Fiorenzo Michelin è morto il 31 agosto 2023, per un incidente mentre da solo stava facendo manutenzione a una sua via sul Fungo, uno dei torrioni alti ed impervi della Rocca Sbarua, tra lo storico Sperone Cinquetti e i bastioni ancora più a monte del Nonno e della Nonna.
A dare l’allarme sono stati i familiari, che non lo avevano visto rientrare. Sono partite subito le ricerche, affidate ai volontari del Soccorso alpino e ai vigili del fuoco del reparto volo del comando provinciale dei vigili del fuoco: intorno alle 18.30 l’elicottero “Drago 66” si è alzato in volo da Caselle ed è partito per la zona di Rocca Sbarua, dove nel giro di qualche minuto è stato individuato il corpo di Michelin. I soccorritori si sono calati con il verricello e purtroppo ne hanno constatato il decesso: a quel punto, appena ricevuta l’autorizzazione dalla Procura di Torino, hanno recuperato la salma e l’hanno caricata sull’elicottero e portata alla camera mortuaria del cimitero di Pinerolo. Tra coloro che hanno preso parte all’intervento di recupero c’è stato anche Silvio Farinetti, il gestore di Casa Canada, il rifugio che è alla base della Sbarua.
Non era evidente se il decesso fosse avvenuto a causa di un malore o se si fosse trattato di una caduta. Poi è apparso chiaro che Michelin è stato vittima di un incidente in discesa a corda doppia, visto che aveva solo una corda nel prusik di auto-assicurazione e nel discensore. L’altra, per qualche motivo, si era sfilata.
La figura di Michelin la scorsa primavera aveva giganteggiato nelle colonne di GognaBlog, con la pubblicazione di Fiorenzo Michelin (17 maggio 2023) e di Una giornata perfetta (24 maggio 2023), cui si rimanda.
Fiorenzo ha lasciato la moglie Eva Depetris e la figlia Elisa. Nel Piemonte occidentale Michelin era un mito vivente, benvoluto da tutti: alla funzione valdese del 6 settembre 2023 a Pinerolo il tempio era pieno di arrampicatori commossi e silenziosi. A ottobre è prevista una cerimonia al Bourcet.
Intervista a Fiorenzo Michelin (Profili-02)
di Elio Bonfanti
Eravamo agli inizi degli anni ‘90 ed in quel periodo dovendomi crescere i figli da solo avevo arrestato la mia attività in montagna. Non per questo però avevo smesso di interessarmi all’argomento e un amico, riferendomi in termini entusiastici di una sua ripetizione sulla parete del Bourcet in val Chisone, mi parlò dell’apritore di quella via. Conoscevo il posto, ma quella parete non mi aveva mai attirato. Anzi mi dava una sensazione di precarietà: insomma mi sembrava una pila di piatti pronta a venir giù.
Su quella parete chi mai poteva essersi sobbarcato un lavoro di pulizia e consolidamento tale da entusiasmare questo amico arrampicatore dal palato abbastanza esigente? Fu lì che sentii nominare una delle prime volte il nome di Fiorenzo Michelin, in arte Fiurens o Michelin (rigorosamente pronunciato alla francese).
Si tratta di un personaggio che negli anni successivi, nelle valli piemontesi e segnatamente nella val Chisone e Pellice, ha lasciato un segno indelebile del suo passaggio. Ebbi modo di conoscerlo di persona al rifugio Selleries in occasione di un ritrovo di tutti gli apritori (quelli vivi…) delle vie sulla parete della Cristalliera e da allora, avendo oramai ripreso ad arrampicare, mi sono trovato molte volte a fare i conti con i bollini blu che sono diventati il segno distintivo del suo lavoro, quasi un “Sigillo di garanzia“.
Sì, davvero un marchio di fabbrica che con un continuo e meticoloso lavoro di ricerca, di pulizia e di attrezzatura ha fatto sì che centinaia di nuovi itinerari che nessuno aveva mai visto ma che erano lì, nascosti dalla vegetazione o dal muschio, venissero alla luce per farci divertire.
Alcuni giorni orsono Fiurens ci ha accompagnati a ripetere una via abbandonata da anni che lui con pazienza certosina aveva ripulito e richiodato: si trattava della via, aperta nel 1980 da Gabriele Beuchod e Roberto Bonelli, Lamponi Profumati allo Sbalzo del Vandalino. Andate a ripeterla magari combinandola con una via sulla parete di Embergeria che è proprio di fronte. L’ambiente è garantito.
Raccontami un po’ di te e della tua vita al di là della montagna.
Sono nato a Villar Pellice il 26 dicembre 1948, sono sposato, ho una figlia e con mia moglie ho scalato per lungo tempo sino a quando sono riuscito a stufarla. Ho studiato da perito chimico e lavorato in un laboratorio di controllo della Fiat. Dal 2004 sono in pensione e così ho potuto dedicarmi a tempo pieno alle mie passioni.
Quando hai iniziato ad andare in montagna?
Ho iniziato ad andare in montagna verso la fine degli anni ‘60 percorrendo le vie normali delle montagne della Val Pellice e poi, con un mio amico, abbiamo iniziato a muovere i primi passi sulla roccia incuriositi dalle notizie delle imprese di Walter Bonatti.
Lo facevamo con tecniche rudimentali inventate da noi e senza farlo sapere a nessuno, perché la cosa non era per niente ben vista dai nostri genitori ed era fuori dalla mentalità della gente del posto.
Ci legavamo in vita con una corda di canapa infilandovi prima alcuni chiodi perché non avevamo dei moschettoni; così li piantavamo con la corda già infilata!
E la sicura?
La sicura ovviamente si faceva “a spalla”. Poi, per fortuna, quando ho iniziato a lavorare alla Fiat di Rivalta nel 1970, ho conosciuto un paio di colleghi che praticavano l’alpinismo già da un po’ di anni, e cosi, andando con loro, ho cominciato a farmi una certa esperienza.
La tua attività si è limitata alle Alpi Occidentali o hai spaziato su tutto l’arco alpino?
Nei decenni successivi ho poi compiuto centinaia di ascensioni su tutto l’arco alpino e praticato lo scialpinismo e l’arrampicata su ghiaccio. Comunque la mia vera passione è stata, e lo è ancora, la ricerca e l’apertura di nuovi itinerari.
Quando hai iniziato ad aprire vie nuove e con che stile?
Ho cominciato ad aprire qualche via a partire dal 1974 su pareti ancora completamente inesplorate come la Punta Ostanetta e il Triangolo della Caprera, utilizzando l’attrezzatura di quell’epoca che consisteva ovviamente in chiodi tradizionali, cunei di legno e martello e lasciando in parete pochissimo materiale, solo per dimostrare che l’itinerario era stato percorso. Poi scrivevo la relazione, la inviavo al CAI per ufficializzarla e la cosa finiva lì; in quel periodo non ci si preoccupava certo di ripulire la via e di attrezzarla per il piacere di quelli che l’avrebbero ripetuta.
Nell’aprire nuove vie cosa hai sempre privilegiato, la bellezza della linea o la difficoltà?
Con l’avvento dell’arrampicata sportiva e l’utilizzo dei chiodi a pressione e poi degli spit, le cose sono cambiate e ho cominciato ad aprire vie non solo per il gusto di farlo, ma anche per renderle appetibili ad un numero di ripetitori che si è dimostrato crescente nel corso degli anni.
Nella maggior parte dei casi ho sempre cercato di aprire le vie con l’utilizzo di protezioni tradizionali per sfruttare le fessure e i punti deboli della parete, privilegiando le linee più estetiche e possibilmente con difficoltà omogenee.
Hai tenuto un conto delle vie che hai aperto?
In totale ho aperto circa 150 vie, molte delle quali, specialmente a quote medio-basse, hanno richiesto, per essere percorribili, un grande lavoro di pulizia da erbacce, pietre instabili, muschio e licheni.
Attualmente mi sto dedicando quasi esclusivamente al mantenimento e al miglioramento di questi itinerari e al ricupero di quelli più vecchi che, senza un’adeguata pulizia e riattrezzatura, rischiano di andare in disuso.
Hai sempre fatto tutto a spese tue o qualcuno ti ha aiutato?
Sponsor nessuno, solo qualche piccolo contributo in spit da parte di qualche ente, ma per oltre il 90% spese a carico mio e dei miei soci.
Vuoi parlarmi di qualche tuo compagno di cordata che ricordi con particolare affetto?
In primis Andrea (o Antonio?) De Poli e Angelo Gaido, che insegnandomi molte cose mi hanno introdotto all’attività alpinistica.
Poi in tanti anni di attività hanno collaborato con me Renato Carignano, Gianni Bellion, Giuseppe Beppe Canepa, Claudio Bocco, Francesco Martinelli, Stefano Masoero e Riccardo Manzone con i quali ho aperto la maggior parte delle vie.
In modo particolare Gianfranco Rossetto, con il quale ho realizzato molte delle vie più belle ed alla cui memoria è dedicato un meeting annuale al Bourcet.
La tua grande attività di apritore ti ha portato a collaborare alla redazione di alcune pubblicazioni. Vuoi parlarcene?
Insieme a Maurizio Oviglia ho pubblicato la guida Passaggio a Nord-ovest (editore Versante sud), poi ho realizzato le guide Roccia d’Autore ed Arrampicare nelle Terre del Dahu (editi da Lared). Inoltre, dato che ho sempre avuto il piacere che quello che facevo fosse portato alla conoscenza degli arrampicatori, ho un sito internet dove si possono trovare le relazioni e gli aggiornamenti di tutte le mie vie (digilander.libero.it/fiorenzomichelin) e un profilo su Instagram (fiorenzomichelin.48).
Se dovessi consigliare a qualcuno di ripetere due tue vie quali suggeriresti?
Mi risulta difficile selezionare solo due o tre vie da consigliare, comunque se proprio devo farlo direi Via degli strapiombi al Bourcet, Super Calcaire a Rocca Clari e la Via della Fessura a Punta Ostanetta.
Nascere al Dritto o all’Inverso
di Antonio Migheli
Qualche giorno fa abbiamo salutato per l’ultima volta Fiorenzo Fiurens Michelin. Era un grande alpinista e se n’è andato nel più classico e tremendo dei modi, sfilandosi da una corda doppia, mentre calandosi ripuliva una delle sue splendide vie a Rocca Sbarua.
A differenza di Fiurens e di tanti di voi, io non sono nato in montagna e ho iniziato tardi ad arrampicare, a 53 anni; ma mi ha subito preso la scimmia, come al più sfegatato degli adolescenti; e così in 13 anni ho ripetuto quasi tutte le vie di Fiurens, comprese quelle più impegnative. Fiurens era per me un mito vivente, anche se l’avevo solo incontrato di sfuggita un paio di volte: quindi lascio immaginare l’emozione nel ricevere una sua telefonata nel novembre scorso, in cui mi chiedeva una foto che avevo postato su Gulliver, per inserirla in un suo futuro libro. Pochi giorni prima con un amico avevo ripetuto in perlustrazione una sua bellissima via, che una grossa frana aveva reso ufficialmente inagibile, con tanto di divieto comunale: presi l’occasione per segnalarglielo e lui, sornione: “Ah sì, mi ero già calato io a ispezionarla, subito dopo il crollo; ma visto che ti piace tanto quella via, potremmo andare a rimetterla a posto”. Quale maggior fortuna per conoscere un mito?
Così è nata la mia breve, ma intensa frequentazione di Fiurens. Tutti conoscono le sue meravigliose vie, veri capolavori creativi; e il suo marchio artistico, quel colore blu intenso tipico dei suoi spit, dei discreti segni indicatori sui sentieri e delle provvidenziali freccette lungo le vie. Quel blu che tanto ricorda – misteriosa coincidenza – il blu di un altro artista, il pittore Yves Klein. Ma io non voglio parlare delle sue creazioni; intendo solo ricordare, per non dimenticare, alcuni suoi tratti umani.
Fiurens era di poche parole, ma quelle che diceva erano caustiche punzecchiature che coglievano subito nel segno. Mi diceva “Andiamo lì, visto che a te piace fare il grado”; e mi trascinava per vie dure, piene di strapiombazzi, chiodate alla sua maniera (“sicura ma ingaggiosa”, come scrivono i ripetitori delle sue vie), a me che sono placchista e mi dovevo così adattare a ingegnarmi con fifi e altre artificialate. Mi mandava su a fare la lepre da primo e intanto saliva da secondo, ripulendo le fessure con quei suoi strumentini casalinghi a cui tanto teneva e con l’immancabile flaconcino di diserbante all’imbrago (un velenaccio che un suo amico chimico gli procurava); e compiacendosi del fatto che a 74 anni riuscisse ancora a fare questo o quel passaggio e a salire vie che decenni prima aveva aperto in libera.
La ripulitura quasi maniacale delle sue vie era divenuto il suo principale impegno e a tanti arrampicatori era capitato di incontrarlo in parete mentre eseguiva lavori di manutenzione. Credo che per questo motivo da molto tempo non salisse più vie di altri; da mesi gli proponevo di andare a punta Ostanetta a ripetere la via Huneida, che avevo aperto qualche anno fa con i fratelli Galizio di Manta, ma riusciva ad anteporre sempre la necessità di ripulire una sua via e mi proponeva in alternativa la sistemazione di suoi itinerari magnifici, a cui non potevo dire di no. Ricordo che una volta gli proposi pure di andare ad aprire una via in Sardegna, dove ho casa; e lui -serio!- mi aveva risposto: “No, no, poi cosa faccio, vado fino in Sardegna ogni volta che devo sistemarla?”
Ultimamente si era “addolcito” e aveva iniziato ad aggiungere qualche spit o chiodo, sempre molto parcamente, per carità: una via di Fiurens non è mai una ferrata. “Quando le ho aperte il gusto massimo che avevamo era di farle difficili, così chi si avventurava a ripeterle era magari costretto a tornare indietro, e quella era la massima soddisfazione per noi. Ma ora è tutto diverso, e bisogna renderle “plesir” come dicono adesso, altrimenti non te le ripete nessuno”. E così sono nate anche le sue ultime due bellissime creature, allo Sperone Barfè e allo Sperone Belvedere al Bourcet: vie “facili”, ma sempre molto divertenti e ingaggiose, da subito apprezzatissime da tutti, che mi aveva fatto salire in anteprima, per dare, salendo lui da secondo, gli ultimi ritocchi prima della loro pubblicazione.
Sulle vie aveva un vezzo quasi infantile: quando c’era qualche passaggio “estetico”, si metteva in posa e si faceva subito fare una foto; gli piacevano in particolare le foto col profilo della parete sullo sfondo. In un paio di occasioni, a Rocca Morel e a Rocca Ciabert, era voluto andare lui da primo su un tiro, proprio per farsi fare la foto “estetica”, che poi quasi ossessivamente mi aveva richiesto per tutto il pomeriggio, in modo da inserirla il più presto possibile sul suo profilo Instagram. Un altro vezzo, che chi ha arrampicato con lui negli ultimi tempi ha conosciuto, era la sua fissazione di salire con l’utilizzo della “mezza doppiata” per velocizzare le manovre in sosta, nonostante molti alpinisti esperti storcano il naso, credo con giuste ragioni. Ancora, i cordoni alle soste, che i novellini come me giudicano “marci”, per lui erano invariabilmente “ottimi”: e ci si appendeva di proposito per prendermi in giro. Quando salivamo, usavamo quasi sempre i suoi rinvii, che erano quanto di più assortito e agée si possa immaginare, ma per lui era tutto materiale perfetto: “Cosa dovresti dire allora dei preparati che usavamo quarant’anni fa?” mi diceva. Il secchiello proprio non gli piaceva, per cui frequentemente mi assicurava col mezzo barcaiolo, e io stringevo le chiappe…
La sua riservatezza estrema lo portava a rifiutare sempre le occasioni conviviali dopo una scalata (il “terzo tempo” di Alessandro): “Ma io non sono fatto per queste cose, e poi sono astemio”, mi diceva; e una sola volta, dopo aver fatto una scalata molto impegnativa, ero riuscito a convincerlo non solo a entrare in un bar, ma addirittura a fargli bere parte della mia birra e a fargli ammettere che l’aveva pure trovata buona. In compenso, pur non dichiarandolo apertamente, era rimasto molto contento quando l’avevano invitato a tenere una serata con videopresentazione sulla sua vita; e quando aveva saputo che gli accademici pensavano di ammetterlo al CAAI come premio alla carriera (ignoro se l’iniziativa sia poi andata a termine), me ne aveva parlato schermendosi, ma in fondo apprezzando molto il gesto. Ricordo ancora la primavera scorsa, quando Alessandro aveva espresso il desiderio di conoscerlo e con Elio Bonfanti avevamo combinato l’incontro; lui si era legato a me per la prima delle due vie che avevamo scalato. Ma al suo termine, mentre attendevamo la cordata di Alessandro e degli altri, mi aveva chiesto, sottovoce, “Ma secondo te a Gogna piacerebbe salire con me la prossima via? Perché io ci terrei molto a salire con lui una volta, magari potresti dirglielo tu”… a tanto arrivava la sua riservatezza.
Concludo qui con un ultimo particolare. Le vie di Michelin, tutte meravigliose, sono spesso strappate a pareti di bassa quota, in valli piovosissime, dove la vegetazione è quasi amazzonica (in ciò sta anche la fragilità di molte delle sue creature che, se non ripulite costantemente come lui faceva, rischiano la scomparsa entro pochi anni). A volte gli avvicinamenti e i rientri impongono passaggi per cenge esposte, dirupi fatti per camosci e così via. Ebbene, la sua disinvoltura nel muoversi per questi terreni scoscesi e spesso pericolosi era qualcosa di inimmaginabile; e il suo fermarsi ad attendermi era la regola. Una volta mi aveva spiegato: “In queste valli se sei fortunato nasci al Dritto, dal lato delle terre buone, al sole; altrimenti nasci all’Inverso, dal lato dell’ombra, dove sin da bambino devi imparare ad inerpicarti sulle pareti per trovare un fazzoletto di prato da tagliare o un posto dove far pascolare le capre. Io sono nato all’Inverso”. Ecco, se abbiamo le creazioni che Fiurens ci ha lasciato, forse è anche grazie alla sorte, che ha voluto che lui nascesse dal lato oscuro della valle.
10. Al Bourcet, pasteggiando con i pomodori del suo orto nel giorno del mio compleanno, e anche l‘ultima volta che ci siamo visti.
Alcuni ricordi di chi lo ha conosciuto
“Tutti noi se oggi possiamo arrampicare in sicurezza lo dobbiamo a Fiorenzo (Silvio Farinetti)”.
“E’ passato un mesetto e mai e poi mai avrei detto che questa sarebbe stata l’ultima salita con te… ieri mi hai telefonato per decidere insieme la data della festa di Gian (Rossetto, storico compagno di cordata di Fiorenzo, deceduto una dozzina di anni fa, NdR) e degli amici del Bourcet… Non bastavano Bill e Dino quest’anno? Hai deciso tu la data della festa per il 17 settembre, maledetto numero… Ci hai regalato un mare di vie bellissime facendo scalare il mondo sui tuoi spit color cielo… Ciao Rens, con te se ne va un pezzo di storia delle nostre vallate e non solo (Marco Conti, accademico del CAI, uno degli ultimi ad aver scalato con Michelin)”.
“Sulle rocce della Sbarua sono passati praticamente tutti grandi i nomi dell’arrampicata e dell’alpinismo italiano: e anche Fiorenzo ha lasciato una firma qui. Già, perché da decine di anni impegnava il suo tempo libero nell’individuare, pulire, attrezzare, segnare e tenere in perfetto ordine gli itinerari di arrampicata. Un “lavoro” dispendioso, sia a livello economico (gli ancoraggi sono fissi, Fiorenzo ne ha infissi migliaia, in parte creandoli artigianalmente, in parte acquistandoli) sia a livello di tempo: per alcune “vie” sono state molte le giornate passate appese a una corda con zappe e zappette per strappare eleganti fessure a terra ed erba, o bellissime placche scovate sotto uno strato di muschio e licheni.
Poi con il trapano a forare la roccia per piazzare gli ancoraggi (a volte un po’ distanti, ma sempre “nel posto giusto” come tutti hanno sempre sostenuto); e poi altre ore a scrivere le relazioni, dettagliate e complete (vale la pena fare un giro sul suo sito anche se non si è scalatori), e a tracciare gli avvicinamenti alle pareti che non sempre sono a bordo strada… anzi! (Samuele Reyel)”.
“Uno scritto che non vorremo dover fare, perciò sarà breve. Abbiamo appreso questa mattina che ieri, presumibilmente nel pomeriggio, Fiorenzo Michelin è morto. In Sbarua. Anche se ci aiutano (tutti), sono inutili tutte le parole, come ‘… la morte più bella per un appassionato come lui’, ‘… l’ultima scalata, quella che aveva sempre cercato…’, ecc…
Da parte nostra, possiamo affermare che abbiamo, tutti noi, scalato molto nelle Valli Pinerolesi, grazie al suo instancabile lavoro. Una dedizione certosina che oggi, possiamo dire senza timore di smentita, non è più di moda. Gli spit celeste, erano i suoi spit. Tutti del medesimo colore, da sempre. Talmente suo, quel colore, che più di una volta ci siamo sentiti dire il Blu Michelin!
Posiamo qui, oltre al cordoglio per tutta la famiglia di Fiorenzo, diciamo qui e posiamo un semplice ‘grazie Fiorenzo’, con un abbraccio… con un abbraccio (Banda del Selleries)”.
“Ciao Fiorenzo, ieri il destino ha deciso che l’ultima giornata di manutenzione sulle tue vie dovesse essere proprio qui in Sbarua…
Poche volte sei entrato in rifugio, anche se qualche anno fa sei venuto per regalarci una foto d’epoca, quando ancora si scalava con scarponi e staffe, sul tetto dello Spigolo Centrale.
Grazie per tutte le Perle Blu che hai lasciato incastonate sulle pareti delle nostre valli e non solo, tante generazioni sono cresciute e hanno sognato sulle tue vie e altrettante continueranno a farlo sicuramente. Buon Viaggio (Lo staff del rifugio Melano Casa Canada)”.
“Che brutto colpo, Fiorenzo. Il blu Michelin, le vie d’autore, sempre una garanzia. Lo scambiarsi informazioni, il chiedermi in che stato fosse la tal tua via che avevo percorso.
Poche settimane fa scendevo dalla parete del Vandalino, le termiche d’aria calda portavano in una danza concentrica verso l’alto le prime foglie caduche. Ogni volta una grande suggestione.
Ci si è visti sul sentiero del ritorno: instancabilmente facevi manutenzione a una delle tue creazioni. La “solita” chiacchierata piacevole, con ciò che può lasciare il fare due parole con una persona che si muove in punta di piedi, nel silenzio, con una discrezione che racchiude eleganza e intelligenza.
A certe cose semplicemente non si pensa. Dopo oggi, quando rinvierò quegli spit artigianali verniciati di blu, quando su alberi o massi vedrò le delicate e inconfondibili tacchette blu indicanti l’avvicinamento, beh, sarà diverso da prima. Sarà triste (Paolo Castellino)”.
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Ho scalato una volta sola con Fiorenzo Michelin molti anni fa. Lo incontrammo, Franco Ribetti ed io, alla base della punta Ostanetta e ripetemmo con lui una nuova via che aveva appena attrezzato. Sono stato però, con moltissimi altri scalatori, un grande fruitore dei tanti itinerari da lui tracciati con maestria. Quando Ribetti era in salute e scalava ancora, era in contatto con Fiorenzo e quando questi realizzava qualche nuova via lo comunicava a Franco e noi ci precipitavamo a ripeterla. Ora per salvaguardare l’opera di Fiorenzo e mantenere vivo il suo ricordo vorrei lanciare un’idea tra i tanti fruitori delle sue vie che sono ovviamente più giovani di me. Creare una fondazione, associazione e non so quale altro titolo proporre, con il preciso scopo di continuare l’opera di manutenzione delle vie a cui lui teneva molto e se, possibile, mantenere in vita il suo sito informativo. Credo che molti tra quelli che utilizzano la sua opera siano disposti a contribuire per mantenerla viva.
Bien sûr, c’est une sécurité de faire un noeud au bout de sa corde quand on descend en rappel, surtout s’il est en “fil d’araignée” ; pour les autres aussi,
mais ce noeud peut se coincer et devenir problématique, ce qui explique qu’on ne le fait pas.
Tra corde spaiate o incastrate e ancoraggi saltati (su uno mi stavo per ammazzare pure io qke anno fa scendendo dalla Carisey), ste doppie ne hanno fatto fuori di gente. Onore all’immenso Fiurens ! Impossibile prescindere dalle sue vie per chi “rampia” nel pinerolese.
Bella la riflessione sull’inverso di Villar Pellice che conosco assai bene. Verde di vegetazione foltissima.Umido e ombroso dal fondovalle e fino in punta al Frioland che lo sovrasta. Aveva forgiato un grimpeur di gran classe. Se qke arrampicatore del Paradiso incoccerà in qke spit blu (o in qke … raccordo a “T” da tubista …) saprà a chi dire grazie.
Per la serie: Dagli errori non si possono trarre insegnamenti, ma anche “L’esperienza non è trasmissibile”.
Bursiq. Per una dimenticanza simile parecchi anni fa ho rischiato di perdere il mio compagno alla mitica porcilaia di Baiedo: si sfilo’ la corda mal doppiata e senza nodi e cadde di schiena da cinque metri su un sasso alla base della placca. Mentre aspettavo al pronto soccorso di Lecco promisi agli Dei che avrei sempre fatto due nodi in fondo e avrei messo il casco (L’emoragia fu gestita e il polso fratturato fu sistemato con due successivi interventi). E così ho fatto e farò ‘untill the End”, senza ripensamenti e lasciando dir le genti.
Considerato che la dinamica dell’incidente non è chiara in base a quanto scritto nel testo ma può essere solo ipotizzata, eviterei di trarre inutili conclusioni che non portano alcun beneficio e soprattutto eviterei di dire cosa si doveva fare.
Il nodo in fondo alle corde è come una telefonata: ti allunga la vita.
Ammesso che la causa sia stata la mancanza del nodo alla fine della corda… non capisco se l’attuale tendenza/insegnamento sia quella di fare il nodo o meno in fondo alla corda doppia. Vedo che molti, anche Guide, non lo fanno più.
Che problemi dà il nodo in fondo alle corde doppie?
È incredibile come un semplice nodo alla fine della corda possa privarci di una degna persona!….quanto labile è la nostra vita!!