Montagne, uomini e idee – 4 (4-4)
di Carlo Battista Mazzoleni
(tesi di laurea in storia, Bologna, 2013)
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8.3 California dream
Ci sono, e in parte resistono, nel mondo, dei luoghi che ispirano libertà, richiamano sentimenti di estraneazione, luoghi in cui gli uomini sono solo uomini, spogliati delle tradizioni e dalla storia che affibbiano loro un essere sociale, gli impongono determinati schemi di pensiero e valori da rispettare. Se per una buona parte di europei questi luoghi erano identificati in alcuni paesi dell’Asia dove invece l’alpinismo aveva trovato, a livello generale, dei fortissimi limiti etici – mi riferisco alla corsa nazionalistica agli Ottomila e a episodi come quello che gettò ombre sulla spedizione italiana al K2 -, un luogo in cui l’andar per monti era davvero una pura espressione della personalità era la Sierra Nevada, in California. Nel parco dello Yosemite si era infatti sviluppato, stentatamente prima della seconda guerra mondiale, poi in modo dirompente, un nuovo alpinismo, senza antichi padri fondatori né eroi nazionali da idolatrare, senza incrostazioni politiche con cui fare i conti. In questa terra che si potrebbe definire “senza storia”, proprio perché la storia giocava un ruolo minimo sulle menti dei suoi frequentatori, è potuta crescere una classe di giovani, fortissimi arrampicatori che, per i canoni europei, si potrebbero definire anarchici; dal loro punto di vista estremamente erano liberi, e lasceranno un profondo segno anche nel modo di considerare e praticare l’alpinismo anche nel vecchio continente. Oltre che prive di contaminazioni culturali, le vallate californiane sono profondamente diverse dalle Alpi anche per quanto riguarda la severità ambientale, che un ruolo fondamentale ha sempre giocato sulle montagne del resto del mondo: quasi mai gli arrampicatori d’oltreoceano si dovevano trovare a far conti con repentini e imprevisti cambi di tempo, cali di temperatura, pericoli oggettivi dei ghiacciai – crepacci, crolli di seracchi – come i loro colleghi europei, potendosi per questo concentrare esclusivamente sul proprio rapporto personale con la roccia, portando l’arrampicata in sé a livelli tecnici, etici ed estetici mai raggiunti in precedenza o altrove. Non esisteva la preoccupazione della quota, e quindi nemmeno il suo mito: per la prima volta nella storia la vetta non è più l’obiettivo principale, assoluto, ma è sostituita dall’arrampicata, in un luogo come questo in cui lo stile ha una tale importanza – anche perché senza è impossibile “passare” – a essere la vera protagonista dell’azione[1].
La spedizione italiana che nel 1954 conquistò il K2. In Piedi al centro in prima fila il prof. Ardito Desio.
La valle dello Yosemite è un vero paradiso naturale, perfettamente conservato e tutelato dal primo parco naturale istituito negli Stati Uniti d’America grazie anche all’opera di quello che viene considerato a ragione il padre fondatore del conservazionismo naturale moderno, John Muir (1838-1914), per opera del quale la zona venne protetta dal governo federale degli Stati Uniti già nel 1890, dopo che già il presidente Lincoln l’aveva inserita tra le località della nazione di particolare valore naturalistico nel 1864[2]. All’interno di questo territorio si trovano tra le strutture rocciose più grandiose al mondo, per un rocciatore, ma anche per un montanaro con spirito d’avventura, di indubbia attrattiva. Formazioni come Half Dome, el Capitan, Lost Arrow, Sentinel Rock presentano pareti e spigoli di granito di qualità eccezionale, lunghi, arditi, all’apparenza inaccessibili ma solcati da fessure e camini che potevano renderne, per un capace rocciatore, la salita relativamente sicura. Proprio per la mancanza di tradizione alpinistica nella zona, i primi tentativi di salita di questi monti furono piuttosto goffi, e giudicati con un’ottica lealista alpina largamente sleali: dopo vani tentativi compiuti senza la minima consapevolezza delle tecniche di assicurazione in parete da parte di coloni curiosi, l’Half Dome fu salito dall’operaio scozzese George Anderson, che tentando vari espedienti, tra cui quello di spalmarsi di resina le suole dei mocassini, trovò quello vincente. Nel 1875 scalò il lato meno repulsivo della struttura forando a colpi di bulino l’intera via di salita, per infiggervi fittoni di ferro usati per fissare la corda e spesso anche come veri appoggi per facilitare la progressione. Sembrava iniziata l’era dell’alpinismo turistico anche nella zona, per l’attività dello stesso Anderson, quando le autorità del parco vietarono le scalate e fecero rimuovere tutti gli artifici – fittoni, pioli, corde fisse, scalette – con cui lo scozzese faceva salire, dietro compenso, gli eccentrici signori sulla cima dell’Half Dome.
L’attività alpinistica nella zona si assopì per lungo tempo, finché negli anni ’30 un nuovo gruppo di arrampicatori si recò nella valle: erano studenti di Berkeley incuriositi da questa pratica sportiva che andava tanto di moda in Europa, e avevano le capacità per perfezionare le tecniche di assicurazione e di scalata e per acquistare in Germania il materiale da arrampicata. Il Cragmont Climbers Club, dopo aver compiuto i primi passi sulle rocce degli Indian Rocks sulle Berkeley’s Hills, precedendo notevolmente anche il largamente successivo fenomeno del bouldering, si rivolsero alle strutture più abbordabili della Yosemite valley, compiendo le prime vie in stile alpino sui Cathedral Spires, di livello comunque ancora distantissimo da quanto si realizzava contemporaneamente in Europa[3].
La locandina del film-documentario ufficiale.
Sarà dopo la guerra che animi ed equipaggiamento saranno adatti ad affrontare pareti lunghe e complesse come quelle della Sierra Nevada: il materiale militare, corde, fettucce, vestiario sarà ricercato dagli alpinisti, che anche grazie a queste migliorie furono allora in grado di evolvere il proprio livello. Il Sierra Club, fondato ancora da Muir negli anni Novanta del XIX secolo con il solo scopo di compiere escursioni naturalistiche, si dotò di una sezione rocciatori, che inconsapevolmente sono causa della vera rivoluzione alpinistica della zona: un operaio aggregato al loro gruppo, già quarantenne, invece che perdersi tra salite di massi di scarso interesse e libagioni da benestanti, si interessò di salite di alto livello, imparò e perfezionò l’uso di corda e chiodi, e si inventò il chiodo profilato a “V” in lega resistente, molto più adatto e sicuro sulle larghe fessure granitiche americane. John Salathé (1899-1993), dopo essersi impratichito sulla Lost Arrow, compì nel 1946 la prima salita della parete sud-ovest dell’Half Dome, con uno stile che si può definire “pulito”, senza uso di perforatore e chiodi a pressione, ma solo dei suoi personali chiodi in profilato. Salathé si ritirerà dopo aver risolto, nel 1950, gli altri due “problemi” della valle, la Lost Arrow (Freccia Perduta) – che era sì stata salita ma con metodi “sleali” – e il Sentinel Rock; la sua vita finirà lontano dall’alpinismo, ma in un modo tipico degli anti-sociali americani, vagabondando per gli States per rimanere profondamente deluso dall’evoluzione del parco e dei suoi frequentatori[4].
Da questo momento in poi il progresso tecnico dell’arrampicata in zona raggiunse livelli inimmaginati in Europa, se si considera il puro contatto uomo-roccia: ogni espediente di assicurazione e di progressione venne sperimentato, nuovi strumenti inventati, il cuore venne gettato oltre l’ostacolo nel senso che nella mente degli scalatori americani non c’era posto per nessun freno. La stessa scala delle difficoltà sviluppata negli anni ’50 all’interno del Sierra Club è espressione di questo atteggiamento: indicando come di grado “5” ogni difficoltà di tipo alpinistico – mentre dall’1 al 4 si intendono difficoltà escursionistiche -, si suddividono nei decimali i vari livelli interni alla disciplina, partendo dal 5.0 ma senza mai poter arrivare al 6[5]. Ovviamente con il perseguimento di traguardi sempre più ambiziosi anche lo stile cambiò di molto, ma per avere ragione delle pareti più lunghe e dure della valle c’era bisogno di un bagaglio tecnico superiore, che venne portato da Royal Robbins (n. 1935, scomparso nel 2017, NdR) e compagni, californiani delle falesie del sud che avevano sviluppato una notevole abilità nell’arrampicata libera. Dapprima in collaborazione con Warren Harding (1924-2002), successore di Salathè come leader della valle, con il quale ebbe motivo di scontro a proposito dello stile di salita, e poi con amici personali, Robbins vinse la parete nord-ovest dell’Half Dome, simbolo della Yosemite valley e meta abituale degli escursionisti dal lato orientale che era stato riattrezzato a scale per la frequentazione turistica. L’impresa fu notevole, per il ruolo giocato dall’attenzione allo stile e per l’organizzazione della salita della big wall che richiese cinque giorni di arrampicata e parecchie centinaia di metri di corda per attrezzare l’eventuale ritirata[6]. Warren Harding non stette a guardare, e l’anno successivo compì la salita forse più celebre della Yosemite valley, la via del Nose, su el Capitan, un ottimo esempio di aggressività e determinazione legate a tecnica e forza. La salita richiese agli apritori ben 47 giorni di arrampicata, utilizzando corde fisse, chiodi a espansione e programmando bivacchi intermedi per poter definitivamente domare una parete alta mille metri, e di una difficoltà allora decisamente impossibile da affrontare in arrampicata “libera”[7]. Ora però, quando al puro divertimento e alla dimensione personale si è sovrapposta la competizione, anche in America, dove l’arrampicata era rimasta attività di pochi, incompresi, eletti, l’attenzione del pubblico si volse alle pareti: ‹‹Diversamente che all’Half Dome l’anno prima, quando Robbins aveva aperto la via in silenzio, dopo la scalata della parete di roccia più maestosa d’America, si profila un interesse eccessivo della stampa. Per settimane intere i cronisti dei grandi giornali della Bay Area avevano osservato gli uomini sul Nose. La vittoria viene festeggiata sulle prime pagine dei giornali. L’America possiede nuovamente degli eroi. […]. Questi aspetti non sono molto graditi a molti arrampicatori dello Yosemite, che condannano l’eccessiva pubblicità data al fatto e guardano Harding con sospetto››[8]. Ora c’erano tutti i presupposti per cui le nuove mode, tecniche, filosofie potessero incontrare il terreno fertile d’oltreoceano, e introdurre nuovi valori e significati nell’alpinismo europeo.
La stampa celebra l’impresa: sulla Domenica del Corriere i nomi di Compagnoni e Lacedelli compaiono solo in settembre e sovrastati dall’immagine della bandiera italiana.
Uno degli aspetti che colpì maggiormente gli arrampicatori, di ogni livello, del vecchio continente fu lo spirito con cui i californiani compivano le proprie salite; in Europa, come si è fin qui visto nello svolgersi della tesi, l’”andar per monti” era sempre stato fortemente pervaso da uno spirito fortemente idealista, in cui si estremizzavano in continuazione le situazioni per ricondurle a tematiche conflittuali, politiche o introspettive che fossero. La montagna era vista come grande ostacolo, grande nemica, situazione enormemente svantaggiosa per l’uomo, in cui egli, sopravvivendo duramente, si affermava. Negli Stati Uniti, invece, tutto questo non esisteva. Questo affascinava notevolmente un teorico dell’alpinismo, profondamente a disagio nel sistema di valori tradizionali alpini, come Gian Piero Motti, che per primo nel vecchio continente recepì e tramandò, per vie ufficiali – pubblicava periodicamente sulla Rivista del CAI – le novità provenienti da lontano. Assolutamente inedita, se non per i tentativi, infruttuosi, del mistico Rudatis, si affermò tra i giovani arrampicatori europei la connessione tra filosofie orientali e arrampicata, che in America andava tanto di moda e si credeva formasse una miscela estremamente efficace quando si trattava di spingersi oltre il limite in montagna. In un articolo pubblicato sulla Rivista dell’aprile 1974, Motti, dopo aver entusiasticamente rivelato le innovazioni tecniche che permettevano agli americani di superare le loro enormi pareti con stile impeccabile e in relativa sicurezza, passa a considerare gli aspetti spirituali del fenomeno: ‹‹[…] è significativo come l’alpinismo californiano tragga grande ispirazione dalla filosofia e da alcune discipline orientali, soprattutto dalle zen e da alcuni risvolti dell’induismo, sebbene riveduti e corretti ad uso occidentale. Alla base vi è dunque una forte esigenza di vedere chiaro in se stessi, un’indagine fine e profonda del proprio io che accompagna l’azione propriamente detta. L’azione infine non sarebbe che un mezzo per il raggiungimento di una pace interiore e di una verità superiore o almeno presunta come tale. […] La diretta conseguenza trasferita a livello alpinistico di questi presupposti è un esasperato individualismo [privato di connotazioni negative, N.d.A.] che si manifesta da un lato con atteggiamenti antisociali e dall’altra con la pratica dell’arrampicata solitaria, molto diffusa tra il californiani, intesa non tanto come espressione sportiva e competitiva, ma soprattutto come fenomeno puramente individuale e come ricerca personale di sensazioni non altrimenti raggiungibili››. Oltre alla pratica di meditazione zen ed esercizi di yoga, pare che fosse uso comune, nel famoso Camp IV, il campeggio degli scalatori dentro lo Yosemite park, fare uso di sostanze psicoattive che alterassero la coscienza e facessero percepire all’alpinista sensazioni diverse nel suo rapporto con la roccia. Anche questo interessò Motti, che attirerà una certa indignazione trattando l’argomento marijuana sulle pagine dell’organo ufficiale del CAI, citando direttamente il Rapporto La Guardia[9] per togliere l’aura di negatività all’uso di questa droga[10]. Non si faticherà, quindi, a notare l’impossibilità di sovrapporre un sistema di pensare l’alpinismo di questo tipo al modello europeo, e, di converso, a quanto sia invece adatto a una realtà vergine, ludica, pacifica, introspettiva, sensoriale, come quella americana.
Su Intrepido l’anonimo alpinista saluta l’Italia nel cui nome ha vinto la montagna.
8.4 Nuovi Mattini
Un fenomeno come quello dell’arrampicata californiana trovò terreno fertile tra le nuove generazioni di alpinisti europee, principalmente italiane. Gli anni che videro la prima ribellione di massa nei confronti della tradizione, con i moti esplicitamente generazionali che politicamente e generazionalmente recidevano i ponti con il passato, videro un fenomeno analogo in montagna. Certo non si possono accomunare le cose, bisogna tracciare infiniti distinguo, ma il bisogno di libertà e il rifiuto della tradizione, terminato poi in un’involuzione distruttiva, si trovava tanto nelle strade delle città tanto in montagna. Le obiezioni al paragone sono molteplici, soprattutto da parte di quei montanari che vissero il periodo meno intensamente dal punto di vista filosofico, ma produssero ugualmente risultati, in ambito alpinistico, di tutto rispetto. Si parla però di pretese diverse: proprio per il bisogno di libertà questi nuovi scalatori non si ponevano nel solco dell’alpinismo tradizionale della scalata come dimostrazione e competizione, ma ricercavano un contatto più personale con la montagna e la natura. I luoghi in cui le nuove tendenze si espressero più approfonditamente, lasciando tracce ancora oggi amate dagli arrampicatori, sono sostanzialmente due: la valle dell’Orco in Piemonte e la val di Mello, una laterale della Valtellina.
Già citato come introduttore delle novità americane in Italia, il “guru” iniziatore del movimento piemontese è Gian Piero Motti (1946-1983), che utilizzò sempre quei canali offerti dall’associazionismo alpinistico tradizionale – la Rivista del Club Alpino Italiano – per mettere in discussione le stesse verità dell’alpinismo “storico” e suggerire una strada di evasione e rinnovamento. Una serie di articoli che lo scalatore torinese pubblicò sulla Rivista tra il 1971 e il 1972 segnarono un modo di pensare l’alpinismo: il montanaro non è più l’uomo inflessibile e, diciamo pure, insensibile, che si bea con aria di distacco e superiorità della propria superba attività, ora è capace di riflettere sulla natura umana, sulle proprie debolezze; Motti definì la categoria degli alpinisti di livello, nella quale si inserisce, come composta di “falliti”, monotematici nel pensiero, drogati dalla montagna, schiavi di una passione tramutata in catene. Proprio nell’articolo I Falliti, comparso sulla Rivista del CAI del settembre 1972, il disagio dell’alpinista esplode con una consapevolezza inedita: ‹‹L’importante è allenarsi, sempre e di continuo, avere il culto del proprio fisico e della propria forma, soffrire se non si riesce a mantenere questo splendido stato di cose. […]. Perché ciò che conta è arrampicare sempre al limite delle possibilità, ciò che vale è la difficoltà pura, il tecnicismo, la ricerca esasperata del “sempre più difficile”. Trascinato da questo delirio, non ti accorgi che i tuoi occhi non vedono più, che non percepisci più il mutare delle stagioni, che non senti più le cose come un tempo. Sei null’altro che un professionista; per te l’alpinismo è un lavoro. E così non ti accorgi che uno a uno stai perdendo tutti gli amici […]. Ogni volta che vado ad arrampicare è un tormento, non sono più io, non ho più equilibrio, le mani mi tremano, non ho più coordinazione nei movimenti, ma soprattutto non “vedo” più nulla››[11]. Il disagio sembra soltanto personale, ma saranno i fatti successivi che dimostreranno come sia in realtà molto più generalizzato. A poco a poco sempre più giovani liberi, che rifiutavano, spesso per presa di posizione, qualunque regola di derivazione tradizionale, daranno vita a scuole di pensiero non ufficialmente organizzate, ma con peculiarità coerenti. Prima di tutto sarà il terreno d’espressione stesso dell’alpinismo a essere riconsiderato; la vetta non è più il fine supremo, ma l’obiettivo è la ricerca del benessere, della riconciliazione con sé stessi e con la roccia quale rappresentante della natura stessa. Per compiere questo passo si sceglieranno amene vallate, bagnate da dolci ruscelli, dove l’ambiente naturale e il clima non sono estremi, l’accesso è comodo e relativamente vicino alla città, e, soprattutto, la roccia è della migliore qualità. Caratteristiche naturali che gli americani avevano trovato nella Yosemite valley, e gli italiani in valle dell’Orco e in val di Mello. Il “Nuovo Mattino” in Piemonte e quello dei “Sassisti” in Valtellina saranno movimenti indipendenti l’uno dall’altro, ma dalle caratteristiche molto simili; quello piemontese più politicizzato, più consapevole, forse, della rottura e del conflitto, quello lombardo, dal canto suo, libero e creativo, che abbandonava il conflitto e la lotta sociale e generazionale per annullarsi nella pura azione creativa dell’apertura di vie d’arrampicata.
Le imprese di Bonatti, la conquista del K2 e la diffusione sempre maggiore del benessere rendono l’alpinismo un’attività di massa e “alla moda”, accendendo la passione degli italiani per la montagna.
‹‹[…] sarei molto felice se su queste pareti potesse evolversi sempre maggiormente quella nuova dimensione dell’alpinismo spogliata di eroismo e di gloriuzza da regime, impostato invece su una serena accettazione dei propri limiti, in un’atmosfera gioiosa, con l’intento di trarre, come in un gioco, il massimo piacere possibile da un’attività che finora pareva essere caratterizzata dalla negazione del piacere a vantaggio della sofferenza. Se qualcuno poi dirà che questo non è più alpinismo, di certo non ci sentiremo offesi nel sentirci definiti semplici “arrampicatori” e non “Alpinisti”››[12]. Questa è l’introduzione di cui Motti dotò la prima guida all’arrampicata della valle dell’Orco, da lui stesso redatta, frutto di un lavoro di squadra di giovani torinesi che in quell’ambiente avevano trovato un nuovo terreno di espressione e realizzazione innovative. Con lui, desiderosi di riconquista, si muovevano personaggi come Guido Rossa, famoso in montagna come nelle piazze della protesta torinese, forse l’unico legame diretto tra alpinismo e lotta di piazza. Non si può a questo punto, senza tema di smentita, collegare esplicitamente protesta politica e innovazione alpinistica: ‹‹Torino è stata una delle città dove più forte si è sviluppata la contestazione del Sessantotto, è stato anzi il primo focolaio di rivolta. Ma non esiste un rapporto diretto tra il Sessantotto e il Nuovo Mattino […]: negli ambienti del movimento non ci sono grandi simpatie per l’alpinismo, tra gli esponenti del nuovo corso dell’arrampicata solo alcuni hanno vissuto in prima persona la “lotta di classe” […]. Esiste invece un clima di contestazione che assegna dignità al ribellismo, e in seguito in ogni ambiente ci sarà chi si proporrà di ridiscutere i valori dominanti››[13]. Se nelle piazze non era capito, e apprezzato, chi sprecava energie arrampicandosi incomprensibilmente sulle pareti, nemmeno tra gli scalatori c’era troppa simpatia per la politica combattiva, vista come un ulteriore retaggio del materialismo tradizionale da rifuggire, dimostrando insofferenza anche per il cliché del ribelle anni ’70, non citato direttamente, ma ben visibile nella descrizione che Motti fa di un sé stesso generalizzato: ‹‹Per giustificazione o per meglio mascherare il mio fallimento agli occhi degli altri, mi atteggiai a ribelle nei confronti della società; cercai di entrare nella parte dell’anarchico che disprezza i comuni mortali, che odia la normalità, dell’uomo finito a vent’anni, dalle idee tenebrose e dai lunghi silenzi. E anche nel vestire cercai di adeguarmi al soggetto proposto: barba, capelli lunghi, abiti logori e sdruciti, atteggiamenti molto posati››[14]. Il risultato sarà un esaurimento nervoso, e l’inizio di una nuova epoca.
Attrezzatura da big wall californiana. Si possono notare i blocchetti da incastro di ogni forma e dimensione e i larghi chiodi a “V”.
Il movimento lombardo, come detto, fu molto più spontaneo e libero dalle teorizzazioni, che, semai, vennero successivamente. L’iniziativa venne da un doppio ordine di attori: il cittadino, milanese, Ivan Guerini, e, subito a ruota, i Sassisti di Sondrio. L’origine del nome “Sassisti” venne data dai tradizionalisti del CAI valtellinese a quei giovani che, invece di impiegare le proprie energie e innegabili doti per conquistare le superbe vette della zona si lanciavano, inspiegabilmente, su assolate pareti di fondovalle, per giungere in cima a quelli che definivano “sassi”. In realtà il sassismo è stato di più, iniziato sugli insegnamenti del colto cittadino Guerini, di armonia naturale e pace spirituale, di puro divertimento arrampicatorio che i valligiani recepirono e proseguirono. Esempio più significativo dei nuovi principi fu la via Il risveglio di Kundalini aperta proprio da Guerini e Mario Villa nel 1976 sulle “Dimore degli Dei”, in val di Mello. Già il nome esplica la dimensione spirituale e ludica dell’arrampicata, richiamando quelle filosofie orientali che, così come avevano dotato di esplosiva creatività il movimento californiano si facevano strada, per il solito fascino dell’esotico, anche in Lombardia; la “verginità” alpinistica della valle dava l’opportunità di sbizzarrirsi nel battezzare pareti e vie, e i Sassisti demolirono l’impianto dell’alpinismo tradizionale anche nel senso della toponomastica: placche chiamate con nomi di dinosauri, vie dedicate alla Signora del Tampax saranno dimostrazione di dissacratoria ribellione. Poi l’ambiente d’azione e il tipo di via erano assolutamente inconcepibili per i rocciatori tradizionalisti, Kundalini corre in lungo e in largo sull’intera placconata delle “Dimore degli Dei” alla ricerca dei passaggi più estetici e divertenti, per finire poi nientemeno che… in un bosco! Gli stessi apritori raccontano di aver bivaccato (per salire poche centinaia di metri!) in un boschetto sospeso per ‹‹… meglio assaporare i passaggi, il loro significato, e per conoscere situazioni che probabilmente, se avessimo corso, non avremmo nemmeno considerato››[15]. Da questo punto di partenza la val di Mello divenne il luogo nelle Alpi in cui l’arrampicata si dimostrò nella forma più pura, e dove si esplicarono maggiormente e con maggior successo i conflitti, e le loro risoluzioni, circa l’etica dell’arrampicata. A partire dagli anni Settanta, e dalla rivisitazione nostrana dello stile californiano, quando si considerava ancora l’arrampicata artificiale come un mezzo serenamente accettato per vincere difficoltà troppo elevate, si considerò in seguito che la purezza dello stile e l’armonia totale con la roccia e con la natura si poteva raggiungere non più “ingannando” la montagna ricorrendo a mezzi artificiali per scalarla, e nemmeno rovinandola con l’uso dei chiodi a espansione, inamovibili, e di quelli tradizionali, che deteriorano le fessure in cui sono piantati. La nuova concezione dell’alpinismo era in radicale discontinuità con il passato, la roccia era considerata un terreno delicato e da rispettare, si pensava a preservare inalterato l’ambiente per permettere ai ripetitori di poter godere delle stesse, magnifiche, sensazioni provate dai primi. Il progresso tecnologico interessò quindi le valli “ribelli” molto prima di molte altre zone delle Alpi, introducendo dagli USA quei materiali quali dadi e friend che permettevano la realizzazione di salite clean, realizzate soltanto con l’uso di protezioni rimovibili. Altrove, in Svizzera, come in Francia, dove l’arrampicata rimase da una parte esercizio commerciale e legata al turismo, dall’altra pratica di massa e senza grosse evoluzioni, non ci fu, fino a epoche molto recenti, una dialettica in materia, e le salite venivano realizzate con chiodature molto più invasive. Una sintesi perfetta è nelle parole di Ivan Guerini: ‹‹La mia esperienza nella Valle [val di Mello] non ha rappresentato una “via di fuga” come reazione alle responsabilità e alle insoddisfazioni esistenziali, né un “motivo di contesto” in rapporto ai dissidi sociali che tagliavano l’Italia in quel periodo. […]. Quelle placche da “sogni ad occhi aperti” di un giovane sparuto divennero in pochi mesi i primi percorsi esplorativi su una pietra senza pari, che permetteva una arrampicata libera assolutamente naturale. Quell’arrampicata libera autentica, che in futuro sarebbe stata annientata dai tracciati ad infissi geotecnici permanenti [i chiodi ad espansione, o spit]. Con l’andar del tempo, riconobbi in me una natura da scopritore, e scaturì il percorso conoscitivo che intrapresi non rivolto nostalgicamente al passato, ma rivolto espressamente alla capacità di percepire l’essenza intima della pietra››[16] In val di Mello si iniziò anche la pratica dell’arrampicata di aderenza, per merito del sassista sondriese Antonio Boscacci; questo tipo di arrampicata, condotto prevalentemente in pura placca, senza fessure e asperità dove assicurare chiodi o altri mezzi di protezione, era possibile soltanto se padroni di notevole autocontrollo psicologico e di calzature adatte: si bandirono quindi gli scarponi a punta rigida che avevano portato gli scalatori – almeno tutti gli “occidentalisti” – per decenni di storia dell’alpinismo, per sostituirli (blasfemia!) con morbide scarpe da tennis e poi con scarpette da roccia sempre più perfezionate. Va da sé che un approccio di assoluta serenità e armonia rimaneva fondamentale per questo tipo di arrampicata, probabilmente nessun fiero scalatore del passato avrebbe osato affrontare una via come Nuova dimensione, un settimo grado inferiore, tra i primi in Europa, totalmente in placca improteggibile.[17]
Arrampicata americana in fessura, con protezioni “veloci”, i nut.
9. LA SEZIONE DI MORBEGNO DEL CAI. IL GRANDE, IN PICCOLO
Morbegno è una cittadina che si trova dove la Valtellina, larga ma chiusa vallata stretta tra la catena delle Alpi Retiche e quella delle Alpi Orobie, sta per sfociare nel lago di Como e quindi verso l’area cittadina milanese. Territorio da sempre piuttosto marginale nella storia, non fosse per i passaggi, quasi mai nobili, più spesso di mercanti ed eserciti mercenari, attraverso i suoi alti passi verso la Confederazione elvetica. Si tratta di un luogo particolare, rispetto alla categorizzazione che all’inizio della trattazione si esponeva a proposito di ambienti cittadini e montanari. Non si può considerare come una città di pianura, perché mancante di tutto l’apparato amministrativo e politico, oltre che di istituzioni accademiche e scientifiche, che formavano l’élite cittadina all’inizio del fenomeno alpinismo, corpo e anima della nuova attività. Non si può però nemmeno definire territorio del tutto montano, in quanto dedito, in modo sistematico e accurato, all’artigianato e al commercio dei prodotti delle tante e ricche – di risorse – valli laterali. Un borgo di borghesi, insomma, che nell’età moderna hanno sviluppato professioni tipicamente urbane saldamente ancorate, però, a valori e tradizioni della vita rurale d’alta quota. L’alpinismo era certo conosciuto già attorno alla metà dell’Ottocento in valle, dato che gli alpinisti-esploratori inglesi avevano già individuato nelle montagne valtellinesi, specie del gruppo del Masino, valle immediatamente comunicante con Morbegno, un ottimo terreno di prova e di successo. Il monte Disgrazia venne conquistato nel 1862 dai britannici Edward Shirley Kennedy, Leslie Stephen e Thomas Cox, guidati dalla guida bernese Melchior Anderegg; il pizzo Badile fu salito nel 1867 da William Auguste Brevoort Coolidge con François e Henri Dévouassoud, guide di Chamonix, che l’anno precedente avevano già accompagnato Freshfield e Tuckett sul vicino pizzo Cengalo. Importanti conquistatori delle grandi montagne occidentali che in questa valle trovarono un ottimo banco di prova. Sia i “signori” sia le guide erano quindi, al momento della comparsa, forestieri. Lo stupore della gente di montagna per questi eccentrici benestanti che rischiavano la vita inutilmente si sostituì presto all’intuizione che dalla nuova pratica si poteva ricavare un sostentamento economico, ed ecco quindi comparire, nei primi anni del ‘900, le guide locali, provenienti rigorosamente dai villaggi più vicini alle pareti. Essi accompagnavano, in questo primo momento, non gli indifferenti abitanti del proprio fondovalle, ma nobili di lontani natali, come il conte Francesco Lurani Cernuschi, affezionato frequentatore delle montagne valtellinesi ed instancabile esploratore. La frequentazione dei monti da parte dei valligiani dovette essere ancora successiva, fatti salvi certi pellegrinaggi di devozione sulle cime immediatamente sovrastanti i paesi – sulle quali spesso erano erette croci e strutture votive – che vengono tramandate dalle tradizioni dei singoli villaggi[18].
Per avere notizie di un’attività alpinistica organizzata, e di un certo rilievo per prestigiosità e difficoltà, appunto alpinistiche, delle realizzazioni, in Morbegno, si può risalire soltanto agli anni ’30 del ventesimo secolo, a quando data il verbale di formazione della sezione Bitto[19] del Club Alpino Italiano, quale sezione indipendente dalla più antica formazione di Sondrio. Il Libro delle deliberazioni, rinvenuto negli archivi della sede CAI di Morbegno solo pochi anni fa, riporta i verbali delle assemblee annuali del primo tentativo di dar vita a una sezione CAI operativa a Morbegno, tra il 1931 e il 1943. Manoscritto con calligrafia ricercata e rigorosa, il registro si apre con la formazione del consiglio direttivo, nominando presidente e segretario, con la definizione delle quote sociali, della sede, della biblioteca, del collegio sindacale deputato alle assemblee nazionali. Il legame tra il CAI e il partito fascista, che nel 1931 era facente funzioni dello stato, è evidente nell’intestazione, ma lasciato come discreto formalismo: di prassi sono l’associazione dell’anno progressivo dell’era fascista alle datazioni, i richiami a S. E. on. Manaresi, presidente del CAI centrale, la sottolineatura del nulla osta da parte del segretario politico provinciale e l’abbonamento al Littoriale[20] – come si evince dalle voci del bilancio approvato l’anno successivo -. Il formalismo richiedeva rispetto dei ruoli e dello stato fascista, e non è certo da una sezione montana del CAI che ci si aspetterebbero provocatorie omissioni. Per quanto riguarda i membri, non è giunto a noi l’elenco completo dei soci, ma soltanto quello dei componenti degli organi direttivi; essi sono tutti parte di un ceto medio borghese del commercio e delle professioni, che costituiva, in Morbegno, quello con il maggior peso economico e politico. I titoli associati ai nominativi sono: cavaliere, ragioniere, professore, dottor professore, avvocato; nessun notabile particolarmente facoltoso, ma personalità conosciute e rispettate nella comunità cittadina. Inoltre la quota associativa ordinaria di lire 25 era tutt’altro che popolare, non certo alla portata di tutti, e segno di distinzione borghese era anche la scelta, come sede sociale, del caffè Folcher, di proprietà di un membro attivo dell’associazione e luogo abitualmente frequentato dagli stessi componenti il consiglio. E’ molto difficile, oggi, risalire al credo politico dei morbegnesi di quegli anni, i discendenti sono restii a trattare l’argomento, visto come potenzialmente infamante nei confronti della propria famiglia, quando questi elementi non siano stati apposta dimenticati durante gli sconvolgimenti degli anni della guerra. In una comunità così piccola, dove le persone continuano a vivere gomito a gomito e c’è una conoscenza e un contatto diretto tra tutti, proseguire o riaprire conflitti comodamente sepolti è visto come qualcosa di non utile alla buona convivenza. Si può però compiere qualche azzardo nel campo delle ipotesi, limitandosi a mettere in evidenza i fattori che possono spingere a una determinata interpretazione: nel 1931 il CAI è già, come si è visto, a livello centrale, ufficialmente inquadrato nel sistema delle corporazioni fasciste, e non è di quelle di cui si è costretti a partecipare alle manifestazioni; il controllo del potere centrale è intenso, non si ammetterebbero elementi potenzialmente disturbanti all’interno di un’associazione così funzionale all’andamento della propaganda del regime. Inoltre le persone che dagli atti risultano membri del Club rientrano perfettamente in quella categoria socialmente definita che del fascismo è stata promotrice e più convinta e duratura sostenitrice. Notevole il fatto che un consigliere fondatore era negli stessi anni podestà della cittadina, e che quello che sarà segretario della sezione per tutta la sua durata ne diventerà, nel 1945, commissario prefettizio. Personaggi quindi che avrebbero sicuramente evitato qualunque attività potenzialmente pericolosa politicamente, ma che, al contrario, ne facevano motivo di rivendicazione di dignità e valore civico. Che i sentimenti politici fossero più o meno accesi nei membri del sodalizio è impossibile da dimostrarsi, è però da rimarcare come la libera scelta di formare, ed entrare a far parte, del CAI, in quegli anni, fosse un atto con un certo valore anche politico.
La salita di una big wall richiede una lunga permanenza in parere e grande quantità di materiale.
La vita della sezione morbegnese non è facile, dai verbali delle periodiche riunioni emerge più volte lo sconforto dei pochi partecipanti alle riunioni di fronte alla scarsa partecipazione dei soci alla vita sociale e alla diffusa morosità nel pagamento della quota associativa. Il 23 dicembre 1932 il presidente richiama i soci all’”armonia e al cameratismo”, dimostrando unione e condivisione dello spirito e delle direttive centrali. Nella stessa serata l’associazione si prende carico di una sottoscrizione in assistenza di una guida alpina di Valmàsino la cui casa era andata distrutta in un incendio, dimostrando quel carattere assistenziale che già durante la guerra si era notato nelle sezioni di più vecchia fondazione. Negli anni successivi i resoconti si fanno più radi e stringati, specie ridotti all’elencazione dei bilanci, e si prosegue nel rilevare l’insufficiente partecipazione dei soci alle attività, svolte sempre dalla ‹‹solita mezza dozzina››, i ‹‹migliori›› (sic). Nella riunione del 24 aprile del 1935 si deciderà di non riunire più il consiglio in maniera ufficiale, ma ‹‹alla buona›› (sic), senza redigere i verbali di tutte le riunioni; la relazione finale della stagione alpinistica, però, del novembre dello stesso anno, è tutt’altro che negativa, con un curriculum di ascensioni di tutto rispetto, di cui però non si conoscono da questa fonte tutti i componenti e i loro ruoli. Viene anche inviata alle sede centrale a Roma una missiva di entusiastica relazione dell’attività, in particolare per l’ascensione di ben 13 soci sulla vetta del difficile monte Disgrazia. Per ovviare al significativo calo di soci, dai 55 del 1931 ai 29 – di cui quattro non paganti, in quanto già membri del GUF – del 1936, principalmente per difetti nel pagamento della quota, nell’ottobre di quell’anno si delibererà la creazione di una categoria di soci “aderenti”, la cui quota era fissata a lire 10, pagabile a rate per gli operai, i quali avranno diritto a seguire l’attività alpinistica della sezione, ma non a godere della sede sociale e della biblioteca – che comunque, a giudicare dai verbali precedenti, dovevano essere ben poco frequentate anche dai soci ordinari -. Purtroppo non si conoscono gli effetti di questa iniziativa perché da questo momento non verranno più redatti i verbali, o almeno non sono riportati nell’unica fonte documentaria nota per i fatti di quel periodo della sezione Bitto. Rimane soltanto, affisso in apertura del registro, un verbale di consegna, datato 10 dicembre 1943, degli incartamenti e dei beni della sezione, presi in custodia dall’allora vice-presidente, che segnano con ogni probabilità la fine di questo primo tentativo di associazionismo alpinistico in Morbegno.
Prima ascensione della Fessura della Disperazione in valle dell’Orco
Una sottosezione era rimasta legata al circolo di Sondrio fin dall’anno successivo, ma con scarsissimo seguito e rilevanza, e così rimase fino al 1962, quando si staccò dal capoluogo per ritornare finalmente sezione indipendente. La vita del sodalizio cittadino prosegue da allora in modo regolare, con successi importanti sia dal punto di vista alpinistico ad opera di soci notevoli, con vittorie pure in spedizioni extraeuropee, sia come diffusione sociale, con il periodo d’oro dell’alpinismo giovanile nella seconda metà degli anni ’70 che segnò il momento di massima presenza della sezione nella vita della città. Il CAI nel frattempo aveva naturalmente perso qualunque connotazione politica o classista, e l’unica disputa era tra sciatori e scalatori, che provocò il distacco del gruppo che fonderà il Gruppo Edelweiss Morbegno. Ma queste sono altre storie, con ben altri significati, e portate, rispetto alle tensioni che prima della guerra, e a livello nazionale anche dopo, tenevano l’alpinismo sulla corda. Fatto sta che, forse per una questione di ridondanza dello spirito degli antichi fondatori, il CAI fu sempre, e per certi versi è ancora, l’anima più conservatrice e tradizionalista dell’andare in montagna, anche le notevoli aperture e ammodernamenti che si sono verificati sono sempre avvenuti in ritardo rispetto ai cambiamenti che nella stesso momento l’alpinismo viveva. Furono consiglieri della sezione di Sondrio che, in un congresso che discuteva di come riavvicinare i giovani alla pratica dell’alpinismo, chiamarono, con intenzione spregiativa, i frequentatori delle placche della val di Mello “sassisti”, nome che quei ragazzi fecero proprio con orgoglio e divenne l’appellativo di una pratica ormai quasi “mitica”[21].
10. CONCLUSIONI
Più che conclusioni questo capitolo finale dovrebbe intitolarsi “scuse”. Scuse rivolte verso tutte le persone, e sono tante, che per motivi di spazio e di funzionalità dell’analisi ho omesso di citare o a cui ho dedicato uno spazio infinitesimale rispetto a quello meritato. Interi capitoli, ed epopee, della storia dell’alpinismo sono stati tralasciati, dall’approfondimento sui pionieri inglesi del XIX secolo alle imprese dell’eroe solitario Hermann Buhl, dall’opera fondamentale delle scuole francesi del secondo dopoguerra alle magnifiche imprese di Reinhold Messner sulle montagne himalayane che per molto tempo ancora daranno lustro all’alpinismo italiano. Come anticipato nell’introduzione, il lavoro non ha mai preteso di essere un esaustivo compendio di storia dell’alpinismo, di cui c’è una ricca produzione di cronache, riassunti e anche interessantissime opere letterarie – tutte in bibliografia -, ma un’analisi circa il ruolo dell’alpinismo nella Storia. Un’indagine, cioè, che ha voluto dimostrare come un’attività che può sembrare eccentrica, elitaria, e, perché no, inutile, sia in realtà profondamente intrisa delle necessità e delle contingenze storiche, e contribuisca, a suo modo, alla formazione della società, attraverso la cultura, la politica, l’opinione, la discussione. I personaggi e le situazioni citati sono quelli che ho ravvisato essere più esemplari per dimostrare queste connessioni, e che in ogni modo sono tutti di assoluto rilievo nella storia dell’alpinismo, non solo pratica sportiva, ma attività a tutto tondo dell’uomo. Per lo stesso principio spesso si è tralasciata l’elencazione di nomi e/o di imprese, relegando i casi particolari in secondo piano rispetto al significato, interpretativo, dei casi. Dei personaggi trattati, insomma, si è prediletto il racconto della personalità, del significato da loro attribuito all’alpinismo, del loro rapporto con la società e la politica, piuttosto che l’elencazione di tutte le realizzazioni, limitandosi a quelle più significative, non tralasciabili per dovere di cronaca. Per questo spesso si avrà avuto l’impressione di una “mancanza di rispetto” verso persone e vicende assolutamente meritevoli di una citazione, ma che non sarebbero state del tutto coerenti con le proposizioni del lavoro.
Luna Nascente in val di Mello, tra i migliori esempi dell’arrampicata anni Settanta in Italia.
L’alpinismo, come lo era ieri, è oggi un fenomeno di una complessità non riducibile a un’unica categorizzazione. Se nei primi tempi poteva essere semplicemente considerato come pura salita, ad ogni costo, e in ogni modo, di vette, con l’andar del tempo si differenziò sempre di più, in base a tecniche, obiettivi, luoghi di azione. Nel tempo si è assistito alla perdita di vista dell’obiettivo-vetta, concentrandosi sempre di più sull’azione sportiva in sé. Nei termini pratici, recentemente si è instaurata la pratica dell’alpinismo in luoghi molto lontani dall’immaginario tradizionale, ad esempio in riva al mare – nelle Calanques marsigliesi si sviluppò una classe di arrampicatori estremamente dotati -, oppure su strutture di fondovalle, come nelle trattate val di Mello e valle dell’Orco, o, addirittura, su massi erratici di pochi metri, dando il via alla pratica del “bouldering” – dal nome della località in Colorado dalla quale ha cominciato a diffondersi questo sport -. Ovviamente in un mondo ancora così escludente e tradizionalista come quello dell’alpinismo si faticano ad accettare tendenze innovative, di così profonda rottura, esempio ne è il riferimento spregiativo fatto a suo tempo circa i “Sassisti”. L’auspicio è però che lo spirito di libertà che le nuove generazioni hanno individuato nella montagna, e che la montagna, effettivamente, ad un occhio attento, sa donare, possa divenire preponderante nell’immaginario di ogni alpinista. ‹‹L’alpinismo è una delle più belle manifestazioni Anarchiche che esistano sul pianeta e tale deve rimanere: senza leggi, senza regole, senza imposizioni dall’alto, senza padroni e senza padreterni. I caratteri più belli e genuini dell’alpinismo sono la ricerca appassionata e forse diperata della libertà, l’insofferenza per ogni regola umana e per ogni legge che non sia dettata dalle forze estreme della Natura››. Questo pensiero di Gian Piero Motti – sempre lui, guida affidabile ed appassionata, su una lunghezza d’onda comune con il mio modo di pensare – auspico sia il presente e il futuro dell’alpinismo, regno dell’individualità positiva, dell’introspezione e della vera Libertà.
Gian Piero Motti, il “guru” dell’arrampicata moderna in Italia.
11. BIBLIOGRAFIA, STAMPA PERIODICA, FONTI INEDITE
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Fonti inedite
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L’autore, Carlo Battista Mazzoleni
Note
[1] G.P. Motti, op. cit., p. 583.
[2] en.wikipedia.org/wiki/History_of_the_Yosemite_area, consultato il 15 febbraio 2013.
[3] Reinhard Karl, Yosemite, arrampicare nel paradiso verticale, s.l., Dall’Oglio, 1986, pp. 163-165.
[4] Ivi, pp. 165-167.
[5] G.P. Motti, op. cit., p. 277; en.wikipedia.org/wiki/Yosemite_Decimal_System, consultato il 15 febbraio 2013.
[6] Si noti lo stile più “ludico” dell’arrampicata californiana, quando nemmeno troppi anni prima, sulle Alpi, Hinterstoisser e soci morivano sull’Eiger per aver asportato le corde che rendevano possibile il ritorno.
[7] difficoltà di 5.13 in scala californiana, convertibile in X grado UIAA, 8b francese, riducibile a VI/A3 percorrendo lunghi tratti in complicatissima arrampicata artificiale, come fecero gli apritori.
[8] Awald Weiss in R. Karl, op. cit., p. 171.
[9] it.wikipedia.org/wiki/Rapporto_La_Guardia, cosultato il 16 febbraio 2013.
[10] Gian Piero Motti, a cura di Enrico Camanni, I falliti e altri scritti, Torino, Vivalda, 2000, pp. 177-180.
[11] Ivi, pp. 122-123.
[12] Nanni Villani in: Enrico Camanni (a cura di), Nuovi Mattini, il singolare sessantotto degli alpinisti, Torino, Vivalda, 1998, pp. 79-80.
[13] Ivi, p. 81.
[14] G.P. Motti, op. cit., pp. 128-129.
[15] Giuseppe Miotti in: Enrico Camanni (a cura di), op. cit., p. 87.
[16] Ivan Guerini, Ecco perche scelsi la Valle, in ‹‹Meridiani Montagne, Val di Mello››, Rozzano, Domus, 2012, p. 79. E’ possibile, in queste poche righe, riconoscere tutti gli elementi fondamentali del sistema di pensiero della val di Mello: esclusione della politica e della società, volontà di scoperta e di “terreno vergine”, contestazione della chiodatura invasiva.
[17] Marco Rolando, Formidabili quegli anni, in ‹‹Meridiani Montagne, Val di Mello››, Rozzano, Domus, 2012, pp. 66-97.
[18] Riccardo Marchini, Lodovico Mottarella (a cura di), Album, cent’anni di montagne in bassa Valtellina, Morbegno, CAI sez. di Morbegno, 2002, pp. 19-21.
[19] Dal nome del torrente che bagna la cittadina.
[20] Periodico sportivo fortemente connotato politicamente, che vanta quali fondatori Leandro Arpinati e Alberto Madel.
[21] G. Miotti in: Enrico Camanni (a cura di), Nuovi Mattini, il singolare sessantotto degli alpinisti, Torino, Vivalda, 1998, p. 86.
Forse un’attenta lettura e un preciso riferimento bibliografico alla Rivista della Montagna, di cui Gian Piero Motti fu direttore anziché rifarsi prevalentemente ad opere successive, avrebbe permesso di dare all’analisi maggior spessore e chiarezza. Inizio brillante, poi il testo scade decisamente, diventando caotico ed impreciso
Mi sembrano scolastiche opinioni molto localistiche di lontana storia dell’alpinismo.
Alla fine della lettura si potrebbe esclamare come gli inglesi: l’alpinismo (nostro) è morto, viva l’alpinismo!