello, che procede senza soluzione di continuità tra roccia instabile e gelata e ripidi ghiacciai sospesi; inoltre la parete è continuamente spazzata dalle valanghe che si staccano dai pendii nevosi superiori, ed esposta alla violenza del clima che in questa zona della Svizzera è particolarmente soggetto a cambiamenti repentini. Per affrontare una salita di questo genere non bastava essere alpinisti straordinariamente abili, ma occorrevano qualità di coraggio sconfinato nell’incoscienza, e di ferrea determinazione, che andavano al di là delle possibilità della gran parte degli scalatori. Certo sul finire degli anni ’30 gli animi erano esasperati, in politica così come in alpinismo, ormai si era raggiunta una carica di tensione che sfocerà in due episodi traumatici che spaventeranno a lungo l’umanità negli anni a venire: non trovo azzardato il parallelo tra la sfida dell’Eiger e la seconda guerra mondiale; in entrambi i casi gli uomini – ovviamente facendo i distinguo del caso – si resero conto troppo tardi di essere giunti, colpevolmente, troppo oltre nelle pretese, rimanendo gravemente scottati. La salita dell’Eiger richiese un tributo di morti inaccettabile per un’attività come l’alpinismo, e pose fine alla logica del sacrificio cavalleresco sulla montagna propugnato dai tedeschi. Sebbene conclusasi vittoriosamente nel 1938 con la salita integrale compiuta da parte dei tedeschi Andreas Anderl Heckmair e Ludwig Vörg, con i compagni-rivali austriaci Heinrich Harrer e Fritz Kasparek, la vicenda dell’Eiger era iniziata nel 1935, quando due bavaresi che aspiravano alla gloria che i fratelli Schmid avevano ottenuto sul Cervino, tentarono per primi la scalata diretta della parete. Caratteristica non secondaria della montagna è la possibilità di osservarla in ogni sua parte dalla stazione turistica di Scheidegg, cosa che aveva aumentato a dismisura l’esposizione mediatica dell’impresa, divenendo irresistibile attrazione per gli agiati turisti che soggiornavano nelle montagne bernesi così come per gli apparati propagandistici dei regimi europei. Karl Mehringer e Max Sedlmeyer, con la prospettiva di comparire in un film e di conoscere personalmente Hitler, si lanciarono verso la montagna, trovandovi la morte in una tempesta, sotto gli occhi di Scheidegg e del mondo. L’anno successivo furono Toni Kurz e Andreas Hinterstoisser a recarsi – anch’essi tedeschi, anch’essi in bicicletta – nelle Alpi bernesi per tentare la salita. Partiti nottetempo per superare austriaci, italiani e francesi accampati alla base della parete, ingaggiata una fiera lotta con la montagna e con Eduard Edi Angerer e Willy Reiner, i tirolesi che nel frattempo li avevano raggiunti, furono sorpresi dalla bufera, e tutti quanti, austriaci e tedeschi, morirono dopo cinque bivacchi in parete. Il divieto di scalata imposto dalle autorità svizzere, e il rifiuto delle guide bernesi di prestare soccorso a chiunque si fosse avventurato sulla montagna, non frenarono la folle corsa contro la morte, che nel 1938 vedrà il tentativo, finito anch’esso in tragedia, degli italiani Bortolo Sandri e Mario Menti e la vittoria finale delle cordate, congiuntesi in parete, tedesca e austriaca. Heckmair e Vörg ricevettero tutti gli onori dal Führer in persona, quali protagonisti dell’impresa, celebrati anche come salvatori degli austriaci Harrer e Kasparek in difficoltà (cosa tra l’altro vera), e la loro avventura assunse un significato politico notevole nell’anno dell’Anschluss dell’Austria[1].
1936, la tragica fine del tentativo di Kurz, Hinterstoisser, Angerer e Rainer fu l’inizio dell’interesse della stampa per l’alpinismo estremo. Non mancava un certo gusto per il macabro: il corpo di Kurz, rimasto appeso per giorni alla corda, viene fotografato e pubblicato, le vicende dei giorni di tempesta narrate nei particolari, anche grazie alle testimonianze raccolte presso le guide del luogo.
Non ci sono prove che il regime nazista da Berlino spingesse autoritariamente i propri alpinisti verso la conquista della Eigerwand, anzi, la proposizione di Kurz e Hinterstoisser fu due volte cassata dal comandante del battaglione di Gerbirgsjäger in cui i due bavaresi militavano. In ogni caso la pressione politica verso gli scalatori del Reich non era da sottovalutare, nel ventaglio di motivazioni che spinsero le cordate tedesche a impegnarsi in imprese al limite dell’impossibile, e, alla prova dei fatti, di una pericolosità irragionevole. Il fatto che fossero proprio alpinisti provenienti da paesi politicamente estremisti a tentare – e perire – in questi tentativi è un dato comunque indicativo dello stato delle cose, e aggiunge un elemento a tutta la scala di sentimenti interiori necessaria anche solo a pensare un’avventura di quel tipo. Nei paesi democratici ci si chiede quali siano le connessioni tra fanatismo politico e alpinistico, anche per opera della stampa di massa: la rivista francese Voilà titolava il 9 ottobre 1936: ‹‹Héros ou eclaves? La mystique raciste a l’assaut da la montagne››, a supporre, erroneamente ma significativamente, che gli intrepidi alpinisti nazisti fossero pedine mosse dal führer per dare lustro alla nazione nell’anno delle Olimpiadi[2]. Nonostante anni dopo l’austriaco Harrer – comunque, con il compagno Kasparek, già membro delle SA austriache -, protagonista e narratore in prima persona della vicenda, negasse una qualsiasi imposizione dall’alto, ma aggiudicasse esclusivamente a sé e ai compagni la volontà di scalare la parete, e il tedesco Heckmair fosse sostanzialmente indifferente a ogni tematica patriottica[3], la loro impresa divenne strumento di propaganda della NSDAP specialmente nell’ottica di unione tra i popoli tedeschi, consumata politicamente pochi mesi prima con l’Anschluss austriaca. Il riferimento alla grandezza del führer e della Germania sono messi in bocca, probabilmente in modo fittizio, agli stessi protagonisti in un libro celebrativo edito dal partito: ‹‹il Führer ha ragione quando sostiene che la parola impossibile esiste solo per i pavidi›› (Heckmair); ‹‹Abbiamo scalato la parete nord dell’Eiger, abbiamo superato la vetta per raggiungere il nostro Führer››[4] (Harrer).
I vincitori dell’Eigerwand, Heckmair, Vörg, Harrer e Kasparek, vengono ricevuti dal fuhrer in persona a Berlino, ancora convalescenti dalle ferite rimediate nell’impresa.
7. IL FASCISMO E LA MONTAGNA
7.1 I circoli alpinistici tra Grande Guerra e fascismo
L’apoliticità è sempre stata, dalla sua fondazione a oggi, un principio fondamentale del Club Alpino Italiano, come garanzia di armonia e concordia al suo interno e di parità di trattamento verso gli ospiti dei rifugi e i partecipanti alle iniziative proposte. Gli anni immediatamente successivi alla conclusione della Grande Guerra furono però in Italia parecchio agitati dal punto di vista politico, con la radicalizzazione e lo scontro di posizioni che in pochi anni porteranno al potere il regime dittatoriale fascista. Ai socialisti motivati e agguerriti dall’esempio della rivoluzione russa del 1917 si contrapponevano i gruppi di nazionalisti, vecchi irredentisti, reduci di guerra, che non sopportavano l’idea che il loro Paese, per il quale avevano duramente lottato ed erano morti, finisse in mano a rivoluzionari internazionalisti. Il “biennio rosso” 1919-1920 fu il periodo di crisi più profonda, quando la parte rivoluzionaria sembrava potesse avere la meglio, e di converso le reazioni dei conservatori si fecero sempre più frequenti e violente.
Il CAI non fu naturalmente immune da questo clima di altissima tensione sociale, e trovò naturale schierarsi, in modo sottile nelle parole ma deciso nei fatti, con la reazione. Dopotutto il mondo dell’alpinismo tradizionale, tolte alcune figure – val sempre la pena ricordare l’irriducibile alpinista socialista, già irredentista, Tita Piaz -, era già da tempo permeato della retorica patriottica nata e sviluppatasi sulle montagne di confine, e, come visto per gli anni della prima guerra mondiale, era un campo privilegiato per il prolificare di discorsi di carattere nazionalista e reazionario, sfruttando un mondo chiuso, con scarsa conflittualità, portato naturalmente ad assorbire i significati che “la città” di volta in volta gli impone e attribuisce. Così l’alpinista, che tramutatosi in alpino aveva salvaguardato la patria dal pericolo straniero, ora era guardiano contro il nemico interno, in qualità di figura integra, pura, con pochi e semplici valori tradizionali, abituata ai rigori della montagna e quindi immune dalle contaminazioni degli agitatori rossi. Ovviamente si tratta di stereotipi di tutta provenienza cittadina, ma che hanno trovato sponda e sostegno negli ambienti montani, forse anche attratti dalle lusinghe di chi aveva attribuito loro quell’importanza simbolica di “mura della Patria”. Dal canto suo il CAI, benché in parte mutato nella sua composizione sociale rispetto ai suoi inizi ottocenteschi, rimaneva un’associazione d’élite, fatta della classe dirigente e borghese più rappresentativa delle realtà urbane su cui la sezione insisteva. Dopotutto siamo ancora in una fase dell’alpinismo in cui l’attività “regolare” – non i grandi exploit, ma le gite sociali – era svolta principalmente da personaggi facoltosi e in vista, per il notevole costo economico e in termini di tempo libero che l’alpinismo ancora richiedeva. L’attività di propaganda che si era già vista durante la guerra continuò anche dopo la pace, e le sezioni si fecero carico di raccogliere tutte le informazioni sulle imprese compiute dai propri soci, e sui propri monti, per tramandare l’ideale del montanaro eroico. Fu quindi abbastanza naturale il passaggio dal nazionalismo bellico alla reazione e al conservatorismo degli anni venti, passaggio obbligato per un Club che ostentava tradizioni come quelle che poteva vantare il CAI. Comunque l’intento di questa scelta di campo, della disattesa del principio dell’apoliticità del CAI – che ancora nel 1921 il presidente della sezione bresciana ribadiva a gran voce in un’assemblea di soci -, si configura all’interno di una mentalità pacifista, intesa come pacificazione tra le classi e neutralizzazione del conflitto sociale. Ricercare una condivisione comune delle tematiche patriottiche e l’affratellamento nell’amor patrio era il metodo scelto dalle classi borghesi, che del CAI erano anima e corpo. All’interno sempre di queste posizioni, che si potrebbero oggi definire “politically correct”, il CAI cercava di inserire tutta la società, invero in modo un po’ paternalistico verso le classi più basse, e agitate. La pratica della montagna era considerata un rimedio verso gli abbruttimenti della vita del ceto operaio, una distrazione che allontanava i lavoratori da piaghe – equiparate – come l’alcolismo e gli ‹‹infruttuosi dissensi politici››[5]. E’ da dire che questo atteggiamento paternalistico veniva adottato anche da altre associazioni alpinistiche, che si richiamavano a una matrice più operaista e meno elitaria: l’Unione Operaia degli Escursionisti Italiani, nata nel 1911, supera in partenza il CAI nell’aprire il ventaglio sociale degli iscritti. Nel 1920 però è la stessa UOEI che dichiara, nell’esposizione delle proprie attività, il suo impegno nella ‹‹propaganda, specie nella classe operaia che più ne abbisogna, sui vantaggi igienici, morali ed economici di simili iniziative [le escursioni in montagna, n.d.A.], che vengono contrapposte in positivo alla frequenza delle bettole, dei caffè, delle vie polverose e dei divertimenti immorali della città››[6].
Benito Mussolini darà grande valore all’attività in montagna come formativa per un popolo di successo.
Gli esempi che dimostrano un coinvolgimento sempre più radicale del CAI nella reazione anti-socialista, che sfocerà nella piena adesione al regime fascista, sono molteplici e significativi in buona parte delle sezioni del Paese. A Brescia, ad esempio, si citano dimissioni di membri contrari alla collaborazione che la sezione cittadina aveva nel 1922 intrapreso con il gruppo paramilitare Sursum corda, formazione di accesi nazionalisti ed ex-combattenti armati, che con il CAI compiva corsi d’addestramento militare in montagna[7]. A Milano, invece, si segue la linea che aveva caratterizzato l’attività del periodo prima e durante la guerra: si celebrano riti civili tra le montagne teatro di scontri, si sostengono ancora le famiglie degli alpinisti caduti, si compiono nuovamente quelle “gite patriottiche” di grande valenza nazionale per ammirare il nuovo sacro confine, la più sentita delle quali, nel 1919, alla Vetta d’Italia, in nuovo punto più settentrionale del Paese, in Alto Adige; ‹‹come recitava testualmente il programma stilato per l’occasione, l’intento era quello di conformarsi più alle forme del rito civile e patrio che non a quelle dell’escursione sportiva››[8] . Le sezioni orientali, da parte loro, iniziavano una serrata attività di appropriazione e nazionalizzazione del territorio da poco conquistato, trentino e alto-atesino, con l’acquisizione dei rifugi già del DuÖAV (Deutsch und Österreicher Alpine Verein), l’uniformazione della toponomastica, su modello della riforma di Ettore Tolomei, e l’organizzazione di gite, di cui si incoraggiava la partecipazione di soci appartenenti a tutte le sezioni d’Italia, per poter ora godere di questo nuovo lembo di nazione.
7.2 La fascistizzazione del CAI
Il miglior interlocutore politico per i conservatori dirigenti del CAI era, naturalmente, il nascente Partito Nazionale Fascista. Non si può dire, infatti, che il CAI sia stato oggetto di fascistizzazione esterna, dettata dall’arroganza accentratrice e appropriatrice del regime, ma si trattò piuttosto di un matrimonio d’interesse, in quanto il regime trovava funzionale alla propria propaganda la tradizione alpinistica del CAI, con tutti i significati che nella sua storia si era vista attribuire, e il club trovava l’appoggio di un interlocutore particolarmente forte e apparentemente capace di garantire quell’uniformità sociale e di pacificazione politica di cui i montanari borghesi avevano bisogno. Il suggello di questo matrimonio si verificherà nel 1927, con l’immissione, del tutto spontanea, del CAI all’interno del CONI (Comitato Olimpico Nazionale Italiano, massimo ente sportivo nazionale), che nello statuto del 1921 già prevedeva un ‹‹vincolo di piena sudditanza ai voleri del potere politico››[9]. Rifacendosi alla storia personale dei soci, che a suo tempo avevano abbandonato la corda per il moschetto, i vertici individuarono nella figura di Benito Mussolini l’erede di Quintino Sella, definendosi ‹‹inquadrati nelle falangi degli atleti italiani››[10]. I posti dirigenziali del CAI da questo momento si inquadrano rigidamente nel sistema di comando dello stato fascista: il presidente del Club viene ora nominato dal presidente del CONI, su proposta del segretario del PNF. La scelta dei consiglieri centrali è significativa: tra gli altri il senatore Tolomei, il fervente italianizzatore dell’Alto Adige, e il funzionario Giuseppe Bottai, uomini di sicura affezione al regime. Il processo si completerà simbolicamente nel 1929, con il trasferimento delle sede centrale a Roma – per poter godere più da vicino del “soffio vivificatore del fascismo” – e nel 1938, quando il partito di comando giungerà a imporre un cambio di denominazione al Club, giudicato troppo “filobritannico”, trasformandolo in Centro Alpinistico Italiano[11]. E’ significativo osservare come il tipico autoritarismo fascista sia anche in questo caso il motore dell’azione: nel caso del cambio di denominazione si rispose ai soci contrari: ‹‹si fa presente che si tratta di ordini delle Superiori Gerarchie in base a disposizioni prese nel periodo delle Sanzioni all’Italia››[12]; il provvedimento infatti era stato preso tramite regio decreto, convertito in legge il 17 maggio 1938, coerentemente alla corsa all’autarchia e all’italianità del periodo. Già in precedenza non mancano casi in cui l’imposizione autoritaria dimostra la nuova anima del sodalizio: nell’assemblea dei delegati tenutasi a Genova nel 1927, la decisione di entrare nel CONI, e quindi di integrarsi nel sistema di potere fascista, viene presentata ai soci come già presa, proponendo loro una semplice ratifica dell’operato del presidente Eliseo Porro, che presenta la scelta come naturale proseguimento della storia del Club. Sulla Rivista mensile numero 46 del 1927 il consigliere Carlo Nagel ‹‹immagina lo spirito del Sella “entusiasticamente assenziente” alla marcia ordinata delle “falangi” di giovani che seguono, disciplinati, il “glorioso Duce della nuova Italia”››[13]. Il fatto che si continui a ricercare, fittiziamente, un’ipotetica approvazione da parte del fondatore testimonia l’attaccamento al culto della personalità che il regime, e la società civile, imponevano al cittadino, per l’illustre “padre” così come per la figura del Duce. Sta di fatto che il regime incontra, in ogni caso, un consenso piuttosto generalizzato all’interno delle organizzazioni alpinistiche a tutti i livelli: le sezioni si preoccupano di compiacere l’élite di governo, richiamando spesso in montagna la figura del Duce; quelle proprietarie di rifugi provvidero a esporre all’interno delle capanne sociali ritratti e busti del dittatore, per ottemperare a un bisogno di presenza, evidentemente svuotando la montagna di quell’elemento di estraneazione che in più momenti la sua frequentazione aveva ricercato.
Angelo Manaresi, presidente del CAI e podestà di Bologna, si firma come “il podestà alpino”, inviando una cartolina alla rivista Il Comune di Bologna.
Intenzione del regime è quella di assimilare l’attività sportiva, e quella alpinistica in particolare, alla vita e ai valori militari, con le connesse retoriche patriottiche. Come da tradizione, la pratica dell’alpinismo veniva vista come necessaria per dotare i difensori della patria, la miglior gioventù italiana, delle caratteristiche necessarie al campo di battaglia, dato che l’esercizio dell’alpinismo, in quanto pratica sportiva dalle caratteristiche “anomale”, forgiava ‹‹schiere di audaci, rotti alle fatiche, alle asprezze, alle insidie congiunte della montagna e dell’inverno››, insomma soldati resistenti e motivati, carichi di spirito di cameratismo[14] [15]. Il presidio di stampo militare delle zone di confine, che già si era visto prima e dopo la Grande Guerra, continuò con rinnovato vigore, corroborato dalla simbologia e dalla retorica fascista: il CAI si appropriò delle capanne già del DuÖAV, viste come avamposti di pangermanismo in territorio nazionale, rendendole “oasi di italianità”. Le esigenze di difesa e presidio di un territorio integrato politicamente, ma non sempre culturalmente, giustificano l’alto interesse del regime verso il mantenimento e la ricostruzione dei rifugi in quota: spesso provvederà il PNF a farsi carico delle spese di ristrutturazione delle strutture, sforzo che verrà ricambiato dal Club con una presenza sia stabile, con le capanne, sia temporanea, con l’organizzazione delle escursioni di massa. Da parte del CAI le manifestazioni di apprezzamento al regime non mancano: si giungerà a cambiare le denominazioni di alcune capanne sociali, nel 1929 si intitolò a Mussolini un rifugio nelle Dolomiti di Sesto già dedicato al grande rocciatore Emil Zsigmondy, colpevolmente viennese; l’iniziativa aveva un alto valore simbolico, in quanto in zona già esisteva un rifugio Umberto I[16], e venne firmata dai maggiori esponenti dell’alpinismo fascista – allora già l’unico esistente a livello istituzionale – padovano e nazionale, con una sinergia tra CAI e Associazione Nazionale Alpini[17]. A proposito della captatio benevolentiae del CAI, Alessandro Pastore rileva che ‹‹[…] la proposta della nuova denominazione non si esaurisce in un atto di supina piaggeria nei confronti dei vertici del potere dello stato, ma si riconduce al clima di battaglia culturale e politica che nel dopoguerra si respirava nelle zone di montagna già appartenute al defunto impero austroungarico››.[18] Esiste però una esasperazione del conflitto sociale in queste aree, in cui il fascismo, servendosi anche del compiacente CAI, dispiega tutta la sua forza per negare la diversità e uniformare in una artificiosa italianità le popolazioni di confine.
Pizzo Cengalo 1941, gioventù fascista in arrampicata con corda e moschetto.
La seconda metà degli anni Trenta è il momento in cui la sinergia tra fascismo e CAI divenne ancor più profonda, giungendo all’apice per poi avvitarsi su se stessa fino alla conclusione traumatica che segnerà la fine del regime e la ripresa democratica del club. Il presidente Angelo Manaresi aveva totalmente inquadrato il CAI come organo di regime, avallando ogni iniziativa del partito e conformandone le politiche. Negli anni di massimo consenso al fascismo il CAI si esprime istituzionalmente in un modo del tutto conforme alla propaganda del partito. Nel maggio del 1936 il presidente della sezione di Varallo Sesia, il forte alpinista Giuseppe Gugliermina, si sente in dovere di salutare il ritorno dell’impero sui “colli fatali” di Roma e di dimostrare compiacimento verso il re e il duce[19]. Stesso atteggiamento viene da molte sezioni sul territorio nazionale, e si replica poco più tardi quando, al pari dei combattenti della grande guerra, vengono celebrati i legionari che prendono parte alla rivolta franchista in Spagna; nel 1939 la sezione di Milano organizzerà una conferenza nella propria sede per festeggiare solennemente due soci reduci “dell’epopea spagnola”.
La propaganda di regime utilizza anche la letteratura, e il presidente del CAI non rinuncia ad un contributo. Il saluto romano si staglia alle spalle delle torri del Vajolet.
Estremamente traumatica per il club, oltre che per il regime, sarà l’esperienza della discriminazione razziale. Con l’introduzione delle leggi “per la difesa della razza”, avvenuta tra l’estate e l’autunno del 1938, lo stato italiano, e quindi il CAI, si dichiararono apertamente razzisti, in senso specificatamente biologico: ‹‹È tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti. Tutta l’opera che finora ha fatto il Regime in Italia è in fondo del razzismo. Frequentissimo è stato sempre nei discorsi del Capo il richiamo ai concetti di razza. La questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni filosofiche o religiose. La concezione del razzismo in Italia deve essere essenzialmente italiana e l’indirizzo ariano nordico››[20]. Il CAI iniziò una serie di esclusioni, improvvise e altrimenti immotivate, di personaggi illustri, riconosciuti fondamentali nella sua storia come in quella del regno. Se sono scarne le documentazioni applicative delle norme discriminatorie, se ne vedono bene gli effetti scorrendo le liste dei soci successive al 1938, ove, anche in sezioni in cui la presenza di ebrei era determinante – come quella di Ferrara, fondata nel 1927 da sette membri ebrei su 51 totali -, negli anni successivi scompare qualsiasi cognome presente nell’elenco dei genitivi ebraici stilato nell’edizione italiana dei Protocolli dei savi anziani di Sion curata da Giovanni Preziosi. Tra i personaggi di primo piano che vengono non solo epurati, ma obliati dalla storia, troviamo il conte Ugo Ottolenghi di Vallepiana, ebreo, scalatore di primo livello, già compagno di cordata di Paul Preuss, ufficiale degli alpini nella guerra bianca e vicepresidente della sezione di Milano del CAI con ruoli dirigenziali. Una personalità, dunque, perfettamente coerente con le tradizioni del CAI e dello stato, che per il fatto di avere origini ebraiche venne rimosso dalla vita sociale. Il trauma è evidente dalle goffe parole che rivolge lo stesso Angelo Manaresi, che rimane pur sempre gerarca del regime, oltre che presidente generale del Centro – come viene ora chiamato il Club -, all’epurato conte: ‹‹Vallepiana non è un nome ebreo [nella lista di Preziosi invece c’è. N.d.A.] e possiamo continuare a far finta che tu non lo sia…››[21]. L’associazione si preoccupa di obliare qualsiasi riferimento a personaggi ebrei anche rimuovendoli dai posti d’onore in cui la memoria sociali li aveva innalzati: la denominazione di un rifugio, chiaro segno di riconoscenza e celebrazione, se fatta in tempi non sospetti a un ebreo, viene ora modificata.
7.3 L’alpinismo ai tempi del Duce
‹Le varie associazioni alpinistiche non hanno ragion d’essere in regime totalitario, una volta ammesso che lo sport è funzione di Stato, è inquadrato e controllato dal Regime, è mezzo di preparazione spirituale e fisica della razza, è nello stesso tempo, elemento di sanità in pace e di forza in guerra: lo spirito unitario che domina oggi nel paese non può tollerare una divisione in chiese e chiesuole degli alpinisti italiani››[22]. Angelo Manaresi, autore delle righe sopra citate, è la figura che incarna l’avvicinamento tra alpinismo e fascismo, essendo stato fin dalla prima ora tra i più ferventi squadristi emiliani, presidente dell’ANA dal 1928, presidente del CAI dal 1930 alla caduta del regime, podestà di Bologna tra il 1933 e il 1935. Sotto la dirigenza del gerarca bolognese il CAI si impose a essere l’unica associazione alpinistica esistente in Italia, istituzionalizzata nel sistema politico; l’alpinismo, forte di tutto il valore non solo sportivo che aveva accumulato nella sua storia, divenne una disciplina a cui il regime rivolse un’attenzione particolare, favorendone in modo fortemente positivo l’attività, ma imponendo un’ingombrante presenza – come del resto in tutti gli ambiti della vita all’interno dello stato totalitario -. Si è già notata l’appropriazione degli spazi propri degli alpinisti, imponendo denominazioni e simbologie fasciste non solo alle sedi del Club e ai rifugi, ma anche alle montagne stesse. A proposito si possono citare i casi della falesia padovana dei colli Euganei, luogo di allenamento degli alpinisti veneti, dove venne tracciata l’enorme scritta “Dux” per ricordare agli sportivi il cappello fascista posto sopra la loro attività, o la vicenda della torre Costanza, la più bella e ardita guglia del gruppo delle Grigne, già ricordato come luogo d’attività del miglior gruppo di scalatori d’Italia, i Ragni di Lecco, sulla quale venne eretto un fascio littorio di grandi dimensioni e sulla quale il podestà della città lariana spinse Riccardo Cassin ad aprire una difficile via, denominata Via del Fascio Littorio. A livello istituzionale l’inquadramento del CAI nel sistema organizzativo fascista vede un’opera sinergica con GUF e OND per avvicinare sempre più giovani alla salubre attività dell’alpinismo.
La lettera di convocazione alla cerimonia per l’assegnazione della Medaglia d’oro al valor atletico a Riccardo Cassin.
Per dimostrare inequivocabilmente il supremo valore che il fascismo attribuisce all’alpinismo bisogna considerare brevemente due fattori basilari della concezione che il regime ha della nazione e dell’uomo. Mussolini fin da subito propugna il mito della ruralità come principio di forza di una nazione, principalmente da un punto di vista biologico e demografico: la vita a contatto con la natura, lontano dalla confusione e dalla corruzione delle città crea uomini forti fisicamente e obbedienti al regime, perché integri e puri[23]; inoltre il popolamento delle campagne, e delle montagne, avrebbe portato quel progresso demografico necessario a trasformare l’Italia in una potenza coloniale. Allo stesso tempo il fascismo considera la pratica sportiva come attività fondamentale per il benessere del cittadino, e incoraggia vivamente l’esercizio fisico. Lo stesso Angelo Manaresi si produce in uno scritto nel confronto caricaturale tra un intellettuale miope, scheletrico, dal colorito insano e uno sportivo, presumibilmente alpinista, prestante fisicamente e dallo sguardo fiero[24]: ai fini della costruzione di una nazione forte è facile individuare quale dei due personaggi sia indicato come ideale dal gerarca – che pure sembra ignorare, nella sua spinta retorica, la storia culturale della sua stessa nazione -. Sintesi perfetta di questi due principi tipicamente fascisti è l’alpinismo, attività sportiva che più di tutte riesce a conciliare allenamento di corpo e spirito, muscoli e cervello, riconciliando le caricature di Manaresi in un modo riconosciuto ideale anche da Julius Evola, che pure sostiene il legame tra prestanza fisica, nobiltà di spirito, entrambi in gioco nella scalata, e purezza razziale[25].
In questo periodo, in cui Tissi, Rudatis, Comici, Cassin e altri portavano l’alpinismo italiano a un livello di primissimo ordine nel panorama mondiale, il fascismo si appropriò delle vittorie dei suoi scalatori per propagandare forza e virilità, ponendosi come il “mecenate” delle imprese in montagna. Veniva scoraggiata l’iniziativa personale, nella scelta delle imprese, almeno da parte dei personaggi più in vista: Cassin nel 1937, prima di preparare la sua impresa sulla parete nord-est del pizzo Badile, espose ‹‹al comandante della Centuria Rocciatori il proposito di provare le nostre forze su quel baluardo granitico, definito dal Bonaccossa, nella sua guida, uno dei più grandiosi lastroni delle Alpi››[26]. Cassin dimostrò verso il regime e le sue istituzioni un atteggiamento che si può definire con un ossimoro “estremamente tiepido”, adeguandosi alle sue richieste, sottoponendosi alle esigenze, accettando di venir esibito come un trofeo nazionale nelle cerimonie sportive. Per tre volte gli fu assegnata la Medaglia d’oro al valore atletico dal CONI, in occasione delle imprese sulla ovest di Lavaredo, sul Badile e sulle Grandes Jorasses. Personalità del calibro di Angelo Manaresi e Achille Starace gli inviarono attestati di stima via telegramma, e nel 1938 fu il duce in persona in una cerimonia pubblica a Roma a insignire i lecchesi – con Cassin c’erano anche Ratti ed Esposito – della medaglia. Particolarmente importante la forma del rito civile: nella lettera di invito Manaresi raccomanda agli scalatori di presentarsi ‹‹in abito da roccia (pantaloni alla zuava, giubbetto, camicia e cravatta nere [queste ultime sottolineate a penna dallo stesso autore], scarpe da passeggio, capo scoperto […]. Mi compiaccio vivamente per l’alta, meritata onorificenza che, con te, onora il Centro alpinistico Italiano. […] Ti prego di curare che tanto tu quanto i tuoi compagni Esposito e Ratti abbiate uniformità nella foggia del vestito e nella presentazione>>[27]. Nell’ambiente alpinistico era tutto un fiorire di retoriche fasciste, anche nelle comunicazioni informali: Aldo Bonaccossa, presidente del Club Alpino Accademico Italiano[28], accompagnava Cassin che si recava a Roma per ricevere la prima medaglia con degli “alala camerati accademici”, sottolineando come, successivamente all’impresa del 1938 sullo sperone Walker, ‹‹Non potevi [Cassin] dare risposta più clamorosa all’Eiger››[29], in quella competizione che aveva visto i rivali tedeschi imporsi tre volte (Cervino, Eiger e sperone Croz delle Grandes Jorasses) su tre grandi “problemi”, ma che Cassin aveva nuovamente, almeno nell’immaginario dell’alpinismo italiano, superato. Dirà l’alpinista lecchese a proposito del suo rapporto con il fascismo: ‹‹Perché dovrei negare di essere stato fascista? Prima di tutto, negarlo, sarebbe una bugia: ho vestito la divisa, ho ricevuto i premi e i riconoscimenti per quanto facevo in montagna, addirittura la sezione di Lecco del partito pagò a me e a Ratti le spese di viaggio, quando andammo a Misurina per la prima ascensione da nord della Lavaredo. C’era concorrenza coi tedeschi e il regime era interessato a una nostra vittoria… Ma noi mica arrampicavamo per il partito!››[30].
Il rifugio Zsigmondy, durante l’epoca fascista intitolato a Benito Mussolini.
7.4 La caduta vista dalla montagna: alpinisti ribelli, il CAI trasformista
In ogni caso affermare che il mondo dell’alpinismo nella sua interezza fosse colluso, quando non felicemente sposato, con il regime fascista è, come ogni generalizzazione, un azzardo infondato. Se i vertici del CAI si sono sempre dimostrati in piena sintonia con i vertici politici, e per questo emerge l’immagine di un associazionismo del tutto connivente, è perché il regime aveva nel frattempo provveduto a far rimanere il CAI unica associazione nel suo campo legittimata ad esistere in Italia. La più grande società alpinistica dopo il CAI, l’UOEI, venne sciolta, con tutte le altre associazioni non rientrate nel sistema di regime, nel 1928[31]. Gli alpinisti di prima fascia, modelli, secondo i disegni della propaganda, per la nazione intera, occupava, politicamente, posizioni personali ben distinte. Si andava da un Rudatis che anche in virtù della sua già esposta filosofia dell’alpinismo era identificabile con il lato esoterico del fascismo – ma anche formativo, come scrive a proposito Armiero in A rugged nation: ‹‹Rudatis plainly stated that climbing in Dolomites produced a different kind of citizen, radically superior to those “equalized” in western democracies, and spiritually reviewed by Italian Fascism››[32] – a un Cassin, che, come trattato, nel fascismo cercò null’altro che l’appoggio alla propria attività, e personaggi come Tita Piaz ed Ettore Castiglioni, decisamente più critici. Una pratica comune tra gli alpinisti dissidenti era quella di aiutare nell’espatrio clandestino i perseguitati politici italiani: Piaz, grazie anche all’appoggio dell’albergo di sua proprietà al passo Pordoi, prenderà una parte fondamentale nella rete che favoriva la fuga degli antifascisti verso l’Austria, fino al 1933 ancora formalmente democratica. Sarà il rapporto personale con il comandante di zona dei Carabinieri a bloccare ogni indagine di polizia sulla sua posizione, sempre sospetta anche per le idee politiche socialiste professate dalla guida fassana[33]. Altro significativo esempio di alpinista ribelle è quello di Ettore Castiglioni (1908-1944), che seppe essere esempio unico di fine nazionalista e agguerrito antifascista, per una naturale pulsione alla libertà. Di una generazione successiva a Piaz, dopo il 25 luglio 1943 si dedicò anima e corpo alla distruzione delle firme fasciste in montagna: ‹‹Con gioia frenetica abbiamo abbattuto tutti i fasci e tutte le vestigia di un’epoca che ormai apparteneva al passato: in alberghi e rifugi abbiamo distrutto i ritratti; al rifugio Mussolini ho fatto cancellare il nome sul muro esterno, sui registri, sulle cartoline››[34]. Ancora più segnatamente Castiglioni contribuì alla fuga in Svizzera di esuli piemontesi tra cui Luigi Einaudi e la moglie. Il caso di Riccardo Cassin è ancora una volta significativo: se non si rilevano contrarietà palesi al regime durante il periodo di massimo splendore – di entrambi! -, dopo l’8 settembre tutto cambia: a Lecco viene istituito segretamente dal CLN il Gruppo Rocciatori, comandato proprio da Cassin, composto dai migliori scalatori lecchesi, che si sarebbe occupato di intercettare i lanci di armi destinate ai partigiani e dell’espatrio dei perseguitati attraverso le alpi Orobie fino alla Svizzera. Il Gruppo sfilerà per le strade di Lecco dopo la liberazione della città il 26 aprile 1945 piangendo proprio Vittorio Ratti, compagno delle migliori imprese di Cassin, rimasto ucciso pochi giorni prima nella guerriglia urbana[35].
Il CAI nel frattempo si era sempre più attestato su posizioni di assoluta fedeltà al regime: mentre la dichiarazione di guerra alla Francia e all’Inghilterra del giugno 1940 segnava l’inizio della disgregazione, ora palesata, del corpo sostenitore del regime, il sodalizio, sempre rappresentato da Manaresi, ribadisce incondizionata vicinanza al Duce, alla patria, alla fiducia nella vittoria finale[36]. Addirittura nel 1941 il Centro uscì dal CONI per entrare come sezione diretta del PNF, su iniziativa del presidente Manaresi, convinto dell’assoluta omogeneità del corpo associativo di un gruppo che si vantava di aver trasformato da ‹‹modesta compagine di pochi eletti›› in un fronte di massa orientato ‹‹verso il popolo, per seguire il comandamento del Duce, per dare inesauribili fermenti di vita alla Patria in cammino››[37]. Con lo scioglimento del PNF conseguente al 25 luglio, il CAI si ritrovò di colpo spogliato della camicia nera: Manaresi abbandonò la presidenza, fuggì da Roma nella sua Bologna, dichiarò un’incauta fedeltà al re a Badoglio, per trovarsi poi in una posizione di pericolosa ambiguità nei confronti della costituenda repubblica di Salò. Venne deciso dal nuovo consiglio che il CAI, ora retto per decreto dal già presidente della sezione di Milano Guido Bertarelli, non dovesse risentire della mancanza dell’appoggio politico, ma ora, nel momento in cui fu “liberato di ogni intralcio e soprastruttura politica e amministrativa” (sic) poté svolgere le proprie funzioni con rinnovata efficacia. Bertarelli criticò fortemente la precedente gestione[38], dimenticando volutamente l’inquadramento nel totalitarismo e premendo sulla funzione sociale e nazionale e sull’unione necessaria in tempo di guerra[39]. Come accade spesso in Italia, e come è accaduto regolarmente nei momenti di crisi, le trasformazioni avvengono anche in questo caso all’insegna dell’oblio e dell’indifferenza nei confronti della storia, accettando il trasformismo come pratica purificatoria di qualunque personaggio o istituzione.
Fronte del depliant della sezione di Morbegno del 1932. Manaresi e Carducci sono gli ispiratori dell’associazione, citati in copertina.
8. 50’s, 60’s, 70’s, STRADE DIVERSE
Riesce difficile immaginare come da un evento traumatico come la seconda guerra mondiale, con il suo carico di distruzione, non solo di vite, ma pure di valori ed energie positive, possa scaturire la forza per il rinnovamento di un’attività antieconomica, pericolosa, immotivata, socialmente inutile come l’alpinismo. In realtà, se si vuole ancora seguire il fine analizzatore degli alpinisti Gian Piero Motti, si può scoprire come dalle ceneri dell’Europa, una volta scomparsi, per morte naturale o accidentale o per raggiunti limiti d’età, i giganti dell’anteguerra, sorse una generazione di scalatori di una classe inedita. L’esperienza formativa della guerra, soprattutto nei paesi che avevano conosciuto una lotta di liberazione altamente politicizzata (vedi Italia e Francia), creò una generazione di giovani abituati all’idea dell’estremo sacrificio, usi a progettare grandi obiettivi, quasi utopici, e a vivere in un mondo in radicale trasformazione e con prospettive di rivoluzione. Quando queste premesse e aspirazioni saranno frustrate nella “vita vera” – l’alpinismo di punta viene vissuto come un’esistenza slegata dalla realtà, o non se ne potrebbero accettare rischi e sacrifici – questi ragazzi lanceranno le proprie energie nella ricerca dell’affermazione personale contro un avversario invincibile qual è la montagna[40]. Si dovrà fare i conti anche con il graduale assottigliarsi delle possibilità di realizzare prime assolute sulle Alpi di un certo valore: le pareti, le creste, i canaloni più attraenti in Europa erano stati ormai percorsi, ogni cima calcata dal piede umano. Per restare a un livello di eccellenza bisognava reinventare l’alpinismo al di fuori dei canoni classici: comincia ora il periodo dell’estremizzazione dell’artificiale in arrampicata, per superare quelle pareti oggettivamente inaffrontabili in modo naturale, dell’alpinismo invernale, solitario ed extra-europeo. E’ un momento di profondi cambi di prospettiva, si era tragicamente appreso a cosa avevano portato i totalitarismi e l’invasione di campo della politica nella società, il suo controllo e appropriazione di ogni attività, alpinismo incluso. La nuova generazione sarà spaventata e insieme disillusa dalla lotta politica, e cercherà nell’andare in montagna la vera liberazione dai vincoli e dalle necessità “pubbliche”. Non a caso le imprese che si compiranno saranno talmente estreme da suscitare nell’opinione pubblica quei dubbi sull’opportunità dell’alpinismo che nemmeno la frenetica corsa alle grandi pareti nord degli anni Trenta scatenò, e gli scalatori svuotarono la loro attività di qualunque significato che non fosse puramente personale. Nonostante questo alcuni popoli profondamente insicuri, primo tra tutti quello italiano, videro nell’alpinismo una strada verso il successo, e, nonostante l’assoluta neutralità degli attori protagonisti, vissero certe imprese come momenti di rinascita e riaffermazione nazionale.
Retro del depliant della sezione di Morbegno del 1932. Le gite sociali, di un certo impegno, erano tutte portate a compimento.
8.1 Walter Bonatti, l’assassino dell’impossibile
L’uomo più rappresentativo dell’alpinismo Europeo tra gli anni ’50 e ’60 fu Walter Bonatti (1930-2011), un vero innovatore perché capace di impressionare in ogni nuovo campo della disciplina: l’arrampicata estrema, l’invernale, il solitario, l’extra-europeo. La sua poliedricità, unita all’assoluta determinazione alla vittoria, alla spettacolarità delle imprese e un fascino indiscusso del personaggio, fecero di Bonatti un protagonista non sempre consenziente nell’opinione pubblica italiana tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Con un metodo del tutto diverso rispetto a quello in uso in epoca fascista, la figura dell’alpinista assurse davvero a modello nazionale a mezzo stampa, con l’amplificazione dell’aspetto umano delle imprese. Per questo la deificazione dello sportivo che assoggetta la natura a cui andavano incontro i grandi dell’anteguerra non toccherà Bonatti e i suoi contemporanei, ma saranno, benché costantemente sotto i riflettori – o più correttamente, su tutte le prime pagine -, sempre soggetti a critica da parte di un pubblico per larghissima parte impreparato a riconoscere il valore e il significato di tali imprese. Senza il megafono del regime, la democrazia funzionava anche sulla maturazione dei giudizi, non sempre lusinghieri e a senso unico come quelli toccati a Cassin e soci.
Dal punto di vista alpinistico la storia di Bonatti è invece a senso unico: una successione strabiliante di risoluzioni di problemi su cui nessuno avrebbe mai scommesso, iniziata in giovanissima età, nel 1949, a soli 19 anni, con la ripetizione delle più dure vie del tempo, tra cui la “Cassin” sulla nord delle Grandes Jorasses. Parte di un gruppo di alpinisti monzesi, gli autoironici “Pel e oss”, squisitamente cittadini e quindi non legati campanilisticamente a nessuna particolare vallata, Bonatti, nonostante avesse, come Cassin, scelto la Grigna come terreno d’elezione per l’allenamento e l’affinamento della tecnica, si specializzò subito sull’arrampicata occidentale, particolarmente spettacolare, difficile e pericolosa come può essere quella del gruppo del monte Bianco. A vent’anni violò per primo, con Luciano Ghigo, la temuta parete est del Grand Capucin, iniziando la serie di prime ascensioni. Nel 1955 compì la sua impresa forse più famosa e celebrata, la salita solitaria, in sei giorni, del pilastro del Petit Dru, sul versante francese del Bianco; tale fu l’impressione della salita che i chamoniardi denomineranno la struttura proprio “pilastro Bonatti”[41]. L’elenco delle prime ascensioni, da solo e con compagni fortissimi ma certo meno carismatici di lui ne fanno l’alpinista più forte, prolifico e mediaticamente esposto della seconda metà del secolo; per questo le situazioni critiche in cui venne a trovarsi si prestarono particolarmente a un’analisi superficiale e a conclusioni affrettate del grande pubblico che in Italia è ora diventato appassionato giudice. Mai alpinista fu più prolifico in ogni angolo delle Alpi: oltre alle imprese già citate, si contano numerose nuove vie nelle Grigne e nel gruppo del Masino nei primi anni ’50, la prima salita invernale della “Cassin” sulla Cima Ovest di Lavaredo nel 1953 (e la seconda della “Comici” sulla Cima Grande a pochi giorni di distanza), le prime sul Grand Pilier d’Angle nel Bianco, al Pilastro Rosso del Brouillard, fino allo sperone Whymper, l’ultimo inviolato sul versante nord delle Grandes Jorasses[42] (da aggiungere necessariamente la prima salita con Carlo Mauri dell’inviolata vetta del Gasherbrum IV e la prima invernale, con Cosimo Zappelli, della via Cassin alla parete nord delle Grandes Jorasses, NdR). La chiusura della sua carriera di alpinista avvenne nel modo più spettacolare possibile: sul Cervino, la montagna più rappresentativa d’Italia, nel febbraio 1965, nel centenario della prima, tragica, salita. Questa impresa fu la sua più notevole, compiuta da solo, in inverno, su quella parete nord su cui trent’anni prima i fratelli Schmid avevano segnato l’inizio della fine dell’alpinismo tradizionale. Chiudere all’apice dotava l’alpinista di un fortissimo senso di umanità e svuotava l’alpinismo di punta da quell’eroico, fatalista, romanticismo, riguardante la morte in azione e l’annullamento dell’individuo dal sapore antico, che ancora non aveva abbandonato. Scrisse di sé Bonatti: ‹‹Ho soddisfatto ogni mia ambizione e realizzato ogni mia aspettativa. Con questo non voglio pormi a modello di nessuno, vedo però che qualcuno si trova in concordanza con il mio modo di sentire e di essere; ecco scattare in me l’orgoglio di propormi a lui come punto di riferimento. […]. Attenzione però che vedermi come alpinista è vedermi solo per metà. Anzi, assai meno di metà, tenuto conto che all’alpinismo, quello di massimo impegno ed espressione, io non ho dedicato che sedici anni della mia vita››[43].
La parete della Corna di Medale, avancorpo della Grigna, sovrasta la città di Lecco. I Ragni di Cassin e i Pèl e Oss di Bonatti ne fecero terreno di preparazione per le più grandi imprese alpinistiche del XX secolo.
La fortuna, e insieme condanna, di Bonatti, il suo essere continuamente sulla cresta dell’onda, fu il coincidere della sua parabola alpinistica con il boom economico italiano, con la rivalutazione in chiave turistica delle Alpi, l’espansione delle infrastrutture nelle vallate alpine, l’accesso sempre più diffuso degli italiani ai mezzi di trasporto e la conseguente crescita della frequentazione delle montagne come luogo di svago, insieme alla rinnovata passione per l’alpinismo seguita alla conquista italiana del K2, alla quale lo stesso Bonatti prese parte. Erano anni in cui la nazione stava ritrovando la propria identità dopo i traumi della guerra, e richiedeva a gran voce eroi e modelli, godendo della possibilità di criticarli e distruggerli a piacimento. Prima la polemica nella vicenda K2 (della quale si tratterà nel prossimo capitolo), poi nella tragedia del Freney in cui si trovò coinvolto. Nel 1961 Bonatti durante un’ascensione sul monte Bianco si ritrovò parte di una delle maggiori disgrazie mai capitate nella storia dell’alpinismo: un repentino cambio di tempo sorprese la sua cordata e un gruppo di francesi che era con loro. L’amico, promessa dell’alpinismo italiano, Andrea Oggioni e i tre francesi Pierre Kohlmann, Robert Guillaume e Antoine Vieille perirono negli angosciosi giorni funestati dalla tormenta, nel tentativo di trovare una via di fuga. L’occasione viene colta per iniziare un processo a Bonatti e all’alpinismo: mentre in Italia la stampa sarà tremendamente critica, in Francia, per l’impegno dimostrato nel tentativo di salvare i suoi compagni, Bonatti riceverà gratitudine e riconoscimento, venendo nominato nel 2002 d Jacques Chirac Ufficiale della Légion d’honneur con queste motivazioni: ‹‹Un gigante dell’avventura dalla notorietà internazionale, un uomo coraggioso e generoso che non ha esitato a prendere tutti i rischi per soccorrere i compagni››[44]. Il rapporto di Bonatti con le istituzioni, così come con il pubblico, sarà sempre travagliato: la Medaglia d’oro al valor civile, che gli venne conferita nel 1965 dopo l’impresa sul Cervino, sembrava voler cancellare le ruggini del vicino passato circa le questioni K2 e Freney. Le motivazioni del presidente della Repubblica Giuseppe Saragat furono: ‹‹l’epica impresa che suscita la commossa ammirazione del mondo intero e l’orgoglio della Patria per un simbolo della superiorità dello spirito dell’uomo sulle forze materiali››[45]. E’ evidente la rincorsa tipicamente italiana al suo eroe, che da un lato abbozza gratitudine, dall’altro non smetterà mai di lottare per dimostrare la buona fede delle proprie scelte e battaglie per l’affermazione della verità e dei meriti. All’opinione pubblica che discuteva l’opportunità dell’alpinismo e della glorificazione del rischio, rispondeva un anonimo scrittore: ‹‹… una madre si uccideva con i figli, un padre sterminava la famiglia, si dibatteva il processo per lo scandalo della sanità, la gente rubava, bestemmiava, fornicava. Invece un uomo si gettava tutto dall’altra parte: a un’impresa inutile, temeraria, assurda, poetica. Qualche conforto ce l’ha dato, non può non avercelo dato››[46].
8.2 Il K2, la montagna dell’orgoglio italiano
L’alpinismo è fatto di più componenti, aspirazioni che muovono lo scalatore verso traguardi lontani e pericolosi; l’esplorazione, unita all’estremizzazione dei fattori – altezza, difficoltà tecnica, isolamento – sono i principali, ed entrambi possono essere soddisfatti in modo molto maggiore sulle catene di altri continenti piuttosto che sulle straconosciute, addomesticate e relativamente basse Alpi. Una volta che l’alpinismo europeo fu giunto a una certa maturità venne quindi il momento di rivolgere l’attenzione verso gli altri continenti, verso catene montuose più “estreme”, in luoghi lontani dall’immaginario, restituendo la verginità all’alpinismo. Muoversi in nuovi territori significava però dover elaborare un nuovo sistema per pensare l’alpinismo, non più basandosi sul valore del singolo o al massimo della cordata, ma sul lavoro d’equipe che, nel periodo dell’affermazione dei nazionalismi, significò sempre più spesso spedizioni “nazionali” dai significati più disparati, dalla ricerca scientifica all’affermazione colonialista alla dimostrazione di potenza[47]. Ovviamente l’attività più energica di conquista fu rivolta verso il continente asiatico, dove le catene contigue di Himalaya e Karakorum dominavano, inesplorate, le pianure indiane che per gli europei significavano prestigio e affermazione. Il fascino dell’altezza fece il suo per attrarre gli alpinisti: in nessun’altra parte del mondo si estremizzava a quel modo il concetto di quota e le sue conseguenze climatiche. L’alpinismo eroico era pronto a fare nuove esperienze, e a rimaner più e più volte traumatizzato prima di poter ricavare soddisfazioni da questo nuovo e complesso campo d’azione. Riassumendo brevemente le fasi dell’alpinismo himalayano, le prime esplorazioni furono compiute in modo del tutto privato da alpinisti che cercavano conferme al di fuori delle Alpi: si può citare l’inglese Mummery che scomparve da solo, nel 1895, nel tentativo di salire il Nanga Parbat, in una sfida troppo sproporzionata in relazione ai tempi e alle capacità tecniche[48]. Ancora si vedono all’opera spedizioni di nobili esploratori, vedi l’attività del Duca degli Abruzzi nei primi del ‘900 nel Karakorum, che legherà fino alla fine il nome dell’Italia alla catena pakistana. Con la crescita della conoscenza crebbero i risultati delle varie spedizioni, che divennero sempre più “pesanti” e scientifiche, caratterizzate, prima della seconda guerra mondiale, da un certo spirito nazionalistico che portò i tedeschi a morire, come sull’Eiger, sugli Ottomila: sul Nanga Parbat, in tre spedizioni successive del 1934, 1937 e 1938, si concentrarono i tentativi degli alpinisti del Reich, e vi trovò la morte anche il campione Willo Welzenbach[49]. Il primo gigante asiatico a cadere fu l’Annapurna, per mano francese, nel 1950, quando Maurice Herzog, poi figura di riferimento nello sport e nell’alpinismo d’oltralpe, organizzò una spedizione in cui il lavoro di squadra prevalse sul coraggio del singolo. Venne poi, nel 1953, la volta dell’Everest, salito da un neozelandese, Edmund Hillary, e un nepalese, Tenzing Norgay, per conto di Sua Maestà britannica, e del Nanga Parbat, vinto, finalmente, in solitaria, dall’austriaco Hermann Buhl[50].
Walter Bonatti, celebrato negli anni ’60 come il miglior alpinista a livello internazionale.
Nella corsa agli Ottomila avviata nel secondo dopoguerra, mentre si affermavano Francia, Gran Bretagna e Germania, l’Italia non stava a guardare. L’obiettivo era il più prestigioso di tutti: già studiato dalle spedizioni del Duca degli Abruzzi, il pakistano K2 è la seconda montagna della Terra, e la più complessa, tra gli Ottomila, per isolamento, instabilità meteorologica e difficoltà dei passaggi in parete. Le lezioni che si erano accumulate nei tentativi himalayani degli anni precedenti furono preziose: le istituzioni italiane, Consiglio Nazionale delle Ricerche e Club Alpino Italiano in testa, patrocinarono ufficialmente una spedizione dall’organizzazione militaresca, affidata alla direzione di Ardito Desio (1897-2001), geologo ed esploratore di lungo corso. I componenti della spedizione furono accuratamente selezionati in base al curriculum alpinistico e a test medici effettuati da specialisti dello sport e delle quote estreme; inoltre accordi furono presi con il governo del Pakistan, che avrebbe fornito assistenza logistica in cambio di una futura collaborazione per opere di ingegneria idraulica necessarie allo sviluppo industriale del paese[51]. I migliori alpinisti italiani furono precettati e partirono per il Pakistan nella primavera del 1954: Lino Lacedelli, Achille Compagnoni, Erich Abram, Gino Soldà, Cirillo Floreanini, Ubaldo Rey, Sergio Viotto e il grande emergente Bonatti sono i nomi di punta del periodo; colpisce l’esclusione di Riccardo Cassin, con il pretesto dell’inadeguatezza fisica, in realtà giudicato da Desio una personalità troppo forte e potenzialmente pericolosa per la stabilità del gruppo[52]. Insieme a loro parteciparono alla spedizione ricercatori e cineoperatori, per dotare l’impresa di scopo accademico e valore nazionale. La vetta fu raggiunta dai soli Achille Compagnoni (1914-2009) e Lino Lacedelli (1925-2009) il 31 luglio, grazie a un perfetto lavoro in team operato dagli alpinisti italiani e dai portatori pakistani, sotto l’organizzazione del professor Desio. Il valore nazionale dell’impresa è fuori discussione, visibile tanto negli accurati e istituzionalizzati preparativi, quanto dalla gestione delle informazioni che giungeranno in Italia successivamente all’impresa. In via di ricostruzione, e riabilitazione, successive alla guerra, in dismissione dei complessi di inferiorità nei confronti degli altri stati dell’Europa occidentale, l’Italia riceveva da Desio il primo agosto 1954 il seguente Ordine di servizio: ‹‹Alle ore 18 del 31 luglio la nostra bandiera a sventolato, insieme con quella della nazione amica che ci ospita – il Pakistan – sulla seconda cima del mondo, sulla vetta immacolata del K2. In alto i cuori, compagni carissimi! Per merito vostro un grandioso successo arride alla nostra Italia che oggi, con la trasmissione del comunicato attraverso la nostra radio da campo, è all’ordine del giorno del mondo intero. Voi avete ben meritato e tutti gli italiani oggi sono in piedi per acclamare a voi baldi esponenti della nostra razza››[53]. Al di là di un inquietante, e fuori tempo, riferimento alla razza, che proviene da un passato politico non proprio pacificato del professore, tutto il testo del comunicato è volto a sottolineare non l’impresa di due singoli alpinisti, che non vengono mai nominati, ma dell’intera nazione. Per lo stesso motivo i nomi di Lacedelli e Compagnoni usciranno sulla stampa italiana come quelli dei due vincitori soltanto dopo un mese, grazie a rumors della United Press, e saranno confermati ufficialmente da Desio il 12 di ottobre, dopo che il CAI aveva divulgato una fotografia di vetta in cui i due erano sufficientemente riconoscibili. Dal punto di vista della stampa e dell’opinione pubblica la spedizione fu il successo totale e travolgente di un gruppo di uomini straordinari, moralmente inattaccabili simbolo di una nazione dalle stesse caratteristiche. Speciali pubblicazioni furono stampate per celebrare l’evento, comprese le riviste per ragazzi: la copertina dell’Intrepido che ricordava l’impresa cinque anni dopo ancora ritraeva un anonimo alpinista che salutava, sulla vetta del K2, tra le nuvole, la fiera personificazione della Repubblica Italiana. Un lungometraggio realizzato dal CAI e distribuito dall’ENIC[54], fedele alla versione ufficiale degli eventi e ben lungi dall’ascoltare le polemiche che già stavano nascendo, venne proiettato nelle sale cinematografiche di tutto il paese[55]. Desio venne immediatamente nominato Cavaliere di Gran Croce, Compagnoni e Lacedelli ricevettero il 10 marzo 1955 la Medaglia d’oro al valor civile con identica motivazione: ‹‹Tempra eccezionale di alpinista, dopo aver profuso, durante la spedizione italiana al Karakorum-K2 nel 1954, le sue forze nella durissima scalata dello sperone Abruzzi del K2, e predisposto l’attacco finale, si slanciava con mirabile ardimento e sprezzo del pericolo, alla conquista della vetta inviolata. Superati i rischi e sacrifici di ogni sorta, pur avendo esaurito le riserve di ossigeno, traeva ancora dalle altissime qualità del suo forte animo l’energia sufficiente per giungere a piantare sulla seconda cima del mondo il tricolore d’Italia. Luminoso esempio delle più alte virtù di nostra gente››[56].
L’autore, Carlo Battista Mazzoleni
Quella del K2 era però pur sempre una storia tutta italiana, aspre polemiche non tardarono a venire a galla. La più duratura, fondata, e sentita anche dal grande pubblico – che come sempre nel nostro paese sui fatti di cronaca si divide in fazioni quasi si trattasse di eventi sportivi -, fu quella sul caso di Walter Bonatti e del portatore hunza Amir Mahdi. Essi furono, con Compagnoni e Lacedelli, nel gruppo che il giorno precedente alla conquista definitiva della vetta, il 30 luglio, si dirigeva verso l’ultimo campo, il nono, per poi tentare l’attacco finale alla cima; Bonatti, essendo il più giovane, era stato deciso che sacrificasse la sua possibilità di giungere all’apice per trasportare le bombole d’ossigeno che i due veterani avrebbero utilizzato per concludere l’ascensione. Quando però Bonatti e Mahdi giunsero nel luogo dove avevano concordato di piantare il campo non trovarono gli altri alpinisti, che si erano deliberatamente spostati, e furono costretti a un pericolosissimo bivacco a oltre 8000 metri di quota. Evidentemente il giovane alpinista lombardo, per le sue doti fisiche, era ben in grado di poter giungere in vetta, nonostante gli sforzi superiori compiuti nella salita, e avrebbe adombrato i due “anziani”[57], che non solo lo esposero a serio rischio di vita, ma fecero di tutto successivamente per deviare i sospetti su un suo egoismo personale, accusandolo di aver consumato tutto l’ossigeno ed essersela “battuta”. La versione di Bonatti fu sempre ignorata dagli organi di stampa italiani e dalle gerarchie del Club Alpino, Desio stesso liquidò le contestazioni in modo spiccio preferendo dare immagine di incrollabile correttezza della grande spedizione nazionale. I sospetti però, complici anche i mutamenti di clima che nei decenni successivi si avvertirono nel paese e nel mondo dell’alpinismo – vedi paragrafi successivi – cominciarono a essere non più trascurabili, finché nel 1994, in occasione del quarantesimo dell’evento, il CAI decise di rivalutare l’intera storia: ‹‹In seguito il CAI, per timore di rinnovare le polemiche, non intervenne mai ufficialmente per chiarire la verità storica alpinistica, forse di poco conto per il mondo esterno, ma importante per il mondo alpinistico internazionale e per tutti i protagonisti. Oggi, per festeggiare con piena dignità la ricorrenza, il Club Alpino Italiano vuole togliere quest’ultima ombra sulle vicende dando al suo organo di stampa ufficiale la voce anche a Walter Bonatti, in omaggio a quelle responsabilità morali che il CAI stesso si era assunto a suo tempo per la parte alpinistica della spedizione››[58]. Dieci anni dopo, nel 2004, fu istituita una commissione di tre “saggi” che esaminasse la questione, giungendo, nel 2007, alla pubblicazione del volume K2. Una storia finita, una sorta di riconciliazione tra il paese e la storia, e momento in cui ufficialmente il CAI accettava la contestazione di Bonatti.
Note
[1] G.P. Motti, op. cit., 415-422; C. E. Engel, op. cit., pp. 247-250.
[2] Reiner Rettner, Eiger, trionfi e tragedie, Milano, Corbaccio, 2010, p. 18.
[3] Ivi, p. 258.
[4] Ivi, p. 265.
[5] A. Pastore, op. cit., p. 113.
[6] Ivi, p. 123.
[7] Ivi, p. 106.
[8] Ivi, p. 111.
[9] Ivi, p. 133.
[10] Idem.
[11] C.E. Engel, op. cit., p. 245.
[12] Rivista mensile del CAI, n° 57, 1938, da A. Pastore, op. cit.
[13] Ivi, p. 134.
[14] Ivi, p. 136.
[15] Quanto la conoscenza, e il saper affrontare, la dura vita montana fosse importante nella conduzione di una guerra, si noterà durante la campagna di Russia dell’Armir nell’inverno 1942-43, quando la disfatta della spedizione italiana fu decisa dai rigori del clima russo; se i reparti alpini erano addestrati e usi a operare in condizioni climatiche estreme, il comando e gli equipaggiamenti furono ben lungi dall’essere adeguati.
[16] Da questo momento collegato al rifugio Mussolini da un sentiero.
[17] Della quale era presidente quell’Angelo Manaresi, che si troverà presto anche alla guida del CAI.
[18] Ivi, p. 139.
[19] Ivi, p. 201.
[20] La difesa della razza, anno I, numero 1, 5 agosto 1938, p. 2, da it.wikipedia.org/wiki/Leggi_razziali_fasciste, consultato il 24 gennaio 2013.
[21] A. Pastore, op. cit., p. 201.
[22] Angelo Manaresi, Parole agli alpinisti, Roma,Club Alpino Italiano, 1932, cit. in A. Pastore, op. cit., p. 175.
[23] Concezione comunque comune e tradizionale, come si è già visto scrivendo dei reparti alpini della Grande Guerra.
[24] M. Armiero, op. cit., p. 149.
[25] Ivi, p. 150.
[26] Cassin sulla Rivista mensile del CAI, ottobre 1937, cit. in: Riccardo Marchini, Lodovico Mottarella (a cura di), Badile 87, cinquant’anni di leggenda, Morbegno, CAI sez. Morbegno, 1985, p. 7.
[27] Manaresi a Cassin, 14 giugno 1938, da Alessandro Gogna e altri, op. cit.
[28] Sezione d’élite del CAI, di cui fanno parte, su invito, le personalità più significative in campo di studio e divulgazione delle tematiche riguardanti la montagna e l’alpinismo.
[29] Ivi, p. 88.
[30] Ivi, p. 194.
[31] http://lecco.uoei.it/storia.php, consultato il 24 gennaio 2013.
[32] M. Armiero, op. cit., p. 151.
[33] T. Piaz, op. cit., pp. 125-129.
[34] Ettore Castiglioni, Il giorno delle Mésules, Torino, Vivalda, 2003, p. 283.
[35] A. Gogna e altri, op. cit.
[36] A. Pastore, op. cit., p. 205.
[37] Ivi, p. 207.
[38] Nonostante fosse stato alto dirigente e zelante applicatore dei provvedimenti dell’epoca Manaresi, vedi nella vicenda del conte Ottolenghi di Vallepiana.
[39] A. Pastore, op. cit., pp. 212-213.
[40] G.P. Motti, op. cit., p. 442.
[41] G.P. Motti, op. cit., pp. 448-461.
[42] Luigi Dodi, I passi di una vita, in ‹‹Meridiani Montagne. Le Alpi di Walter Bonatti››, Rozzano, Domus, 2011, pp. 34-35.
[43] Enrico Martinet, Bonatti e l’età d’Oro delle Alpi, in ‹‹Meridiani Montagne. Le Alpi di Walter Bonatti››, Rozzano, Domus, 2011, p. 32.
[44] it.wikipedia.org/walter_bonatti, consultato il 10 febbraio 2013.
[45] Enrico Camanni,Istinti geologici e presunzioni umane, in ‹‹Meridiani Montagne. Le Alpi di Walter Bonatti››, Rozzano, Domus, 2011, p. 112.
[46] Idem.
[47] G.P. Motti, op. cit., pp. 544-545.
[48] Per approfondimenti: Reinhold Messner, Nanga Parbat, la montagna del destino, Milano, Mondadori, 2008, pp. 15-20.
[49] Ivi, pp. 47-89.
[50] G.P. Motti, op. cit., pp. 545-557.
[51] Leonardo Bizzaro in K2: uomini, esplorazioni, imprese, Novara, Istituto geografico DeAgostini, 2004, p.90.
[52] Ivi, pp. 94-97.
[53] Ivi, pp. 112-113.
[54] Ente Nazionale Industrie Cinematografiche, costola dell’istituto LUCE, it.wikipedia.org/wiki/Istituto_Luce, consultato l’11 febbraio 2013.
[55] Ivi, pp. 114-117.
[56] www.quirinale.it/elementi/DettaglioOnoreficenze , schede su Achille Comapagnoni e Lino Lacedelli, consultato l’11 febbraio 2013.
[57] Enrico Martinet, Bonatti e l’età d’Oro delle Alpi, in ‹‹Meridiani Montagne. Le Alpi di Walter Bonatti››, Rozzano, Domus, 2011, p. 37.
[58] Roberto De Martin, presidente generale del CAI, in La rivista del CAI, Mag-Giu 1994, in it.wikipedia.org/wiki/Spedizione_del_1954_al_K2_e_Caso_K2.
Fine della terza parte, continua
0
Un periodo Storico del nostro paese, che racconta perfettamente le imprese Alpinistiche dell’ Epoca, (con il racconto del K.2 di cui W.Bonatti fu la vittima per tanti Anni..)
Interessante ricostruzione storica; un dettaglio va segnalato, riguardo ai partecipanti alla spedizione al K2. L’elenco fornito nel testo forse non intendeva essere esaustivo, ma da quell’elenco mancano (a parte il medico e il cineasta della spedizione) tre alpinisti: Gallotti, Angelino e Puchoz, che dal K2 non è tornato.