Riproponiamo questo bellissimo saggio, scritto nel 1980 ma ancora assai attuale.
Nei dintorni del Monte Analogo
di Pietro Crivellaro
(pubblicato su Scandere 1980)
Nota alle foto
Alcune illustrazioni sono tratte da inquadrature di vecchi film “d’autore”, nei quali la montagna è l’ambiente, che non di rado diventa quasi protagonista, di vicende alpinistiche eroiche, drammatiche, mortali. Ma in ogni caso è qualcosa di più di quello che si usa definire come retorica tardo-romantica. Dietro l’immagine della montagna del grande cinema si ritrova la montagna-simbolo delle antiche tradizioni e dei miti, luogo di azioni sublimi.
“E le montagne. Oh le montagne, così diverse da oggi, divinità della mia infanzia, irraggiungibili, sospese come regge fatate, che risplendevano di sole anche dopo che erano entrate nella notte; sogni, beatitudini, ombre, fantasmi, perché non rispondete? (Dino Buzzati)”.
Lettura: spessore-weight****, impegno-effort****, disimpegno-entertainment*
Alla ricerca delle radici dell’alpinismo
Sono ormai caduti tutti, uno dopo l’altro, i grandi problemi dell’alpinismo. E il nostro stupore è stato talmente usurato da «ultime» imprese sempre più impegnative, succedutesi a ritmi sempre più incalzanti, che oggi più nulla ci può far meraviglia, mentre i confini dell’impossibile sono diventati labili e incerti. Ma ecco che, mano a mano che si accumulano le soluzioni dei più ardui problemi di roccia e di ghiaccio, un altro problema di qualità incomparabilmente diversa si delinea e prende consistenza. Emerge dal segreto dove si celava come il rimorso di una colpa non espiata e si pone come la sfida estrema // Grande Problema definitivo di svelare le origini e di spiegare le ragioni dell«insensata» attività di scalare le montagne.
La ruota (La roue). Regia di Abel Canee. Francia, 1923
È un problema affiorato altre volte lungo la storia dell’alpinismo. A riesplorare con pazienza e attenzione la biblioteca della letteratura di montagna si scoprono sorprendenti tentativi, poi abbandonati e dimenticati dalla sufficienza dei posteri, che testimoniano una continuità di interesse per il Grande Problema, ma anche la confusione e il disorientamento di chi non conosce nemmeno la direzione da prendere per «andare all’attacco». E oggi il problema si ripropone con maggior insistenza, parallelamente al processo che va trasformando l’alpinismo in un fenomeno ormai di massa, ma continua a venire affrontato con scetticismo e diffidenza.
Soprattutto quando ci si mettono degli estranei al mondo alpinistico: gli alpinisti non amano delegare «esperti» di nessun genere a interpretare l’esperienza profonda e incomunicabile dell’arrampicata. Come si può giudicare equamente quel che nemmeno si conosce? Con tutto quel che si scrive e dice intorno all’alpinismo rimane incomunicabile anche il racconto e la descrizione dell’essenza di una scalata: i giornali per parlare alla massa estranea impiegano formule e schemi così sommari da essere deliberatamente falsi, perché a loro sta a cuore vendere il mito corrente dell’alpinismo e non la verità; noi alpinisti per parlarne ad amici che non praticano l’alpinismo siamo costretti a riassumere e generalizzare sulla base di un linguaggio comune che rimane molto distante dalla ricchezza della nostra avventura; infine, anche parlandone all’interno del nostro ambiente, riusciamo magari a comunicare gli aspetti tecnici ed «esterni» di ogni scalata, senza poterne tradurre l’anima, le sfumature e le vibrazioni che ne direbbero il senso vero. Per questo non di rado proviamo una nauseata sazietà della chiacchiera di montagna, che si traduce nella frustrazione di chi sperava di ascoltare parole nuove e rivelatrici, ma ogni volta è stato ingannato e deluso dalle solite cose già dette.
Ma occorrerà pure trovare una mediazione tra le ragioni dell’alpinismo e le ragioni degli altri, accordarci per aprire un dialogo verso l’esterno per rompere l’isolamento a cui ci conduce la passione di scalare. Non appena dobbiamo scrivere di alpinismo vediamo che è necessario ricorrere agli strumenti della cultura, evitando di rifiutare sdegnosamente il linguaggio e gli strumenti della cultura (la letteratura, la storia, la psicologia, l’arte, la filosofia, la religione) che non sono per definizione complicazioni intellettuali, «culturame». Non è vero che chi ha le migliori risorse alpinistiche, chi è più bravo ad arrampicare, possiede automaticamente la facoltà di esprimere le cose migliori, di parlarne e scriverne meglio. Io credo che l’esperienza di scalare arricchisca molto, ma questo non impedisce che il grande alpinista possa dire sciocchezze e banalità, come il grande ciclista che diceva ciau mama.
L’insidia dell’alienazione…
È dunque compito degli alpinisti affrontare il Grande Problema, cominciando con il formulare correttamente i termini della questione. Il primo, classico tentativo di risposta consiste nel negare l’esistenza del problema: arrampico perché mi piace così e basta. Non è certamente una risposta banale, ma tradisce il trucco di spacciare l’alpinismo come uno sport qualunque, un’attività normale come tante altre attività quotidiane. Così si vorrebbe occultare gli aspetti inquietanti e negativi sotto la veste scintillante delle soddisfazioni, delle conquiste e delle «visioni» che si incontrano in montagna. La consolante credenza nella casualità del fenomeno coincide con il rifiuto di assumere la responsabilità della propria riconosciuta identità, per il bisogno di evadere dalla coscienza di sé che sarebbe intollerabile fonte di angoscia. Invece di dire mi piace e basta, sarebbe più corretto dichiarare sono fatti miei.
Ancora considerando quanto si parla e si scrive di alpinismo da parte degli alpinisti, mi ha colpito la sproporzione tra la smisurata quantità di parole dedicate alla descrizione e l’esigua quantità di parole dedicate all’interpretazione. Così mi è sorto il sospetto che si eviti di mettere in discussione, di andare a fondo, di cercare una verità credibile per timore di compromettere l’equilibrio di una verità corrente, che se va bene per tutti gli altri può andar bene anche per me, per timore di sorprese spiacevoli, per non aprire domande dalla difficile risposta.
Perciò si evita di interrogarsi sui punti cruciali: è normale vivere come «disadattati» dalla società? cosa sono davvero le frustrazioni e le soddisfazioni dell’alpinismo? sono corretti o ambigui i legami della cosiddetta amicizia che si stabilisce tra alpinisti, e tra noi e gli altri che, pur amandoci, non ci capiscono? come agiscono le dinamiche della paura di «volare» e che rapporto c’è con le angosce della vita moderna? che scopi perseguono i progressi, a cosa tendono i risultati raggiunti dall’evoluzione dell’alpinismo? che peso ha il rischio, il pericolo, la morte? Discutiamo con fervore spesso inconcludente sul settimo grado e riserviamo «la critica del giudizio», la conoscenza del bene e del male alla segreta meditazione di ognuno. Per aggirare le tautologie di ogni risposta dilatoria, ci domanderemo allora: perché ci piace arrampicare e basta? Questa formulazione anzi mette in luce ancora meglio la sostanza del problema: perché si giunge ad abbandonare quasi tutto per dedicarsi all’inutile conquista delle montagne, che rimarrà sempre inappagata e che pure si paga a carissimo prezzo, non escluso quello della vita? È inutile tentare di mitigare l’«insensatezza» dell’alpinismo suggerendo riduzioni e mediazioni: ma io cerco di rispettare le norme di sicurezza, ma io cerco un equilibrato compromesso tra il vivere nella società e l’andare in montagna, ma io non faccio pazzie. Sono dei diversivi e degli eufemismi. Perché se si tratta di fare delle passeggiate in montagna non è certo il caso di spendere troppe parole, ma se si tratta di vero alpinismo, poco o tanto si accetta di uscire dalla norma del senso comune che è in vigore presso la nostra civiltà, si tende ad abbandonare le normali occupazioni del lavoro e del tempo libero, si rinuncia ad essere socialmente utili, per esiliarsi in un territorio separato e dedicarsi alla religione della montagna.
Quando si intraprende l’alpinismo ci si incammina sulla strada che, avvicinandoci alle difficoltà e ai rischi dell’arrampicata, ci allontana dai costumi degli altri; si allentano i legami di prima per consentirci di allacciare nuovi legami più funzionali al nuovo stato di vita; si ridimensiona e si altera la consueta scala di valori a vantaggio di un’altra scala di valori parallela, quando non sostitutiva. Tutto ciò somiglia molto a quel che viene chiamato alienazione: anche se di solito non abbiamo grossi rimpianti per la fuga da una società che ha respinto e frustrato i nostri sforzi generosi per migliorarla e renderla meglio vivibile, tuttavia ci manca il coraggio di riconoscere e accettare per noi questa immagine di «fissati», che ci appare come una diversità infamante. Così, ricorrendo agli argomenti della più smaliziata e aggiornata dialettica, non abbiamo difficoltà a smentirla e mascherarla per sentirci di nuovo a posto.
Impieghiamo analoghi artifici linguistici quando disprezziamo la «retorica» delle testimonianze alpinistiche del passato, a vantaggio dell’autenticità dei resoconti più spontanei e «creativi» di oggi, senza riconoscere che la mitologia di allora non è affatto stata cancellata dalla coscienza critica di noi moderni, ma ha solo aggiornato il vestito.
La conferma più esplicita dell’alienazione che insidia l’alpinista restano le riflessioni autobiografiche di Gian Piero Motti (Motti, Gian Piero, I falliti, Rivista Mensile del CAI, 1972, pagg. 527-534 oppure https://gognablog.sherpa-gate.com/i-falliti/) nell’articolo intitolato eloquentemente / falliti, riferimento ormai classico, ma assolutamente raro per questa problematica. «Ciò che conta è arrampicare sempre al limite delle possibilità, ciò che vale è la difficoltà pura, il tecnicismo, la ricerca esasperata del sempre più difficile. Trascinato da questo delirio, non ti accorgi che i tuoi occhi non vedono più… Ritornando a casa la sera mi sento svuotato e deluso, mi sento soprattutto inutile a me stesso e agli altri… Oggi se perdo una domenica intristisco, divengo irascibile, nervoso, se ogni volta che arrampico non vado a fare una via estrema non mi sento soddisfatto. Non si può andare avanti così».
… e il rischio di morire
Ma se non arriva a toccarci la coscienza infelice dell’alienazione, perché forse siamo riusciti a tenerla a bada mediante un assiduo autocontrollo, portando in salvo uno straccio di immagine decentemente integrata nella vita di tutti i giorni, allora fatalmente ci toccherà la scandalosa esperienza della morte che ci passa vicino. Invece mi colpisce la spiccata tendenza degli alpinisti di ricoprire in fretta la bara di chi è morto in montagna, che è simile ai rituali funebri che presso ogni popolazione tendono ad esorcizzare l’odioso spettro della morte. Si liquida il problema ripetendo le solite formule gratuite come i «consolatori molesti» che non sanno rispettare in silenzio il mistero della sventura di Giobbe. Così, chi muore giace e chi vive si dà pace. I necrologi, non meno retorici di quelli che decantavano il fulgido eroe vittima della montagna, manifestano l’inutilità del tentativo di giustificare e nobilitare qualunque morte di alpinista, comunque motivato. A corto di spiegazioni, per non rimettere in discussione ogni volta il senso del proprio alpinismo, si preferisce nascondere l’immagine della morte, quando invece essa è assolutamente centrale nell’esperienza dello scalatore. Arrampicare infatti significa affrontare il rischio di cadere per ricavare la soddisfazione di superare una serie di difficoltà, alle quali è stata perfino applicata l’unità di misura dei gradi: più crescono le difficoltà / più aumenta il rischio di cadere / che coincide con il rischio di subire un incidente / che equivale al rischio di morire.
Una sorta di equazione tra alpinismo e morte mi è stata proposta tempo fa con amabile perentorietà dal grande psicanalista Cesare Musatti, che, interrogato sull’alpinismo, mi confessò di non aver mai studiato espressamente il tema, ma aggiunse testualmente: «Non creda comunque che si tratti di un argomento leggero, come una discussione sportiva, perché ci scontriamo immediatamente con la tragica presenza della morte».
Affrontare il problema dell’«insensata» sfida alla morte diventa, io credo, il nucleo del Grande Problema di cui sto trattando. Il recentissimo libro di Reinhold Messner II limite della vita (Zanichelli, Bologna, 1980) dedicato alla morte in montagna, mentre conferma la straordinaria originalità e coerenza del grande alpinista altoatesino, costituisce una novità assoluta perché infrange una specie di tabù, puntando dritto contro l’abituale omertà delle reticenze e delle ipocrisie che avvolgono il tema della morte. Almeno non si dirà più, dopo Messner, che parlare della morte in montagna è solo segno di cattivo gusto di pessimisti e menagramo. Dunque il Grande Problema è assillante e ineludibile. Dopo quella della negazione un’altra risposta falsa, per quanto sensata, può essere quella di dichiarare impossibile e senza soluzione il problema: chi mai tenterà di attaccare una via da cui è certo di non poter «uscire»? Meglio rinunciare subito e sforzarsi di ignorarlo per non esserne turbati. Senonché non è certo e dimostrato che non esistano, se non proprio una risposta univoca e decisiva, almeno dei frammenti di risposta per i quali valga tuttavia la pena di accingersi a una faticosa ricerca. Al pari del problema del senso dell’esistenza umana, o della conoscenza di se stessi: intanto anche la disposizione e cercare diviene sufficiente ragione di vita, e poi, si sa, ogni vera ricerca può riservare sorprendenti illuminazioni.
L’avventura
Se davvero potessimo credere che l’alpinismo comincia e finisce sotto i nostri occhi, lo terremmo sotto controllo, chiuderemmo la porta ai dubbi, all’inquietudine e all’ansia. Se invece accettiamo (perché ci dobbiamo arrendere all’evidenza) che il fenomeno trae origine da zone ignote, non esplorate, di cui non siamo pienamente consapevoli, si impone il dovere della ricerca delle sorgenti da cui deriva. Sorgenti probabilmente lontane dalla nostra coscienza nota e quotidiana, sorgenti nascoste nelle profondità inesplorate della nostra psiche e perdute nelle remote distanze della storia della civiltà, dove getta le radici anche la cultura del nostro tempo e la privata storia personale di ognuno. Come l’esplorazione interiore di Pierre Teilhard de Chardin che racconta di sé: «Così, forse per la prima volta nella mia vita, ho preso la lanterna, e abbandonata la zona, chiara in apparenza, delle mie occupazioni e delle mie relazioni quotidiane, sono sceso verso il più profondo di me stesso, nell’abisso insondabile da cui sento confusamente che scaturisce il mio potere d’azione. Ora, mano mano che mi allontanavo dalle evidenze convenzionali da cui è rischiarata in superficie la vita sociale, mi rendevo conto che sfuggivo a me stesso. Ad ogni scalino che scendevo, un altro personaggio si svelava in me, del quale non saprei dire il nome esatto, e che non mi obbediva più. E quando ho dovuto interrompere la mia esplorazione, perché il terreno mi mancava sotto i piedi, mi trovavo sull’orlo di un abisso senza fondo da cui scaturiva, uscendo chissà da dove, il fiotto che io oso chiamare la mia vita (Teilhard de Chardin, Pierre, Le milieu divin, Ed. du Seuil, Paris, 1965, pag. 75. In Italia pubblicato da II Saggiatore.)».
Un atteggiamento che può coincidere con la pratica stessa dell’alpinismo. Alpinismo di ricerca che ogni volta parte per esplorare, insieme con la montagna, le vibrazioni e i limiti del proprio corpo e delle facoltà che lo rendono vivo; per scendere più a fondo nella spessa penombra della nostra anima e riportare alla luce materiali del passato, tolti un tempo dalla vetrina della coscienza e stipati nel solaio polveroso dell’inconscio; per sperimentare, a complemento o in alternativa alla logica dei processi razionali, processi di conoscenza nuovi nei territori sconfinati dell’immaginazione.
Ma senza mettere in svendita la ragione: preferisco lasciare ad altri trattare delle facoltà visionarie, perché a me non è mai accaduto, scalando, di vedere la madonna o altri santi canonizzati, non sono mai stato visitato da fantasmi di anime defunte, non ho mai incontrato il drago, né mostri consimili e nemmeno spiriti benevoli come gli gnomi di Tolkien. Intendo quello che molti alpinisti chiamano lo spirito d’avventura. Essere capaci di uscire dalla prigione di un mondo tutto conosciuto, esplorato, controllato, organizzato, appagato e rassegnato per cercare spazi nuovi di libertà dove si riprova l’ebbrezza e il rischio di essere affidati alle proprie forze, padroni di se stessi, in grado di esaudire desideri innati e repressi mediante la scoperta, la sorpresa, la contemplazione di nuove immagini della realtà. Anzi, attraverso la conoscenza di cose nuove, sfuggite alla schedatura totalitaria del conformismo, si svela l’inganno di una civiltà che pretende di aver dato una spiegazione sufficiente della realtà e si rendono manifesti i segni della confusione e del disorientamento culturale delle epoche di decadenza.
Vorrei notare tuttavia che se «l’avventura» è una forma alternativa di conoscenza, anch’essa può rimanere schematica, imitativa e sterile. È diffusa una specie di alpinismo di consumo, meccanico come una ginnastica superficiale, sprecato come l’ottuso collezionismo di una quantità di vie e di cime da mostrare ad un pubblico poi distratto e indifferente. In coscienza non mi sento di dar sempre torto al vituperatissimo Sigmund Freud quando sostiene: «Ogni collezionista è una controfigura di Don Giovanni Tenario così come lo scalatore di montagne, lo sportivo, ecc. sono equivalenti erotici (Freud, Sigmund, Opere, Boringhieri, Torino, 1968, vol II, pag.39)».
È la grande possibilità mancata di chi si contenta di salire a bordo del missile e si sente più bravo degli altri rimanendo a giocare con le apparecchiature, fermo sulla rampa di lancio, invece di staccarsi da terra e partire verso le incognite del cielo.
Ugualmente in questi anni recenti abbiamo scoperto l’originale novità di voci letterarie «creative» importate da ambienti alpinistici stranieri dove nascono autentiche, Lito Tejada Flores e Bernard Amy per accennare ai più noti, che sono subito diventati maniera di moda, paravento per legittimare e divulgare le mediocri imitazioni di cui si alimenta la subcultura del folclore alpinistico. La strada dell’avventura vera è solitaria e interiore, privata e poco spettacolare, umile e concreta, perché se si appaga dei quattrosoldi della pubblicità ha già tutta lì la sua remunerazione e non ha altre ricchezze e altre spiegazioni da cercare. È simile all’ostinata fedeltà del tenente Drogo, il protagonista del Deserto dei Tartari di Dino Buzzati (che fu fra l’altro appassionato alpinista), che spende la vita e rinuncia ad altre possibilità di brillante carriera per rimanere segregato ai margini del mondo, a vigilare sugli spalti della fortezza Bastiani, in attesa del nemico che deve arrivare e non arriva mai, sostenuto dalla segreta speranza di un sogno di gloria.
«I Tartari… i Tartari… Da principio sembra una stupidaggine, naturalmente, poi si finisce a crederci lo stesso, almeno a molti è successo così (Buzzati, Dino, Il deserto dei Tartari, Mondadori, Milano. Cap. XXI)».
Un’ipotesi: dai miti antichi all’inconscio degli alpinisti
Una volta accettato il Grande Problema dell’essenza dell’alpinismo, si deve affrontare l’avventura spirituale di indagare sul mistero dell’uomo percorrendo i sentieri della montagna. E se l’autoanalisi che riflette sulla propria esperienza, e se l’esame della letteratura alpinistica si esauriscono in sterili narcisismi e non offrono abbastanza spiegazioni, occorre allargare l’orizzonte e cercare nei dintorni della montagna quei significati che nel corso della storia della cultura si sono accumulati e sedimentati a formare l’idea di montagna. Che certo preesiste alla scoperta dell’alpinismo e che pertanto, più o meno inconsciamente, abbiamo ereditato per costituire il concetto di montagna che sta sotto gli occhi della nostra coscienza di oggi.
È evidente che la montagna non è stata scoperta dagli alpinisti, che non hanno nemmeno inventato l’idea di scalare le montagne, già presente nelle più antiche tradizioni. Si ripropone la necessità di ricorrere ai soccorsi esterni della «cultura», che mi richiama un pensiero del grande psichiatra svizzero Ludwig Binswanger, che impiego strumentalmente fuori del suo contesto: «II recupero di un’esistenza smarrita nell’esaltazione fissata, è possibile soltanto tramite “l’aiuto altrui”, esattamente come il recupero di un alpinista che, salendo, si è smarrito lungo una parete rocciosa (Binswanger, Ludwig, Tre forme di esistenza mancata (Esaltazione fissata, stramberia, manierismo). Garzanti, Milano, 1978, pag. 23. Edito anche da II Saggiatore, Milano, 1964)».
La montagna non esplorata è priva dei caratteri geografici che contano per noi e si riduce a schema astratto e semplificato: è un simbolo caratterizzato dalla grandiosità della dismisura rispetto alle proporzioni umane; dalla stabilità e immutabilità della roccia che la compone, che resta inalterata come in eterno rispetto alla misura della durata dell’esistenza dell’uomo; dalla verticalità che la pone con la base nella regione dominata dai viventi e il vertice nelle regioni irraggiungibili del cielo dove dimorano gli dei. E la montagna simbolica, che per i suoi caratteri assoluti trascende la precarietà della condizione umana e diviene una manifestazione di forze sovrumane: è la montagna sacra.
Primo di cordata (Premier de cordée). Regia di Louis Daquin. Francia, 1943
La montagna e i simboli ascensionali: Eliade
Gli studi della storia delle religioni, che esplorano nelle culture primitive, come del resto fa l’antropologia che va in cerca delle radici delle civiltà, hanno illustrato in maniera sorprendente l’importanza e la diffusione del simbolo della montagna. Possediamo un po’ tutti delle nozioni di questa materia, ma è meglio affrontarla finalmente con una precisa documentazione, senza darla per nota, perché nell’ambiente alpinistico se ne è finora parlato in maniera marginale e approssimativa. A parte l’articolo che René Daumal cita nelle prime pagine de Il Monte Analogo (e valga come battuta), chi senza dubbio ne ha trattato meglio è stato Samivel che impiega questo genere di nozioni in vari suoi libri ed espressamente tratta l’argomento in Hommes, cimes et dieux (Nota 1), critico e beninformato. Altrimenti ne parlano, anzi amano parlarne, i redattori della rivista Passage-Cahiers de l’alpinisme, mai con intenti documentari, con scopi di scrittura «creativa» dall’aria non poco stravagante: mi riferisco in particolare a La montagne initiatique (Passage n. 1, pagg. 119-146) di Jean-Paul Bozonnet, l’articolo più strutturato, costruito con criteri di sociologia un po’ «selvaggia», che si propone di interpretare le diverse condizioni di vita in montagna con il modello primitivo dei rituali iniziatici (?); Symbolique? di Xavier Fargeas (Passage n. 1, pagg. 25-33), il più «underground», che ricama attorno ai contorti concetti della filosofia di Gaston Bachelard; La montagne et le sacré di Odon Vallet (Passage n. 1, pagg. 129-139), che interpreta disparati materiali della storia delle religioni con divagazioni molto personali e impervie. Si tratta di scritti per «amatori», poco utili alla conoscenza.
È meglio rivolgersi a fonti più specifiche, presso gli studiosi di storia delle religioni. Tra questi, per non essere costretti a nostra volta a diventare studiosi di quella materia leggendo a caso, per tentativi ed errori, converrà rivolgersi direttamente agli studi di Mircea Eliade e in particolare al Trattato di storia delle religioni (Eliade, Mircea, Trattato di storia delle religioni, Boringhieri, Torino, 1976. Riferimenti al simbolismo della montagna ricorrono spesso nelle opere di Eliade. Si può vedere in particolare: // mito dell’eterno ritorno, Borla, Torino, 1975, (anche: Rusconi, Milano, 1975); Miti, sogni, misteri, Rusconi, Milano, 1976; // sacro e il profano, Boringhieri, Torino, 1973.) dal quale riprendo alcuni passi significativi:
«Tutte le mitologie hanno una montagna sacra, variante più o meno illustre dell’Olimpo. Le valenze simboliche e religiose delle montagne sono innumerevoli. Spesso la montagna è considerata punto d’incontro del cielo e della terra; quindi un “centro”, punto per il quale passa l’Asse del Mondo, regione satura di sacro, luogo ove possono attuarsi i passaggi fra le zone cosmiche diverse. Così secondo credenze mesopotamiche, il “Monte dei Paesi” unisce il cielo alla terra, e il Monte Meru della mitologia indiana si erge nel centro del mondo; al di sopra di lui brilla la Stella Polare. Anche i popoli uralo-altaici conoscono un monte centrale, in cima al quale è sospesa la stella polare. Secondo credenze iraniche, il sacro monte Haraberezaiti (Harbuz) sta al centro della terra ed è collegato al cielo. Nell’Edda, Himingbjörg è un “monte celeste”, come dice il suo nome; ivi l’arcobaleno tocca la volta celeste. Credenze simili si trovano fra i Finlandesi, i Giapponesi, ecc. Il “monte”, in quanto punto d’incontro fra cielo e terra, si trova al “centro del mondo” ed è sicuramente il punto più alto della terra. Per questo le regioni consacrate (“luoghi santi”, templi, palazzi, città sante) sono parificate alle montagne e diventano esse stesse “centri”, vale a dire che sono integrate in modo magico alla cima del monte cosmico. I monti Tabor e Garizim in Palestina erano anch’essi “centri”, e la Palestina, “la terra santa”, essendo perciò considerata come il luogo più alto del mondo (mentre tutti sanno che colà sta proprio la depressione più profonda della terra) non fu raggiunta dal diluvio. Per i Cristiani il Golgotha si trova al centro del mondo, perché è la cima della montagna cosmica e anche il luogo dove Adamo fu creato e sepolto. E secondo la tradizione islamica, il luogo più alto della terra è la Ka’ba, perché “la stella polare dimostra che la Ka’ba si trova esattamente al disopra del centro del cielo” (p. 111-112)».
La prima edizione italiana (1977) de Il Re del Mondo
Eliade si diffonde ad enumerare esempi che così commenta: «L’altitudine, il superiore, sono assimilati al trascendente, al sovrumano. Ogni “ascensione” è una rottura di livello, un passaggio nell’oltretomba, un superamento dello spazio profano e della condizione umana». E ribadisce il concetto: «Trascendere la condizione umana, in quanto si penetra in una zona sacra (tempio, altare) per mezzo della consacrazione rituale o della morte, si esprime concretamente con un “passaggio”, una “salita”, una “ascensione” (p. 114)».
Al simbolo della montagna, e ai simboli corrispondenti della verticalità (albero, scala, ponte, arcobaleno, piramide, ali, volo magico, ecc.) sono collegati dei miti ascensionali, racconti favolosi che esprimono e tramandano le concezioni culturali delle popolazioni primitive: tra questi il più ricorrente è proprio quello che racconta il passaggio dell’eroe dal mondo dei viventi al mondo dell’aldilà, che è la morte, mediante una scalata. Tenendo conto delle concezioni cosmologiche degli antichi secondo cui esistono gradi diversi di esistenza, tuttora fondamentali presso le religioni orientali, ma presenti anche nella credenza dell’immortalità del cristianesimo, si stabilisce un’equazione significativa e inquietante anche per noi alpinisti moderni. Ossia, scalata è uguale a morte, che è uguale al passaggio ad una condizione superiore cui l’uomo tende come mosso da un istinto che si collega ad una «nostalgia delle origini», memoria della condizione un tempo beata dell’umanità che abitava il paradiso terrestre e in seguito perduta mediante la «caduta». Quello che le mitologie greche e latine a noi contigue chiamano «età dell’oro».
Nota 1. Lo stesso Samivel mi ha trasmesso la sua bibliografia: Samivel è l’autore di importanti lavori concernenti la simbologia dell’altitudine e la mitologia della montagna:
1) Hommes, cimes et dieu.\, la- legende dorée de la montagne travers le monde. Prefazione curata dall’Académie” Frammise. Ed. Arthaud, 6 me de Mézières, 75006 Parigi.
2) Studio intitolato L’alpinisme et san enigme, apparso sulla rivista «Alpinisme», poi ripreso nei n.i 440 e 441 della «Revue Alpine, 35 Rue Thomassin, Lyon (e dalla Rivista Mensile).
3) Lo studio intitolato Espace montagnard et imaginaire, pubblicato nel 1979 nel volume intitolato «Espaces et imaginaire» dalle Presses Universitaires di Grenoble, Botte postale 47 X, 38040 Grenoble Cedex.
Verità celate nel segreto: l’esoterismo di Guénon
Si ricollegano a questa materia, ma se ne distaccano per caratteristiche tutte particolari, gli studi «esoterici» di Rene Guénon, che cito a parte perché stanno alla base del principale testo moderno dell’alpinismo simbolico, II Monte Analogo di René Daumal del quale parlerò più avanti.
Non meno serio e documentato di Eliade e degli altri storici delle religioni che si valgono di fonti per così dire canoniche, Guénon argomenta le sue teorie con implacabile e sterminata cultura ricorrendo ai materiali più inconsueti, di solito impiegati da credenze sospette, quando non ciarlatane: la magìa, l’alchimia, l’astrologia, la kabbalàh ebraica e tutte le eresie e teorie religiose marginali, oltre naturalmente i prediletti testi induisti. Guénon potrebbe tranquillamente essere l’interprete incontrastato di tutto l’irrazionalismo parareligioso così in voga oggigiorno, compresi certi filoni dell’alpinismo.
La sintesi più efficace dei suoi studi è contenuta nel libretto di stupefacente chiarezza (considerata l’astrusa materia) Il Re del Mondo» (Guénon, René, Il Re del Mondo, Adelphi, Milano, 1977. Per un approfondimento si può consultare Simboli della Scienza sacra, Adelphi, Milano, 1978, 2a ediz., che è un vero e proprio repertorio di simboli illustrati con la consueta precisione. Contiene elementi utili anche L’esoterismo di Dante, Atanòr, Roma, 1976, ma nel complesso può risultare fuorviante.). In esso riprende, correggendola e integrandola, la non inedita concezione di un centro iniziatico sotterraneo, depositario della conoscenza e della perfezione. Su questa base Guénon accumula e collega dottrine e miti immemorabili che sa riconoscere, con prodigiose associazioni d’immagini, nelle più disparate tradizioni, sostenendo in un’ardita prospettiva che tutta la storia della civiltà è attraversata da una fitta e misteriosa rete di trasmissioni della conoscenza: percorrendo canali sotterranei e segreti, da un iniziato all’altro, la stessa matrice di verità primordiale si è dispersa in tradizioni distantissime una dall’altra e qualcosa di essa è ricaduto, per un incredibile «fall-out» storico, anche nella cultura odierna.
I filoni più importanti della rivelazione per la nostra civiltà occidentale, che ha imboccato un corso molto diverso da quello degli orientali, sono la tradizione biblico-giudaica, passata nel cristianesimo; le concezioni medioevali che facevano capo agli ordini cavaliereschi, in particolare i Templari, alimentate dai contatti col mondo arabo; le leggende della ricerca del Santo Graal; i numerosi contenuti esoterici testimoniati da Dante; le società segrete della Massoneria e dei Rosa-Croce. Indico tutto ciò di sfuggita, confidando di non procurare troppo turbamento, e cito soltanto un passo-chiave. Trattando del simbolismo del Graal, Guénon scrive: «II possesso del Graal rappresenta la conservazione della tradizione primordiale nella sua integrità “custodita in un centro supremo” situato nel punto di comunicazione della Terra con i cieli. Ciò è conforme al simbolismo usato da Dante, che situa il Paradiso terrestre sulla cima della montagna del Purgatorio, la quale si identifica così con la “montagna polare” di tutte le tradizioni. Vi è poi un simbolo che si collega a un altro aspetto della leggenda del Graal, e merita un’attenzione speciale: quello del Montsalvat (letteralmente “Monte della salvezza”), il picco situato “ai confini lontani cui nessun mortale si avvicina”, rappresentato come sorgente dal mare, in una regione inaccessibile e dietro il quale si leverebbe il sole. È al tempo stesso l’isola sacra e la montagna polare, due simboli equivalenti; è la “Terra d’immortalità”, che si identifica naturalmente con il Paradiso Terrestre (p. 53)».
E più avanti riprende il solito tema: «La montagna del Paradiso Terrestre è identica alla “montagna polare” di cui si parla, sotto nomi diversi, in quasi tutte le tradizioni: abbiamo già menzionato il Meru degli Indù e l’Alborj dei Persiani, come anche il Montsalvat della leggenda occidentale del Graal; citeremo ancora la montagna di Qâf degli Arabi della quale è detto che non si può raggiungere “né per terra né per mare”, e anche l’Olimpo dei Greci che, per molti aspetti, ha lo stesso significato (p. 86)». Ecco che ancora la montagna si conferma, letteralmente, l’ombelico del mondo che è a sua volta un altro simbolo equivalente, presente in tutte le culture antiche.
La montagna secondo la Bibbia
L’insistente ricorrere dell’immagine della montagna, sempre definita con gli stessi analoghi attributi, potrebbe essere documentata con interminabili enumerazioni di esempi remoti e sconosciuti al nostro solito corredo culturale. Non c’è spazio per insistere ad aggiungere dettagli che confermano il simbolo descritto nelle esemplari citazioni di Eliade e Guénon. Preferisco invece, esaminando il panorama più frequentato della nostra cultura occidentale, accennare ai testi che più scopertamente possono aver influenzato la nostra idea di montagna. Tra questi il primo posto spetta alla Bibbia che è un pilastro portante della nostra civiltà in tutte le sue manifestazioni, comprese quelle non religiose: dovrà pur essere legittimo sospettare un collegamento tra l’idea biblica di montagna (per un’indagine completa vedere il ricco repertorio di citazioni ragionate della collezione Schede bibliche pastorali, ed. Dehoniane. Bologna, 1974. scheda n. 213, Monte, a cura di Giuseppe Manzoni) e l’idea moderna che ne hanno gli alpinisti, se, per ricorrere a un precedente celebre, il grande sociologo Max Weber ha dimostrato lo stretto legame tra l’etica protestante e lo spirito del capitalismo.
Nel Vecchio e nel Nuovo Testamento il monte viene impiegato continuamente come sede delle manifestazioni più importanti del sacro: lo stesso simbolo si adatta lungo tutta la tradizione giudaica e cristiana a sorreggere lo sviluppo delle diverse concezioni teologiche, dal primo libro, la Genesi, all’ultimo, l’Apocalisse. I monti sono simbolo della potenza di Dio che li fa tremare e li può bruciare dalle fondamenta, ma l’onnipotenza di Dio, secondo la promessa di Cristo, si metterà al servizio di chi avrà piena fede in lui: «trasporterà le montagne», ossia farà cose impossibili alle forze umane e supererà ogni difficoltà. “Sollevo i miei occhi verso i monti da dove viene la mia salvezza (Salmo 36,7)”.
Come per le altre religioni, anche secondo la Bibbia, i monti a cui sono assimilati tutti i luoghi elevati (colline, alture, fino ai tumuli e le pietre del sacrificio), sono i luoghi del culto, dove si effettuano i riti religiosi, i sacrifici, la preghiera. Su una montagna Abramo deve sacrificare il figlio Isacco, sul monte Sinai Iddio si rivela a Mosé e gli consegna la sua legge. Gli eventi divini che durante l’esilio degli israeliti si manifestano sul Sinai, raggiunta la stabilità della «terra promessa», si manifesteranno sul monte Sion (che è in realtà una collinetta), su cui si costruisce il tempio e attorno a cui si edifica la capitale Gerusalemme: il monte Sion diviene come il perno della nazione, perché ivi è stabilita la dimora di Dio, come sappiamo della «montagna sacra». Secondo i Vangeli, Gesù che si pone come erede e compimento della tradizione ebraica, predilige i monti per la sua predicazione, per ritirarsi a pregare, per la trasfigurazione che è la manifestazione della sua grandezza divina; dal monte degli Ulivi predice la distruzione del tempio e di Gerusalemme e al termine della sua missione terrena ascende al cielo; sul monte Calvario consuma il sacrificio della sua crocifissione. Sovente i monti, che non sono veri monti, rivelano a prima vista il loro significato simbolico di «montagna sacra»: quello che è noto come «discorso della montagna», che è il nucleo dell’insegnamento cristiano, secondo l’evangelista Luca (di cultura ellenistica, meno sensibile all’influenza giudaica che fa operare a Matteo un parallelismo con la consegna della legge a Mosè sul Sinai), viene pronunciato in un luogo pianeggiante; come pure il Calvario non è affatto un monte, ma lo diviene per l’importanza teologica che gli si attribuisce.
È lucidamente consapevole della funzione simbolica della montagna lo stesso Gesù (che anche così manifesta la straordinaria modernità del vero riformatore) nell’importante conversazione con la donna samaritana. «Gli replicò la donna: “Signore, vedo che tu sei un profeta. I nostri padri hanno adorato Dio sopra questo monte e voi dite che è Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare”. Gesù le dice: “Credimi donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre. (…) Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità. “» (Giovanni, 4, 19-21; 24). Sembra una tappa fondamentale del processo di «laicizzazione» della «montagna sacra».
Anche le ultime sorti dell’umanità si giocheranno sulla “montagna sacra”, sia secondo la letteratura profetica del Vecchio Testamento che preannuncia la venuta del Messia, sia secondo l’Apocalisse di Giovanni che descrive la vera venuta del Salvatore, l’Agnello, a giudicare la storia, dopo la suprema lotta fra le forze del bene e le forze del male nella battaglia di Harmaghedòn, che vuol dire «Montagna di Meghiddo» (Apocalisse, 16, 17).
«Avverrà che, alla fine dei giorni,
si ergerà il monte del tempio
di Jahvé
sulla cima, dei monti
e si innalzerà sui colli;
a esso affluiranno tutte le genti.
Verranno tanti popoli dicendo:
Venite, saliamo
sul monte di Jahvé (Isaia, 2, 2-3)».
«E venne uno dei sette angeli che hanno le sette coppe colme dei sette flagelli, gli ultimi, e parlò con me dicendo: “Vieni, ti mostrerò la sposa, la donna dell’Agnello”. E mi portò nello spirito sopra un monte grande e alto, e mi mostrò la citta santa, Gerusalemme, che scendeva dal cielo, da presso Dio, in possesso della gloria di Dio (Apocalisse, 21, 9-11)» .
Omero, Dante e altri miti occidentali
II tema dell’ascesa alla montagna sacra nelle tradizioni occidentali più prossime al nostro retroterra culturale si accompagna di preferenza al tema del viaggio. Navigazioni, pellegrinaggi, errabondare sono materia di importanti miti e leggende che esprimono l’istinto «fatale» dell’uomo di conoscere l’ambiente sfidando ogni genere di difficoltà. Il mito di Ulisse, popolarizzato dall’Odissea fino ai nostri banchi di scuola, costituisce l’esemplare più completo e molteplice: Ulisse subisce, come una condanna degli dei, il destino di vagare per mare per dieci anni prima di tornare a casa e forse ci si dimentica che, una volta tornato e vendicatosi dei rivali, dovrà ripartire ancora secondo la volontà degli dei. Noi uomini evoluti tendiamo a credere che le storie di Ulisse esprimano, nella storia della civiltà, l’esigenza dell’«uomo economico» di esplorare il mare per aprire la strada ai traffici del commercio, ma è facile dimostrare come riduttiva questa lettura. Omero non concede mai ragioni sensate per le prove del suo eroe: è un viaggio insensato perché privo di uno scopo e compiuto rinunciando al richiamo domestico, per navigare sul mare che il poeta definisce sempre come «luogo dove non si vendemmia», ossia sterile e improduttivo. Se proprio occorre dargli un senso, Omero preciserà che si tratta di una vendetta degli dei, come dire che non esistono ragioni umane. Non ha dubbi Dante che nella Divina Commedia riprende e completa a modo suo il mito di Ulisse: più forte del richiamo del sesso e degli affetti della famiglia e della patria, agisce l’orgoglioso spirito di conoscenza che, nell’esprimersi come volontà di dominio, diventa sfida a Dio che conduce alla morte.
“Considerate le vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e conoscenza (Inferno, canto XXVI, v. 118-120)”.
Nel panorama dantesco rispunta con clamorosa evidenza la «montagna sacra» completa di tutti gli attributi canonici e coerente con una precisa cosmologia (struttura della realtà), che Dante fa sua riunendo tradizioni remote e disparate a cui ho già accennato.
“Quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avea alcuna (Ivi, v. 133-136)”.
È la montagna del Purgatorio che si situa, in corrispondenza del polo dell’altro emisfero, sull’Asse del Mondo, isola perduta nell’immensità dell’oceano e irraggiungibile, ai confini invalicabili con l’aldilà, teatro di vicende ormai spirituali, perno centrale dello stesso viaggio artistico e simbolico di Dante (una discesa agli inferi per l’ascesa ai cieli) verso la perfezione della conoscenza che è Dio.
Identica immagine rispolvera più di recente Guido Gozzano in una poesia fantastica La più bella, divulgata presso il grande pubblico da una canzone di Francesco Guccini, «L’isola non trovata», che la riprende pari pari:
“La segnano le carte antiche dei corsari.
…Hisola da trovarsi?… Hisola pellegrina?…
E’ l’isola fatata che scivola sui mari;
talora i naviganti la vedono vicina…
S’annuncia col profumo, come una cortigiana,
l’Isola Non-Trovata… Ma, se il pilota avanza,
rapida si dilegua come parvenza vana,
si tinge dell’azzurro color di lontananza… (Gozzano, Guido, da Poesie sparse, in Poesie e prose, Garzanti, Milano,1961)” che è l’immagine dell’illusione inafferrabile, sempre coltivata e mai esaudita.
Come già si è detto, sulla cima della montagna sacra la tradizione cristiana pone il Paradiso Terrestre: oltre che da Dante, questa concezione è testimoniata da frequenti leggende della devozione medievale, come racconta un raro e anonimo Viaggio di tre santi monaci al Paradiso Terrestre (In: Miscellanea di opuscoli inediti e rari dei secoli XIV e XV, Prose, vol. I, Unione tipografico-editrice, Torino, 1861, pagg. 164-179) che esemplarmente comincia: «II Paradiso Terrestre, che è in questo mondo, in terra nelle parti d’oriente, e’ istà sopra un monte altissimo sopra tutti gli altri monti del mondo, tanto è altissimo; del quale Paradiso escono quattro fiumi, i quali cerchiano una “parte del mondo, tanto è altissimo…».
Sorvolo sulla complessa riflessione di Francesco Petrarca dopo la «scalata», al Mont Ventoux, che ricorre all’insegnamento di Seneca e di S. Agostino, nientemeno, per evidenziare l’«insensatezza» di conquistare le montagne e nondimeno si è reso protagonista dell’episodio storico che rompe il tabù e l’oblio delle montagne, a lungo garantito e motivato dall’interdizione del sacro. L’idea originaria della montagna sacra si evolve, viene accantonata, a vantaggio della montagna geografica che produrrà l’alpinismo. Ma occorrerà riparlarne se vogliamo, chiarire perché l’alpinismo attivo non sia nato prima dell’inizio della rivoluzione industriale e dell’illuminismo, mentre il mare e le altre regioni «orizzontali», ignote e non meno pericolose di quelle «verticali», sono state sfidate fin dalla più remota antichità.
Il rito sublime di scalare (e morire)
Oggi che le evidenti certezze della scienza hanno affermato la conoscenza universale, fondata sul principio di causa ed effetto e al servizio dell’utilità, i veri miti sono caduti nell’oblio, sono diventati letteratura e i simboli si sono appannati e impoveriti fino a ridursi a segnaletica convenzionale impiegata per la sua utilità. Ma sappiamo anche che le facoltà simboliche del nostro spirito non si sono esaurite. Semplicemente non siamo più abituati a riconoscere i simboli che si manifestano e si propagano al di fuori dei percorsi logici della razionalità, lungo i percorsi governati da una logica diversa, sconosciuta alla ragione, dell’immaginazione e del sogno. «Le coeur a ses raisons que la raison ne connaît pas» direbbe Pierre Pascal.
Per questa ragione è lecito chiedersi se dietro all’«insensata» pratica di scalare le montagne non operi, con modalità che non è facile definire e dimostrare, qualche schema simbolico coerente con l’«archetipo» di montagna che ci portiamo dietro dall’antichità, del quale si è dimostrata la continuità.
Senza pretendere conclusioni e spiegazioni definitive, per limitarmi ad un esempio, l’impiego della funzione simbolica in alpinismo è facilmente riconoscibile nell’apertura di nuove vie e nella loro ripetizione: una volta esplorata la montagna da tutti i suoi versanti, attraverso itinerari che si usa considerare logici ed estetici (come giustificazione sopravvivono brandelli del principio di utilità) non si cessa di aprire nuove vie ancora più difficili, quando se ne offra la possibilità. Quella montagna ha sicuramente perso i connotati geografici concreti, si è vestita di astrazione e di carica simbolica, è diventata puro terreno di prova dove cimentare la propria capacità di farcela ad uscire dalla via, non per trovare via libera verso un risultato (la vetta), ma semplicemente verso la fine delle difficoltà, al di fuori delle quali esiste soltanto il limbo dell’attesa di nuove vie con nuove difficoltà.
È abbastanza fondato il sospetto che l’alpinismo esprima qualcosa di analogo all’idea di montagna degli antichi. Ad esempio, l’istinto di conoscenza (che presso la nostra civiltà si traduce nella volontà di dominare e possedere), in virtù del quale si affronta ogni genere di difficoltà (la lotta contro il limite e contro la morte) per strappare alla vita il suo segreto. In altre parole, come l’eroe dei miti antichi sfida la morte per raggiungere la dimora degli dei e l’immortalità scalando la montagna sacra, così forse l’alpinista rinnova in forma laica il rito di scalare le montagne, lottando e vincendo contro i limiti della condizione umana, per provarne soddisfazione, che equivale a raggiungere una qualità superiore di esistenza: si capisce che in questa visione si accetta la morte come il momento culminante della vittoria e della liberazione.
René Daumal (maggio 1944). Foto: Luc Dietrich
Illustri montagne letterarie: Mann e Daumal
Cenni di conferma a questa idea si possono rintracciare, espliciti e autorevolissimi, nella Montagna incantata di Thomas Mann (Mann, Thomas, La montagna incantata (2 voll.), Dall’Oglio, Milano). Per aggirare l’intimidatoria mole del romanzo suggerisco di leggere il capitoletto «Neve» (pagg. 138-172 del II vol.), che conferma la centralità dell’esperienza «alpina» da parte del protagonista Hans Castorp, che compie una coraggiosa sortita con gli sci dalla grigia routine del sanatorio in cui è ricoverato. Come si sa, è in una cllnica per tisici che il grande romanziere tedesco sviluppa la lunghissima e minuziosa narrazione della sua amara metafora della condizione umana per la quale il dolore sta a fondamento dell’amore e la morte è in sostanza un’iniziazione alla vita.
Dunque rileggendo quelle pagine si ritrovano dichiarati, e così moderni che li sentiamo solidali con la nostra esperienza, quei temi che ormai risuonano famigliari. L’ascesa: «Le masse turrite delle Alpi coperte di neve risvegliavano sentimenti di elevazione e di santità (p. 141)». Il rischio: «Aveva conosciuto l’entusiasmo che proviene dal lieve contatto amoroso con potenze i cui abbracci completi sarebbero mortali (p. 147)». La solitudine: «Ed una specie di commozione lo prese, una semplice e devota simpatia per il suo cuore, quel cuore umano pulsante, tanto solo lassù nella gelida vacuità, con la sua domanda, col suo mistero. Continuò la sua strada, sempre più su, verso il cielo (p. 149)». La paura: «Tuttavia non si decideva a fuggire innanzi tempo; la paura, la sua sincera paura in cospetto degli elementi lo opprimesse pure a suo piacere. Quel modo di comportarsi (…) si sarebbe potuto riassumere soltanto con una sola parola: provocazione. L’empio sentimento ad essa corrispondente è congiunto con tanta sincera paura, tuttavia, dopo averci riflettuto umanamente, si può press’a poco capire che nei substrati dell’animo di una persona, di un giovanotto, che per lunghi anni ha vissuto a somiglianzà del nostro eroe, si «accumulano» certe cose che un bel giorno scoppiano sotto forma di primitivo “E che importa!”, oppure “Avvenga ciò che vuole”, espressione di impazienza esacerbata, di provocazione insomma, di rifiuto ad una scaltra prudenza (p. 152)». Un sincero alpinista non direbbe meglio.
La prima edizione italiana (1968) de Il Monte Analogo
Tengo per ultima, perché è la più affascinante e moderna, la storia di un gruppo di veri alpinisti che organizzano un’incredibile spedizione per scalare la montagna sacra, che viene narrata da René Daumal nel già celebrato Il Monte Analogo (Daumal, René, Il Monte Analogo – Romanzo d’avventure alpine non euclidee e simbolicamente autentiche, Adelphi, Milano, 1968. Richiede un po’ di pazienza per lo stile impervio, ma è di sicura utilità il breve saggio in appendice di Claudio Rugafiori). Testimonianza molto più che letteraria, considerata l’assiduità dell’autore con i testi induisti e il suo entusiasmo per la pratica dell’alpinismo, scoperto in occasione di un soggiorno in montagna per curarsi la malattia che lo spegnerà: è piuttosto una grande metafora di una vita ideale, sentita e vissuta da Daumal come itinerario progressivo di salita verso la conquista della conoscenza. L’analogia del titolo si riferisce appunto al legame di similitudine tra gli antichi miti e l’esperienza degli scalatori. Così Daumal riassume l’idea del romanzo in una lettera: «Sto scrivendo un racconto piuttosto lungo nel quale si vedrà un gruppo di esseri umani che hanno capito di essere in prigione, che hanno capito di dovere, prima di tutto, rinunciare a questa prigione (perché il dramma è l’attaccarvisi), e che partono in cerca di una umanità superiore, libera dalla prigione, presso la quale essi potranno trovare l’aiuto necessario. E lo trovano, perché alcuni compagni e io abbiamo realmente trovato la porta. Solo a partire da questa porta comincia la vita reale. Questo racconto avrà la forma di un romanzo d’avventure intitolato II Monte Analogo: è la montagna simbolica che unisce il Cielo alla Terra; via che deve materialmente, umanamente, esistere, perché se no, la nostra situazione sarebbe senza speranza (p. 145)».
Mi piace rilevare in conclusione, che tutta l’avventura, interrotta quand’era già ben avviata per la morte dell’autore, sia nata dalla pubblicazione di un articolo «che era un rapido studio sul significato simbolico della montagna nelle mitologie antiche. Le diverse branche della simbolica costituivano da molto tempo il mio studio preferito (ingenuamente credevo di capirne qualcosa) e d’altronde amavo la montagna da alpinista, appassionatamente (p. 14)». Anch’io, di certo più ingenuamente di Daumal, ho creduto di capirci qualcosa; così, più ancora che per lui, varrà per me la giustificazione della passione alpinistica.
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Me lo ero perso (nel 1980). Grazie per averlo ripubblicato qui.
L’unica certezza della vita è la morte, ma capire la vita è difficile, ogni essere umano è diverso perchè ha una sua vita e solo una sua vita.
Per far capire qualcosa alle persone di animo semplice vengono di continuo creati degli dei e dei miti ai quali loro possano credere e identificarsi.
L’alpinismo può essere un aspetto della vita di alcuni uomini, un loro modo di vivere, so solo che talvolta si incontrano e ne parlano con entusiasmo.
Per me tutto il resto serve per spiegare alle persone semplici alcune cose molto complicate.