Il testo che segue è la relazione che Alessandro Gogna ha tenuto a Sagron Mis, il 28 luglio 2023, in occasione del Festival del Personaggio dell’Anno, in questa edizione dedicato a questo tema.
Musica e Silenzio di Montagna
Con questa mia chiacchierata vorrei esplorare le analogie tra chi è pervaso dall’amore per la montagna e chi da quello per la musica, definendole entrambe passioni passaporto della nostra spiritualità.
La musica
Il vocabolario definisce la musica (dal greco antico μουσική, mousikḗ, «arte delle Muse») l’arte di ideare e produrre, mediante l’uso di strumenti musicali o della voce, successioni strutturate di suoni semplici o complessi, che possono variare per altezza, per intensità e per timbro, organizzati secondo le dimensioni di melodia, armonia e ritmo. È uno degli aspetti culturali universali di tutte le società umane.
Una distinzione di base, comunemente riconosciuta dalla musicologia, è quella tra musica colta, musica tradizionale e popular music, visti come termini generici o macrocategorie che assieme racchiudono tutti i generi musicali.
Con il termine musica colta ci si riferisce principalmente alle musiche di tradizione classica, includendo in questo genere forme musicali sia della musica contemporanea che di quella classica storicizzata. In Occidente la musica colta è caratterizzata dalla tradizione musicale scritta, preservata da forme di notazione musicale.
La musica tradizionale o folclorica è definita dalla trasmissione orale, ovvero viene tramandata attraverso il canto, l’ascolto e talvolta la danza. Essa deriva inoltre da particolari tradizioni, regioni e culture essendone parte integrante.
Con il termine popular music (musica pop) ci si riferisce a tutti quei generi musicali accessibili ad un pubblico generalista e largamente divulgati dai mass media. La popular music si può trovare nelle stazioni radio più commerciali, nei rivenditori più popolari, nei centri commerciali, nelle colonne sonore televisive e di molti film. I brani vengono spesso inseriti in classifiche di vendita, e oltre al cantante, all’autore o al compositore, coinvolge il ruolo del produttore musicale, molto più di quanto non facciano gli altri due macrogeneri.
Pochi anni fa, presso la Geißenklösterle, una grotta situata nel massiccio del Giura, alcuni ricercatori hanno fatto un’importante scoperta. Hanno ritrovato dei flauti realizzati in ossa di volatili e avorio di mammut. La datazione al carbonio ha dimostrato che risalgono a 42.000 – 43.000 anni fa, perciò al tempo in cui l’Homo Sapiens colonizzò l’Europa. Esistono diverse pratiche musicali che possono essere svolte senza ricorrere a uno strumento, tipo quelle delle tribù Sioux e Piedi Neri del giorno d’oggi. Pertanto è plausibile supporre che gli umani facessero musica anche prima dell’invenzione degli strumenti. Così possiamo dire che la musica sia vecchia quanto l’uomo.
Ogni civiltà ha le proprie pratiche musicali, ma è possibile riscontrare alcuni tratti condivisi. La musica è una componente essenziale nella creazione dei miti e nei rituali, e serve a costruire o rafforzare le relazioni sociali. Tutti elementi fondamentali in qualsiasi cultura.
Sin dai tempi antichi, si è creduto che il suono fosse all’origine del mondo, come per esempio nell’armonia delle sfere di Platone.
Platone affermò che, come la ginnastica serviva ad irrobustire il corpo, la musica doveva arricchire l’animo. Attribuiva alla musica una funzione educativa, come la matematica, per arrivare all’obiettivo finale, appunto l’arricchimento dell’animo.
L’induismo è fautore anche di una teologia acustica, che presuppone che il suono abbia origini divine. Gli indigeni d’America e Africa relegano suono e musica in una sorta di mondo dei sogni. Chiunque abbia accesso a tale mondo, e quindi alla musica, possiede dei poteri speciali ed è visto come un guaritore.
Nel secolo XIX in queste vallate sotto il dominio absburgico c’era una grande tradizione musicale, insegnata nelle scuole in modo ben diverso da come si fa oggi.
All’inizio del XX secolo la musica occidentale cambiò profondamente, e fu scossa fin dalle fondamenta. Non solo, ma cambiarono anche, grazie alle invenzioni relativamente recenti della radio e del fonografo, i modi e i tempi di ascolto della musica stessa, prima limitati a concerti in locali appositamente adibiti, come teatri, locali, osterie, club o case private. Iniziò a crearsi un pubblico potenziale più vasto e meno acculturato, che apprezzava strutture melodiche e armoniche più semplici, e mai come in questo periodo storico fu facile, per chi volesse suonare, procurarsi uno strumento e imparare a usarlo.
A questo si deve aggiungere una seconda rivoluzione, anche questa tecnologica: l’invenzione dell’altoparlante e dell’amplificazione audio, che aumentò la possibilità di replica della musica e ne facilitò l’ascolto anche in condizioni non ottimali.
Tutto ciò evidentemente a prezzo di una coralità sociale in via di dispersione: l’aggregazione tra umani, prima praticamente obbligatoria, ora è solo facoltativa, perché ora la musica la si può ascoltare in solitudine con la cuffia.
In una tale situazione diventa sempre più necessaria la partecipazione degli altri esseri umani: vogliamo esattamente l’opposto del distanziamento sociale. Tanto più siamo tormentati dalle musichette di sottofondo degli aeroporti e dei supermercati (che sono i non-luoghi per eccellenza), tanto più desideriamo abbracciarci e ballare insieme a suon di musica, nei grandi concerti oceanici dove è il rock che la fa da padrone, come pure nella vocalità mistica di un coro alpino o nel rigore grandioso di un Teatro alla Scala.
Perché l’uomo, alla fin fine, ha grande bisogno di scoprire la propria spiritualità. Accettando la coralità, in connessione con qualcosa al di là dei nostri limiti, realizziamo di non essere soli. E’ questo il primo passo verso l’abbandono della prigione, a volte dorata a volte no, che il nostro Io personale si è costruito attorno, tendendo perciò alla nostra dimensione spirituale.
Così, musica e spiritualità sembrano essere inestricabilmente legate. E’ vero anche che le stesse esperienze spirituali sono di ispirazione a composizioni ed espressioni musicali spontanee. La musica viene usata nello specifico anche per creare la giusta atmosfera durante le funzioni religiose, la meditazione o i rituali. Ma poiché, appunto, musica e spiritualità sono così fittamente intrecciate, è difficile definirne i limiti. Marcel Cobussen, autore e professore di cultura uditiva presso l’Università di Leida, dice che lo spirituale è uno spazio aperto tra il mondo umano e quello divino. L’autore spiega che la musica ha la funzione di mantenere questo spazio permeabile e afferma persino che, in principio, sia stata la musica stessa a crearlo.
“L’effetto della musica è tanto più potente e penetrante di quello delle altre arti, perché queste esprimono solo l’ombra, mentre essa esprime l’essenza”, dice Arthur Schopenhauer rifacendosi in qualche modo alla teoria delle ombre di Platone. In ogni epoca e ovunque la musica è stata ed è passaporto alla nostra spiritualità.
I toni soffusi e moderati incoraggiano la meditazione. Tuttavia, adatta a questo scopo, non è solo la musica prettamente mistica, come i canti gregoriani o le vibrazioni dei campanelli tibetani. Un’ottima scelta può anche essere la musica classica oppure le composizioni minimaliste moderne, prive di canto ma integrate dai suoni naturali.
Persino il silenzio può suonare come una musica alle nostre orecchie, proprio perché, su questa terra, il silenzio non è mai davvero tale. È stato anche provato che due minuti di pace sono sufficienti per aiutarci a rilassarci profondamente, e per prepararci ad un’intensità maggiore nell’ascolto della musica.
Ma il silenzio ci porta per via direttissima alla montagna, cioè al regno dei grandi silenzi.
Civiltà del silenzio in montagna
Sentieri sempre più frequentati e più coloratamente segnalati da cartelli invasivi; rifugi sempre più presi d’assalto da migliaia e migliaia di camminatori, cime sempre più affollate e prive di solitudine; boschi pattugliati da cercatori di funghi che si fronteggiano a eserciti. È proprio questo il futuro della montagna? Non v’è altro destino per gli appassionati che ritrovarsi in un ambiente in via di “riminizzazione”?
Dalle ceneri di un chiassoso percorrere le Alpi, potrà mai nascere una civiltà del silenzio?
In certi luoghi del mondo (Scandinavia, Rocky Mountains, ecc.), favorita dalle lunghe distanze e dall’assenza di centri abitati o di posti di ricovero e ristoro, la civiltà del silenzio gode da sempre di ottima salute. Nei luoghi molto turistici o molto simili ai non-luoghi della vita cittadina, presto la mancanza di rispetto per quell’ambiente si manifesta nelle sue forme più deteriori: dalla spazzatura agli schiamazzi, dalla cementificazione all’invadente segnaletica che ti vorrebbe sempre su un percorso svuotato di ogni fantasia personale.
L’esperienza del singolo, la fatica dell’escursionista devono essere protette. La gioia di scoprire un panorama con le proprie forze, la creatività dell’immaginare un percorso nostro sono qualificanti per una vera esperienza. Purtroppo oggi anche l’escursionismo e il trekking rischiano di essere mercificati e proposti sotto confezione.
Ridurre gli impianti, limitare la segnaletica, studiare mete alternative ai rifugi più frequentati, pensare che il bosco non deve essere solo il mezzo per riempire i propri sacchetti di funghi, fragole, lamponi e mirtilli: sono alcuni tra i sistemi e le idee necessari per una grande civiltà del silenzio.
Come il pellerossa non lasciava tracce o il montanaro non turbava il suo stesso ambiente, pur trasformandolo, come del pastore sardo si sa che c’è ma non lo si vede mai, così impareremo a muoverci, convinti che l’azione del camminare in silenzio sia la più bella forma di uso del tempo libero e il modo più sicuro per gioire della natura che ci circonda.
Dalla conca di Primiero, ma neppure dall’Agordino, non si può indovinare l’esistenza di un gioiello come la Val delle Moneghe che, per motivi che io personalmente non riesco a capire, avrebbe dovuto essere integrata nel Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi e invece si trova, come del resto lo stesso Sagron Mis, tra quello e la Riserva Naturale di Paneveggio e delle Pale di san Martino. Il Piz de Sagron e le altre montagne del gruppo del Cimonega dominano questa valletta boschiva con lo slancio grigio e selvaggio delle loro rocce dolomitiche. La zona di Sagron Mis è un buon inizio di civiltà del silenzio. Sufficientemente vicina a zone più marcatamente turistiche, ma anche incastonata tra due grandi parchi, è abbastanza isolata e sconosciuta ai più per non subire folle aggressive. Le montagne che si alzano dai valloni dirupati e solitari non si specchiano in alcun lago e non sono quelle grandi cime da tutti celebrate. Eppure le forme sono eleganti, il colore delle rocce contrasta con le ultime abetaie, a volte stagliato nei residui nevai. È la pace l’elemento principe di questo luogo e auguriamoci che così sia ancora per molto.
L’avventura è il lievito della civiltà, anche di quella del silenzio, e i silenzi del Cimònega e dei Piani Eterni ispirano la contemplazione, quella vera, che riposa su tante esperienze vissute. L’inglese Thomas Graham Brown, che per primo vinse il più grandioso versante del Monte Bianco, disse nel suo libro Brenva: “Siamo certo sensibili alle bellezze del paesaggio alpino, ma il piacere della contemplazione è il ricordo predominante della giornata solo quando l’azione non richiede grande impegno all’alpinista, cioè sulle vie facili”. Hermann Buhl, il famoso alpinista tirolese, scrisse nel suo bellissimo libro È buio sul ghiacciaio di aver incontrato, mentre scendeva dal Cervino, un anziano signore che guardava la grande montagna e la sognava a occhi aperti: era evidente il desiderio di salirla, come era chiaro che non avrebbe mai potuto farlo. Buhl si commosse, lui che stava giusto scendendo da lassù, e scrisse: “Chi più di quest’uomo può definirsi vero alpinista?” La realtà è meno romantica: certe cose si possono dire e condividere, poi i fatti le smentiscono, però. Purtroppo nel nostro mondo ciò che è stato realizzato vale di più di ciò che è stato solo sognato. C’è il rischio che la contemplazione pura non sia più cosa nostra: alla fin fine anche l’anziano signore di Buhl desiderava salire la vetta del Cervino…
Civiltà del silenzio dovrebbe essere sinonimo di civiltà del guardare o del non-agire. Guardare e non desiderare è probabilmente di estrema difficoltà, ed è risaputo che si può guardare senza vedere affatto.
Ogni rilievo, fiore, ogni distesa calcarea sono voci della natura in una composizione di sinfonie e liriche che parlano un linguaggio semplice al quale non siamo più abituati. Avviciniamoci in silenzio al Piz de Sagron, anche l’acqua ne scende con rispetto. Ovunque si volga lo sguardo si vedono le cattedrali di un’architettura selvaggia che, giocando tra profondità e altezza, si riflettono direttamente nel dentro di noi, se siamo capaci di stare immobili. Lontano, all’orizzonte, famose montagne si fanno riconoscere senza catturare la completa attenzione. In mezzo, il vuoto di una valle grande e ricca di storia e tradizione, che da quest’altezza stempera la propria complessità umana. L’incanto di questo scenario appare eterno e promette un distacco facile dalle meschinità del mondo. Quest’insolita e sublime immobilità vince la sicurezza del sapere che il quadro è assolutamente variabile, così in un lampo vedo che ci sarà una fine provocata dal disgelo improvviso di tutti i ghiacciai, una fiumana giallastra che travolgerà buoni e cattivi. Poi dentro al cuore mi parla la voce dello spazio, quello spazio che sembrava dovesse per sempre tacere. Si esprime con suoni che ricordano le vibrazioni acquatiche dei delfini, enigmatiche e affascinanti. Sembrano provenire dall’interno delle pareti, dove c’è il nulla della massa rocciosa. È il nulla che ci parla attraverso la nostra buona disposizione. Se di fronte ad un oggetto prezioso è normale desiderare di possederlo, di fronte al Piz di Sagron ogni tentativo di averlo è vano e lo sappiamo bene. Sta a noi accontentarci del bel ricordo, dell’attimo felice vissuto, e custodire il nostro piccolo segreto di beatitudine con noi, per sempre. Le civiltà nascono dagli individui che cambiano, anche quella del silenzio.
Racchiuso in un grande scrigno di creste e vette poco note, il comprensorio del Cimònega mi sembra quasi un mondo a parte, una sorta di valle perduta dove poter ritrovare sensazioni perdute. Scavalcato il Passo del Comedòn, si presenta uno scenario inatteso. Si mette da parte la vista, che fino ad allora ci ha accompagnato, verso le tante vette delle Pale di san Martino: quello che ora attira è il gioco di vallette e valloni che sembrano creare un grande labirinto di pietra. E la fantasia corre subito lungo rughe e placche percorrendo decine di vie. Di certo ci sono molti altri luoghi delle Alpi esplorati superficialmente dove ancora molto resta da fare: molti ne conosco, altri ne conoscerò, ma credo che le rupi del Cimònega abbiano dato il via libera al fiume della mia fantasia. Mai come in questi luoghi ho avvertito la promessa d’avventura che proveniva da pareti e spigoli, il cui avvicinamento stesso in alcuni casi sembrava complicato e difficile.
È un piccolo mondo quasi ignoto, non ci sono grandi pareti e “ultimi problemi”, anzi sembra qui di sfuggire più che altrove al parossismo che ammorba il circo dell’alpinismo di punta. Sembra qui di poter avere quello che Reinhard Karl chiamava Zeit zum Atmen, il “tempo per respirare”: un gesto proprio, costruito da noi, vissuto da noi e solo per noi, al sicuro dentro allo scrigno del Cimònega.
Partiamo dalla considerazione che probabilmente il camminare in silenzio sia la forma più semplice e diretta di immersione nel mondo naturale della montagna. Alpinismo e arrampicata sono state le prime attività che hanno confuso l’immersione nella natura con le vittorie sportive che possiamo ottenere sulla natura stessa. L’ultima nata di queste nuove discipline è la corsa in montagna. Il trail running è criticato solo perché è l’ultimo arrivato. Per fortuna chi corre in montagna non si accorge neppure di essere criticato: perché chi la pensa in maniera contraria appartiene ad associazioni o ambienti molto tradizionali, ben distanti da un nuovo mondo sportivo che, appunto, corre e non è interessato ai commenti di chi sta fermo. Gli esponenti del pensiero classico vedono nella corsa un gioco che non permette a chi lo pratica d’essere in comunione con la montagna perché, se si corre, la montagna non può che essere un sottofondo. Chi ha occhio solo per il cronometro non può averlo per la “sacralità” della montagna, che dunque viene svilita e fatta oggetto delle loro ambizioni.
Chi la pensa in questo modo sono alpinisti, o escursionisti che, a mio parere, dovrebbero prima di tutto farsi un bell’esame di coscienza.
Quando criticano, perché non si rendono conto di aver scelto semplicemente un altro tipo di giocattolo? Sci e pelli al posto di scarpette da ginnastica; piccozze e ramponi al posto dei calzoncini; corde e chiodi al posto del cronometro. Chi fa ferrate, non vede che si diletta con un giocattolo? Chi fa arrampicata sportiva? Chi fa canyoning, mountain bike? Chi scende in pista, ma anche fuoripista? Perché, dunque, essere contrari all’ultimo giocattolo se le motivazioni sono le stesse? Basta semplicemente accettare che ci sono due-dieci-cento giocattoli diversi. Per giustificare il proprio giudizio il conservatore condanna la competizione, che secondo lui è negativa, aberrante. Eppure l’alpinismo si è affermato su una lunga serie di competizioni, dalla conquista del Cervino alla corsa alle Jorasses, dalle Nord delle Lavaredo al Nanga Parbat, fino alle discussioni sul Cerro Torre. E nessuno oggi critica più nulla di tutto ciò.
Torniamo quindi al caso più semplice, l’uomo che, seduto su un masso, contempla la maestosità degli alti mondi che lo circondano. Quest’immagine è l’unità di misura della nostra unione con il verticale e fa parte di un immaginario più orientale che occidentale. E’ più facile che sia tutt’uno con il creato il monaco tibetano sull’esempio di Milarepa, che non un normale cittadino che vuole divertirsi in mezzo agli scenari che la montagna gli offre. A parole nessuno discute quest’unione ideale, resa possibile solo dalla non-azione, quindi dalla non-volontà di conquista. A parole tendiamo tutti a questa condizione umana, il ritorno all’unità uomo-montagna, merce assai rara dopo la rivoluzione romantica e la divisione tra Io e Natura. Ma, a fatti, tutti loro, tranne l’uomo seduto sul masso, hanno scelto un giocattolo con il quale “conquistare” la montagna. Il giocattolo presuppone ci sia un gioco. La tensione verso l’idea che abbiamo della montagna è amplificata, moltiplicata grazie al gioco. Ma non c’è unione reale. Quando mi metto a camminare, a meno che non faccia davvero come i camosci che camminano solo per pascolare, è perché ho una meta. Se la raggiungo, ho vinto la mia piccola sfida con me stesso, se non la raggiungo la perdo. Vincendo ho l’illusione della mia riunione con la montagna e della pace interiore, salvo poi accorgermi che questo comunque non succede mai, dunque mi cerco un’altra sfida. Stesso gioco amplificato per l’alpinismo, dove mi sottometto a un sacco di regole, e dove rispetto un’etica. Ci può essere un fair play che la fa da padrone, oppure la mentalità della conquista ad ogni costo: ma in ogni caso la riunione con la montagna è molto lontana. Più l’alpinismo è estremo, più la conquista la fa da padrona e quindi più ci si allontana dallo scopo iniziale.
Probabilmente solo all’uomo seduto sul masso, nel silenzio della montagna, è concesso il passaporto per la spiritualità.
Conclusioni
La ricerca della spiritualità non si limita alla percezione del singolo né a un solo attimo. Costituisce una vita interiore in noi, oltre i limiti individuali.
La spiritualità è una connessione con se stessi, ma anche con gli esseri umani vicini e con il mondo.
In questa ricerca è essenziale essere presenti l’uno per l’altro e donare tutta la nostra attenzione, soprattutto a ciò che ci è più sgradito.
Musica e silenzio predispongono all’ascolto. Il trovarsi con altri ad ascoltare favorisce l’ascolto reciproco, dunque con l’ascolto si profila anche l’accoglienza, specie dei contenuti che riteniamo negativi e che di solito attribuiamo agli altri: ma che sono prima di tutto nostri, anche se da noi non riconosciuti.
La ricerca della spiritualità interiore racchiude il potenziale per la libertà interiore. Se la pratichiamo correttamente e in maniera sincera, saprà aiutarci a fuggire dal nostro ego. E la musica e il silenzio della montagna avranno assolto al loro compito più importante.
18
La musica piú bella in montagna è questa: il silenzio.
Claudio Barbier sognava di arrampicare solo sulla nordovest del Civetta con i Rolling Stones in concerto alla base.
Ognuno ha i suoi gusti.
(Per fortuna)
Le considerazioni più interessanti le leggo, in questo articolo, sull’alpinismo e sull’andare per monti, differenti dalle solite considerazioni che da più di un secolo circa non fanno che affermare la superiorità dell’alpinismo come pratica di frequentazione della montagna.
E personalmente è la prima volta che leggo cose simili scritte in maniera così diretta da un alpinista famoso (ed apparentemente sincrono al concetto di “conquista” e conseguente storicizzazione dello stesso). Tra il tempo per respirare ed il passaporto per la spiritualità si trovano alcune riflessioni che potrebbero ridefinire l’alpinismo stesso, collocandolo (finalmente) in un’istanza atemporale e muta, e privandolo di quella connotazione arrogante che da sempre rappresenta per (quasi) tutti il suo fulcro centrale: un sipario della vanità. Per questo motivo ho apprezzato moltissimo queste parti dello scritto e ringrazio di cuore l’autore: guardare dentro e non fuori è il primo passo importante per apprezzare l’affinità e non il contrasto.
Secondo me ognuno dovrebbe poter trovare in montagna la sua pratica privata consapevole della strutturale propensione della montagna a creare isolamento e silenzio. Il suono in montagna ha un limite evidente: quasi nulla di ciò che suona torna indietro all’esecutore, e se lo fa, è terribile. Ogni esecutore, in montagna, è in genere solo con il suo strumento e quasi sempre senza un suono, e per comunicare gli è richiesto molto di più; nel contempo chi riceve deve avere una capacità introspettiva maggiore che in qualsiasi altro luogo, pronto a cogliere l’essenza privata di chi comunica musica. Produrre e ricevere musica è molto più difficile in montagna, e, forse, questo suggerisce che la montagna separa, più che unire, e conduce ad un cammino più privato che pubblico. Lontano dalla verticalità la comunicazione sonora è più semplice e, forse, è più facile incontrarsi pubblicamente, e socializzare, in maniera meno silenziosa.
Io credo che ascoltare un singolo strumento in montagna sia possibile, bellissimo, privato, ma difficile; ascolare un ensemble strumentale sia impossibile.
A Lazzaro… arzate e camina!
Direbbe er centurione.
Migheli for president.
Scusi Lazzaro, ma lei cosa vorrebbe da “noi”? Avrà ben notato (e spero apprezzato) la polifonia di voci e idee emerse giá solo in una ventina di messaggi, che spaziano dalla relazione suono/silenzio alle modalità riflessive di rapportarsi all’ambiente alpino e ai tempi di degustazione dello stesso. Magari le sarà sembrata una cacofonia, ma questo è ciò che possono offrirle persone che da anni hanno una relazione non semplicemente estetica con le alte terre. Se non rispondiamo alle sue aspettative ci dispiace, ma credo che nessuno di coloro che hanno scritto qui baratterebbe le proprie idee per la visione “sinestesica” del rapporto musica-montagna, che ha evidentemente spinto lei e coloro che la pensano come lei a promuovere iniziative che nella migliore delle ipotesi potrebbero essere definite “poco appropriate” da coloro che scrivono su questo blog. E le assicuro che qua dentro ci si “scanna” su quasi ogni argomento.Per completezza, chi le scrive frequenta conservatori e teatri musicali da cinquanta anni. E ritiene che quello sia il luogo appropriato per ascoltare musica e insegnare l’ascolto della medesima.
Ragazzi, smettetela di “guardarvi l’ombelico” e provate a strizzare dal vostro cervello qualche buona riflessione, altrimenti non pubblicheremo un “picchio” delle vostre arzigogolate “pensate”. Coraggio, che ce la fate!
8.000.000.000 e passa, qualcuno che la pensa come te lo trovi sempre.
Credo che il godersi ciò che si ha intorno non dipenda affatto dalla velocità.
Se serve lo copio anche un’altra volta, eh.
Ciao Marcello,
un po’ di anni fa lungo l’UTLO (Ultra Trail del Lago d’Orta) ho corso una ventina di km con un amico che teneva i miei stessi ritmi, con il quale ogni tanto ci fermavamo a fare foto. Purtroppo, a un certo punto, lui ha cominciato ad avvertire dolori articolari tali da non permettergli di continuare, quindi ci siamo separati. Da lì in avanti, bella riposata, ho cominciato a correre bene (tanto che qualcuno ha pure insinuato che mi fossi presa qualcosa) classificandomi al decimo posto tra le donne, a un quarto d’ora da un’altra siciliana che, insieme a me, sull’isola arrivava sempre fra le prime.
Non metterei limiti ed etichette: avulsa da strumentazioni e tempi, ho sempre corso le gare come mi andava. Spesso ho pure accompagnato gente che correva molto piano, anche per esercizio interiore personale.
Lento & Veloce. Questione inesistente. Io pratico entrambe come tanti, anche se sulla seconda sono in stand by in questo periodo e mi manca, molto mi manca, ma cerco di essere ottimista. Sono sensazioni, esperienze, stati d’animo diversi. A volta senti il bisogno di uno o volte dell’altro. Magari anche in funzione della tua vita interna o esterna. Tutto qui. Lo stesso per solitudine/compagnia, musica/silenzio…
Regattin non m’invento nulla, il mio è un ragionamento generale, rivolto a tutti: alpinisti, escursionisti, arrampicatori. Non mi riferisco solo ai runner verso il quali non ho nulla. Se ti piace correre in montagna libero di farlo, è un’attività come un’altra. E’ pacifico che sei vai a correre devi correre. Ho solo detto che a me la montagna mi piace viverla in modo lento.
“Ma perchè dovresti venir via prima possibile da un luogo che hai a lungo desiderato?”
Ma perché vi inventate conclusioni fuori dalla realtà? Ma ti pare che uno che programma un giro di 40 km in montagna abbia voglia di tornare a casa prima possibile?
Per quanto mi riguarda ti assicuro che quando arrivo giù al parcheggio, a volte con la frontale perché mi fermo a guardare il tramonto più in sù, la mia è l’ultima macchina rimasta, altro che venire via prima possibile! E posso assicurarti che c’è una grande quantità di runner che proseguono anche nella notte.
Benassi. Bella. Diciamo che è portatore di un’etica kantiana “assistita” dalla paura della punizione. Vattimo era un uomo di altri tempi, di un’epoca analogica, come molti di noi, dove non c’era un’AI alla quale chiedere lumi sui dilemmi etici e sui conflitti, piccoli e grandi.
Magari in Germania il crucco maledetto non lo farebbe. Qui in Italia invece se lo permette.
Quindi sarebbe bene farglielo presente e senza tanta gentilezza.
Oggi, spesso, ai semafori ci sono le telecamere.
Lento v/s Veloce, Musica v/s Silenzio…..Alla fin fine tutto ciò che facciamo serve a procurarci stati d’animo che ci danno soddisfazione: il silenzio, ascoltare musica classica, ascoltare musica rock a tutto volume, andare da soli, andare in compagnia, andare di corsa concentrati sul percorso e sulla tensione dello sforzo, andare lenti lasciando vagare il pensiero, arrampicare slegati con l’adrenalina al massimo…..Poi succede che trasformiamo le nostre preferenze personali in principi generali ai quali anche gli altri dovrebbero adeguarsi. In realtà alla base c’è sempre il problema classico dell’equilibro, della mediazione, della convivenza tra il mio piacere, il fare ciò che a me procura stati d’animo piacevoli e il piacere degli altri. Problema antico che si ripete ogni giorno in montagna, al mare,in città….nella vita quotidiana. Fatti salvi alcuni principi base, senza i quali la vita sociale sarebbe impossibile, un atteggiamento eccessivamente giudicante e unilaterale rende difficile la convivenza e spesso apre la strada all’isolamento entro il gruppo che condivide le proprie preferenze (il club, la setta, il partito…) o all’atteggiamento persecutivo verso i portatori di sistemi di preferenze diversi bollati sul piano etico, estetico, sociale…La questione sul piano pratico non è sempre facile da risolvere: ad esempio è manifestazione di tolleranza pubblicare testi neo nazisti come è avvenuto oggi sul blog con l’intento di provocare la riflessione critica? È tolleranza accettare senza inveire che un crucco maledetto giri con la sua moto rumorosa e puzzolente senza targa su un sentiero intorno a una montagna storica del Parco dell’Aveto come successo a me settimana scorsa? Certo è complesso ma se si hanno alcuni principi base di riferimento, piccoli ma solidi, Minima Moralia, si può trovare una risposta e la mia personale risposta nei due casi è NO. Gianni Vattimo, morto ieri, intellettuale e uomo controverso ma spiritoso e intelligente, ex alpinista in gioventù, così spiegava l’etica kantiana: se alle tre di notte un automobilista si ferma al semaforo rosso in una città deserta o è un fesso o un kantiano.
18) Vero in parte. C’è chi va piano perchè non riesce ad essere veloce, vorrebbe ma è un suo limite. C’è chi va piano per scelta, perchè gli piace andare lento. Poi essere veloci in certe situazioni è di sicuro sinonimo di sicurezza. Ma se vai di corsa non credo che tu possa guardarti bene intorno perchè devi guardare bene dove metti i piedi. Sicuramente apparteniamo ad una società che vive tutti i giorni di corsa. Ma perchè dovresti venir via prima possibile da un luogo che hai a lungo desiderato?
Sempre pensato (e notato) che chi va piano e dice che così si gode il panorama è perché non riesce ad andare più veloce.
Credo che il godersi ciò che si ha intorno non dipenda affatto dalla velocità.
Avendo letto con attenzione tutti e 16 i commenti mi viene questa idea: quasi quasi pubblichiamo, ad uso e consumo di una platea ancora più allargata e “generalista”, il testo di Alessandro Gogna (assolutamente eccellente) con, in appendice, tutti i vostri commenti finali (buoni o brutti che siano). Che ve ne pare? Da Sagron Mis (TN), con sincera amicizia.
Complimenti ad Alessandro per gli infiniti spunti di riflessione.
Penso che la maggior parte dei runner lo faccia con il cronometro in mano, sia in città che in montagna, ma non mi sembra che tutti inquinino.
E so anche, perché sono tra loro, che si può correre diventando tutt’uno con ciò che solo in apparenza ci circonda. È stato per questo – come sostiene Dolores LaChapelle per la ne neve sciando – che ho sempre ottenuto buoni risultati: corro dentro di me.
imvito gli ospiti che guido a respirare un paesaggio prima di mettersi a scattare foto, di depositare i loro problemi e preoccupazioni ai margini del bosco, a seminare i loro desideri, a essere presenti lungo il cammino, a colliquiare con le piante.
Riva. Affascinante questa tua fantasia delle Scheissebergen. Possente direi. Una rivisitazione della Zauberberg. Nolan potrebbe farci uno dei suoi monster movie “distopici”: 14 ore, un’ora per ogni montagna. Oppure potrebbe essere il seguito, o meglio il sequel, delle cognettiane 8 montagne. Tuttavia la competizione non sarebbe, a mio modesto parere, l’unica emozione umana che verrebbe attivata da un tale straordinario spettacolo. Dato l’elevato valore simbolico della materia prima, uno dei più significativi prodotti della nostra specie, come ben sappiamo e sperimentiamo tutti in una fase della nostra infanzia, io ipotizzerei una gamma più vasta di emozioni individuali e sociali catalizzate da una catena montuosa di tal genere, così come avviene per le montagne di sassi. Dalla ricerca proustiana del tempo perduto (sul vasino) al sogno di una enorme concimazione naturale del mondo in opposizione ai concimi chimici e a Big Pharma….merita una riflessione e un approfondimento.
Sono convinto che se tutti i produttori di attrezzature e strutture che in un modo o nell’altro hanno a che fare con la lotta con l’Alpe e il divertimento in montagna costruissero una catena di 14 montagne alte 9.000 metri usando la merda, una diversa e più puzzolente dell’altra, si scatenerebbe il finimondo per aggiudicarsi la prima salita in tutte le salse di quelle cime, anche senza l’ausilio dell’ossigeno supplementare.
Per gran parte della sua evoluzione la nostra specie ha considerato le alte montagne “inutili” e le ha lasciate in pace. Poi è scattato qualcosa e abbiamo cominciato a considerarle “utili” per farci qualcosa che a noi procurava piaceri di vario genere, fisici o mentali. In quel momento è cominciato un processo che difficilmente si potrà fermare. Le montagne sono diventare un luogo, un ambiente, uno scenario per il nostro diletto, compreso il mettersi in gioco che a molti umani procura emozioni forti. Ieri su FB ho visto la foto di due che dopo la cerimonia sono saliti su una cima, si sono messi in abito da sposi e si sono fotografati con un meraviglioso scenario sullo sfondo. Hanno voluto amplificare le loro emozioni di quel giorno. La chiesa e il ristorante non bastavano ci voleva qualcosa di più forte. Magari la prossima volta si portano anche un violino o una tromba per suonare la loro canzone preferita e realizzare un filmino che guarderanno per tutta la vita facendolo vedere a figli e nipoti. E la lacrimuccia scendera’ furtiva. Commovente. Poi ovviamente sono scattate le distinzioni e le divisioni: questo va bene da fare in montagna, questo non va bene, questo è invasivo, questo no, questo è bello e questo è brutto…e lì allora andiamo a sbattere nel variare individuale, storico, sociale e temporale dei gusti e dei valori. Anche la questione della musica in montagna o dell’arte in montagna rientra in questa discussione. Per qualcuno è invasiva e ridondante, per altri un’ambientazione che accresce il sublime e la bellezza. Io per gusto personale sarei per un minimalismo da ospiti educati che cercano di non farsi troppo notare e di non lasciare troppe tracce ma mi rendo conto che fissare dei limiti e dire dei no assoluti (a parte le follie più evidenti) è un compito arduo e controverso. Beato chi ha granitiche certezze ed è ben sicuro nel distinguere i buoni e i cattivi (in montagna s’intende).
En montagne, j’aime me laisser bercer par les bruits naturels de la montagne,
non pas par ceux générés par les hommes.
7. Ancora una cosa: l’ignoranza, sappilo, si può combattere, ma dev’esserci un minimo di desiderio alla base, pena il rimanerci impaludati.
7. Pensa un po’, io invece ci vado di corsa per rimanere il più possibile in cima o nei luoghi più belli e panoramici, mentre voi escursionisti dopo 5 minuti dovete già scendere.
9. Conosco molti escursionisti, credo la maggior parte, che quando camminano pensano esclusivamente alla cima da raggiungere (più precisamente alla croce) e molto raramente conoscono qualcosa dell’ambiente che stanno attraversando. Tanto è vero che le foto che postano sui social sono dei ponti tibetani e delle ferrate, elementi estranei all’ambiente. Quindi? Vogliamo stilare classifiche di chi è più attento all’ambiente? Ma farsi i cazzi propri è così difficile?
Non capisco come si faccia a correre in montagna tenendo anche l’occhio all’ambiente. Forse prima di partire o dopo aver raggiunto il traguardo, ma durante non mi sembra possibile.
Per correre in montagna, credo che il primo impegno, prima ancora del cronometro, sia dove si mettono i piedi: la montagna non è una pista di atletica.
Mai piaciuto andare di corsa in montagna. Come diceva Armando Aste: “sono un alpinista lento”.
@ Regattin al 6. A quelli che in montagna vanno di corsa, in tutte le salse, la montagna gli piace così tanto che fanno di tutto per restarci il meno possibile. Questi inquinano, e di brutto!
Analisi condivisibile, vorrei solo tentare di correggere questa idea che chi corre in montagna lo fa con l’occhio al cronometro e non all’ambiente che attraversa. Si corre fondamentalmente perché è bello farlo (poi ognuno avrà altre sue personali motivazioni), il cronometro vale quanto l’orologio per gli escursionisti che su fb scrivono sempre i tempi impiegati nelle loro escursioni. Dopodiché ovvio che chi fa gare, per vincerle o arrivare nei primi posti il cronometro deve guardarlo, ma ciò non scalfisce minimamente la sua esperienza personale di passione per la montagna.
Musica in quota ai rifugi e per farla portano su i musicisti e relativi strumenti con l’elicottero.
Che moda del menga.
Le Dolomiti Feltrine sono musicali di suo. Non ne hanno bisogno.
Purtroppo molte persone mi odiano, perché ho sempre contestato LA MUSICA IN QUOTA. Ormai, non c’è montagna che non realizza UN EVENTO, dove migliaia di persone non preparate, percorrono e sporcano i sentieri. E poi? I DECIBEL DI STRUMENTI RUMOROSI, (NON MANCA LA GRANCASSA). GLI STRUMENTI NON DANNO FASTIDIO ALLA FLORA E FAUNA SELVATICA? Ho sempre fatto questo esempio, se… durante il riposo notturno degli organizzatori, qualcuno ascolta la radio ad alto volume, oppure ricevono scampanelli, o.… altri rumori fastidiosi, come reagirebbero? C’è un noto cantante, che si professa ambientalista, che da anni propone raduni al mare ed in montagna, con migliaia di spettatori. Addirittura una conosciuta associazione ambientalista, giustifica questi rumori, perché questi luoghi sono antropizzati. Infatti la fauna selvatica sta invadendo le città perché non riconoscono più il loro territorio. Certamente i gestori dei rifugi dove si svolge questo casino, guadagnano più soldi. Ma non è accettabile. Intanto il pianeta si sta ribellando…
Complimenti Alessandro… l’uomo seduto sul masso mi ha ricordato la lezione del Bruno (Detassis, ovviamente), quando diceva: “quando né a rampegar, se non sé bon de fermarve, vardar e dir ‘ostia che bel!’, l’è mej che sté a casa”.
Queste riflessioni fanno riaffiorare dal nostro inconscio il Romanticismo.
Caspar David Friedrich Wanderer über dem nebelmeer
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Trovo che la musica stia bene negli stadi e nelle sale da concerto. In montagna, qualunque essa sia, anche no. Per la val delle Monaghe….non più di sessant’anni fa si sentiva rumore deforestazione e di attività mineraria. Lodevole i cartelli multicolori del sentiero INTRECCI del TEMPO, propedeutici ad una educativa rinaturalizzazione e quindi inserimento nel parco