Accanto alla classica haute-route Chamonix-Zermatt, le tentazioni e le malìe di un grande e selvaggio raid scialpinistico d’alta quota nella Val Ferret svizzera.
Intro
La riscoperta nei miei cassetti di questo articolo, pubblicato sulla Rivista della Montagna circa trent’anni fa, si lega alla mia fase di più intesa attività di raid in sci, specie in alta montagna. Questo articolo costituisce uno degli ultimi esempi del mio decennio editoriale (coincidente all’incirca con gli anni ’80) di articoli tecnici, cioè relazioni e monografie. Nell’ultima frangia di quella esperienza, l’introduzione prendeva sempre più spazio, con ragionamenti e considerazioni ideologiche (come in questo testo), e di fatto costituiva il vero punto nodale dell’articolo, a scapito della relazione tecnica, che scivolava in un ruolo di appendice finale. Sul piano editoriale, stavo preparandomi al “passetto” successivo, quello dei récit d’ascension autobiografici, a loro volta preparatori per l‘ulteriore svolta strutturale verso la narrativa piena che caratterizzerà quasi in modo esclusivo i mie scritti di montagna dalla prima metà degli anni ’90 fino verso il 2015. Pur mantenendo viva la narrativa anche ai giorni nostri, negli ultimi anni ho recuperato l’impostazione dell’articolo tecnico con l’introduzione “di peso” e la relazione collaterale: tale impostazione mi consente infatti di redigere una specie di editoriale (ovvero l’introduzione, in cui prendo posizioni su particolari temi di attualità della montagna) prendendo spunto dalle componenti tecnico-geografiche dell’annessa relazione.
La rilettura a distanza di trent’anni di questo articolo mi ha fatto tornare in mente l’episodio chiave di quel nostro raid in sci sul versante svizzero del Monte Bianco. In quella occasione, pur essendo tutti i presenti molto “agili” in alta montagna (molti erano degli affermati istruttori della Scuola SUCAI Torino, altri erano allievi brillanti, se non brillantissimi), il nostro gruppo era molto numeroso, diciotto se la memoria non mi inganna.
Nella discesa dalla Grande Lui sul Glacier de Saleina incontrammo un lungo pendio con ghiaccio affiorante: furono necessarie alcune corde doppie con i ramponi ai piedi e gli sci sullo zaino.
Le manovre di un gruppo così numeroso, anche se dinamico, portarono via molto tempo e, percorrendo il ramo collaterale del ghiacciaio, ci trovammo nel tardo pomeriggio sul pendio sopra alla cabane de Saleina. La neve marcissima e la pendenza molto accentuata di tale pendio ci fecero rinunciare alla discesa sul rifugio. Fu necessario affrontare un bivacco imprevisto, lì dove eravamo, sul ghiacciaio intorno ai 3100 m, nei pressi del Col de Tita Neire. Era fine marzo e in alta montagna è ancora pieno inverno, specie quando cala il sole.
Grazie alle esercitazioni di pernottamento in truna, svolte durante le uscite ufficiali della Scuola, tutti erano preparati ad affrontare un’evenienza del genere, seppur privi di sacco a pelo (in quanto i programmi prevedevano di dormire sempre in rifugio). Le esercitazioni di notti in truna non erano una novità recentissima della Scuola, ma durante i mei anni di Direzione furono rese sistematiche per il Secondo Corso (come allora chiamavamo l’SA2), proprio nell’ottica di fornire un’adeguata preparazione all’eventualità di un bivacco imprevisto.
Nell’occasione della Grande Lui tutti noi sapevano come affrontare la situazione: eravamo preparati sia tecnicamente (come costruire le trune) che emotivamente (per l’esperienza di averci già dormito nelle esercitazioni) e tutti erano stati previdenti anche nei dettagli, come avere capi di abbigliamento asciutti, guanti e berretto in più, un po’ di cibo per la cena e la colazione (ovviamente senza caffè caldo al mattino!). La notte fu serena, ma proprio per questo freddissima. Al mattino i corvi ci volteggiavano intorno incuriositi dalla nostra “ginnastica riscaldatoria”.
Come se nulla fosse, rimettemmo le pelli e risalimmo verso la testata del Glacier de Saleina, continuando imperterriti il raid.
Già al tempo avevo molto riflettuto sull’utilità delle esercitazioni di bivacco e ancor di più ci rifletto a distanza di trent’anni. Negli ultimi 15 anni circa le esercitazioni delle scuole di scialpinismo si sono sempre più concentrate sulla sistematicità delle ricerche artva, spesso le si fanno ad ogni uscita. E’ una scelta fondatissima, però, siccome il tempo non si dilata, questa focalizzazione un po’ maniacale nei confronti delle esercitazioni artva toglie spazio ad altre esercitazioni. Quante scuole si preoccupano di insegnare come si monta una barella di soccorso? Oppure come e perché si fa lo zaino in un certo modo e non in un altro? Oppure cosa occorre avere sempre dietro (dai capi di abbigliamento di riserva a cibo e liquidi aggiuntivi)? Per esempio una mia fissa nelle gite scialpinistiche anche di un giorno è avere sempre con me un frontalino che tengo nella patta dello zaino. Le giornate invernali e di inizio primavera sono corte, magari tira bufera, ci si perde facilmente, un piccolo infortunio o un contrattempo… ecco che il frontalino è fondamentale, per scendere all’auto anche al buio oppure per predisporre il bivacco. Non arrivo a dire che occorre privilegiare il frontalino a scapito dell’artva, ma dalla mia osservazione recente delle uscite delle scuole di scialpinismo mi pare di notare che ci si concentri spasmodicamente sui temi artva e spesso ci si dimentichi (per mancanza di tempo) delle restanti problematiche. Fra queste, non ultima la preparazione di un bivacco improvvisato. Anzi, agli skialper delle ultime generazioni manco passa più per la testa che si possa esser costretti a bivaccare. Nell’era dello scialpinismo “mordi e fuggi” nessuno immagina che il bivacco possa capitare anche in una semplice uscita in giornata. Le domande che si dovrebbero porre le scuole sono del tipo: gli scialpinisti sono tutti preparati a questa eventualità? Sanno come affrontare un bivacco? Hanno l’abbigliamento aggiuntivo di riserva? Sanno costruire una truna? Magari una ricerca artva in meno e una truna in più (durante le uscite delle scuole) completano la preparazione degli allievi per le loro uscite private.
Nella taverna di Lillas Pastia
di Carlo Crovella
Foto: Carlo Crovella
(pubblicato sulla Rivista della Montagna n. 118, maggio 1990)
«Prés de remparts de Seville chez mon ami Lillas Pastia j’irais danser la séguedille et boire du Manzanilla… (Carmen, finale 1° atto)».
Anch’io ho avuto i miei amori. Pochi, forse, ma intensi, di quelli che ti lasciano dentro un segno profondo. Se ripercorro la mia vita, non posso fare a meno di suddividerla in tanti periodi, a ciascuno dei quali lego un ricordo particolare. Anch’io ho provato l’ebbrezza dell’innamoramento e, successivamente, la stanchezza del gesto ripetuto. Anch’io mi sono infiammato d’esaltazione e poi abbattuto per la disperazione: ho rabbrividito per il freddo alle gelide soste che interrompono la continuità delle cascate ghiacciate d’inverno; mi sono rosolato al sole delle falaises, assaporando il gusto dell’arrampicata senza vetta; nessuno può accusarmi di non aver respirato l’immensità delle pareti nord, ma nemmeno di aver rinunciato alle passeggiatine “salottiere” con le pelli di foca.
Ciò nonostante tra i miei amori, che non dimentico, ne esiste uno dall’essenza così cristallina da contrassegnare non un solo periodo della mia vita, ma tutta la mia esistenza.
È il raid in sci d’alta quota, quella disciplina che racchiude in sé tutte le componenti dell’andare in montagna: occorre infatti destreggiarsi con gli sci, ma padroneggiare a puntino anche le tecniche alpinistiche. Si affronta ogni tipo di terreno: neve, ghiaccio, roccia. Occorre sfoderare arguzia e resistenza fisica; è necessario conoscere l’alta montagna e in particolare sapersi muovere a proprio agio su terreni glaciali. L’isolamento rende più importante la prudenza e la prevenzione dei pericoli: la caratteristica di non scendere a valle per più giorni impone la necessità di trovare il giusto compromesso tra un’abbondante attrezzatura, sufficiente per fronteggiare ogni evenienza, e la leggerezza del carico, al fine di essere più veloci.
Il vero raider (a suo modo un lupo di mare delle alte quote) sa calibrare la composizione del suo zaino, così da non trovarsi impreparato di fronte al pericolo, ma contemporaneamente senza accusare ritardi nella tabella di marcia, in conseguenza di un bagaglio elefantiaco. Sapersi “costruire” lo zaino giusto è un’arte che si affina solo con l’esperienza, dopo anni e anni di cavalcate su e giù per i monti. Però l’esperienza non è altro che la capacità di elaborare, con la nostra intelligenza, le sensazioni, le avventure, i ricordi che abbiamo vissuto. Ecco perché io sostengo che andare in montagna è anche un “fatto di testa” e non solo un insieme di emozioni o di eleganti movimenti fisici.
Se questo concetto vale indistintamente per tutte le discipline che, bene o male, rientrano nella definizione allargata di alpinismo, esso viene esaltato dalle caratteristiche che propone il raid in sci d’alta quota.
È vero che oggi, con la diffusione della pratica dello sci alpinismo, risulta piuttosto difficile trovare nell’arco alpino centro-occidentale il terreno di gioco dove liberare la propria sete di libertà e di avventura. Tuttavia, a cercare bene, si possono ancora individuare zone che, pur essendo ormai descritte fin nei minimi particolari dalle pubblicazioni specializzate, appaiono ancora sufficientemente isolate da permettere un contatto più profondo con la realtà dell’alta quota.
È il caso, per esempio, dei bacini glaciali de l’A Neuva e di Saleina nella Val Ferret svizzera, all’estremo lembo nord-orientale del massiccio del Monte Bianco. Si tratta di due valloni che, terminando sull’importante cresta orografica Mont Dolent-Aiguille d’Argentière, si estendono proprio a fianco del classico percorso dell’haute-route Chamonix-Zermatt. I due rifugi, che portano il nome del vallone in cui sono stati costruiti, evidenziano la profonda differenza che si è creata tra il vero raid d’alta quota e l’haute-route di massa. Infatti, sia la cabane de l’A Neuva che quella di Saleina, pur essendo aperte tutto l’anno e perfettamente attrezzate, non sono custodite durante il periodo primaverile: qui non è possibile entrare rumorosamente nella “salle à manger” e ordinare, schioccando le dita, un “repas complet”: Qui potrete solo gustare ciò che vi siete portati sulle spalle e non troverete il locale già riscaldato dal gestore. Per contro, da queste parti si trascorre il tempo con maggior serenità e nel silenzio più assoluto. Cosa, questa, che contrasta con la bolgia presente nei “grandi alberghi” disseminati lungo il percorso dell’haute-route. E il giorno dopo non si è costretti a incanalarsi, come ergastolani nell’ora d’aria, lungo il profondo solco che costituisce la pista dell’itinerario “ufficiale”, ma saranno l’istinto e, appunto, l’intelligenza a fare da guida nel dedalo di crepacci.
Questa particolare atmosfera, che riempie i miei giorni d’alta quota, è ciò che più mi affascina tra le caratteristiche dell’andare in montagna: esercita su di me un’attrazione irresistibile, una specie di “richiamo della foresta”. Infatti, quando mi capita di aprire una carta geografica che descrive una di queste zone isolate, mi pare che la montagna esprima promesse d’amore e di futuri attimi felici: un po’ come capita a Don José, brigadiere dei Dragoni, a cui la maliarda Carmen prospetta serate estasianti tra le mille tentazioni offerte dalla taverna di Lillas Pastia. Naturalmente le promesse si rivelano sovente delle eterne illusioni, ma forse l’alpinismo è sostanzialmente costituito da una catena di illusioni: il raid più bello, in fondo, è sempre il prossimo che si organizzerà. Così i ghiacciai dell’A Neuva e di Saleina sono diventati la mia “Taverna di Lillas Pastia”, quel luogo mitico di felicità estrema e di contatto con la natura così intimo da essere quasi irreale.
Un percorso non banale
L’itinerario di questo raid presenta una struttura ad anello che si fonda su due punti d’appoggio: i rifugi dell’A Neuva e di Saleina.
Pur essendo incustoditi, è buona norma segnalare alle sezioni proprietarie la propria presenza, telefonando in anticipo. Le caratteristiche tecniche del percorso impongono un’adeguata preparazione fisica e tecnica. In particolare ogni partecipante dovrà essere munito dell’attrezzatura alpinistica necessaria su terreno glaciale (corda, piccozza, ramponi, moschettoni, cordini), nonché di ARTVA, pala da neve e pila. È superfluo ricordare che, muovendosi in alta montagna, risulta necessario un abbigliamento adeguato.
Prudenza consiglia di comprendere tra l’equipaggiamento collettivo anche un fornelletto “globe trotter”: le cucine dei due rifugi sono adeguatamente fornite di pentole e legna da ardere, ma lungo tutto il percorso non si trova altra acqua se non quella ottenuta sciogliendo la neve. In ogni caso è possibile effettuare la tappa più lunga (la terza) con lo zaino leggero, perché si ritorna in serata allo stesso rifugio (cabane de Saleina).
Questo è il giorno in cui si conosce il terzo bacino glaciale che compone il versante svizzero del Monte Bianco: il Plateau du Trient, un vero mare d’alta quota, che suscita ancor oggi (nonostante le “ferite” della haute-route) le stesse emozioni provate dai pionieri dello sci in alta montagna. Marcel Kurz, nel suo Alpinismo invernale (Casa Sociale Editrice, Pinerolo 1928), descriveva il Plateau du Trient come un «calice splendente rabescato d’ombre azzurre e di pinnacoli dorati».
È vero che proprio alla porta d’entrata di questo meraviglioso regno (cioè alla Fenètre de Saleina) incontrerete le tracce della Chamonix-Zermatt, ma ciò non deve turbarvi, perché ve ne discosterete subito e in vetta all’Aiguille du Tour vi faranno compagnia solo altri sognatori come voi. Il raid si snoda complessivamente su terreni piuttosto impervi, che richiedono condizioni
di neve assolutamente assestata. Ciò impone di richiedere informazioni prima di partire, telefonando in valle (al Bureau des Guides di La Fouly, per esempio) o presso le sezioni proprietarie dei due rifugi. In particolare, può risultare problematico il tratto sottostante la cabane de l’A Neuva: vista la sua esposizione sud-est, non dovrebbe essere percorso nelle ore più critiche, e cioè quelle del primo pomeriggio.
Altri passaggi chiave sono costituiti dal primo tratto di discesa del Col de Saleina (ripido pendio ghiacciato), dall’ascesa all’Aguille du Tour (cresta di roccette innevate), dalle numerose zone crepacciate dei glaciers de Saleina e des Planereuses, ma soprattutto non bisogna sottovalutare l’erto canale che scende dal Col des Essettes sul Glacier de l’A Neuva (finale della quarta tappa). In conclusione, si tratta di un raid che collega tra loro itinerari già ampiamente percorsi e descritti (non per ultimo dal libro Monte Bianco, nel castello di neve e di ghiaccio cui si rimanda), ma ciò non deve far pensare che ci si muova su terreni banali e affollati. In realtà questo angolo del Monte Bianco conserva intatte le caratteristiche di isolamento e di impegno che solo la montagna, la “vera” montagna, sa dare.
Da mettere in agenda
I rifugi della zona.
Cabane de l’A Neuva: di proprietà della sezione Diableret del CAS, dispone di 26 posti, +41 27 783 29 79. Solitamente custodita da metà marzo a metà maggio, è sempre aperta e attrezzata di tutto punto. È dotata di telefono di soccorso, ma per informazioni e prenotazioni occorre telefonare alla sezione di Losanna, 0041/21/207070, al mattino; oppure a Martine Gabioud, custode, Podeminze CH 1937 Orsières, +41 (0)27 783 24 24, info@aneuve.ch.
Cabane de Saleina: non custodita, +41 27 783 17 00, ma sempre aperta e completamente attrezzata; custodita da marzo ad aprile. Dispone di 40 posti. La gestione fa capo a Etienne Uyttebroeck +41(0)27 783 17 00 e Roger Burri +41(0)32 835 23 91, geuytteb@gmail.com. Per ulteriori informazioni è possibile rivolgersi alla sede centrale del CAS a Berna, tel. +41 31 370 18 18, info@sac-cas.ch.
I telefoni utili. Bureau des Guides, La Fouly, Rte de Ferret 17 – 1944 La Fouly, +41(0) 27 783 31 38, guide@netplus.ch. Office du Tourisme de Champex, +41 27 775 23 83.
Il raid in cifre. Località dipartenza: La Fouly 1593 m (Val Ferret svizzera). Dislivello totale in salita: 3990 m (4230 con le varianti).
Difficoltà: OSA (portare corda, piccozza, ramponi, attrezzatura alpinistica). Epoca consigliata: fine marzo-metà giugno.
Carte e guide. CNS 1:50.000 f. 282 Martigny; IGN 1:25.000 f. 3630 ouest Chamonix- Mont Blanc; Lorenzo Bersezio-Piero Tirone, Monte Bianco: nel castello di neve e di ghiaccio, CDA, Torino, 1983; Anselme Baud, Les Alpes du Nord à skis. Denoël, Parigi, 1983; Livia e Amilcare Bertolini, Guida sciistica della catena del Monte Bianco, Sperling & Kupfer, Milano 1939.
Accesso. Da Aosta, attraverso il traforo del Gran San Bernardo, si raggiunge Bourg St. Pierre. Proseguendo in direzione Martigny, ad Orsières si imbocca il bivio per la Val Ferret svizzera, che si percorre interamente fino a La Fouly 1593 m.
Il percorso
• 1 – La Fouly 1593 m – Cabane de l’A Neuva 2785 m
Dislivello: 1200 m
Tempo: 3.30-4 ore
Da La Fouly, attraversato il torrente, si imbocca l’ampio vallone che scende dal Glacier de l’A Neuva e lo si risale in direzione ovest-nord-ovest. Approfittando di un’antica morena laterale che facilita il cammino, si giunge nei pressi di uno sbarramento roccioso, il cui superamento viene effettuato attraverso un canale compreso tra il salto di rocce e la lingua terminale del ghiacciaio a sinistra. Si raggiunge così il colletto poco sopra il risalto roccioso quotato 2091 m. (Pericoli: caduta di pietre e blocchi di ghiaccio). Si prosegue nuovamente in direzione ovest nord-ovest, tenendosi fuori dal ghiacciaio. Verso i 2200 m si piega decisamente verso nord e, scavalcata una morena, si punta verso la ripida bastionata delle Essettes. Si risale questo tratto, piuttosto inclinato, cercando di non andare troppo alla propria destra, dove il pendio viene progressivamente sostituito da salti rocciosi, né troppo a sinistra, dove incombe la seraccata superiore. L’itinerario migliore consiste nel raggiungere il rifugio con un traverso, verso destra, dopo essere saliti poco oltre la quota dell’edificio, in direzione del ghiacciaio.
• 2 – Cabane de l’A Neuva 2785 m – Grande Lui 3509 m – Col de Saleina 3419 m – Cabane de Saleina 2691 m
Dislivello: 730 m in salita e 820 in discesa
Tempo: 3.30 ore in salita; 2.30 ore in discesa
Dal rifugio si sale in direzione nord-ovest e si mette piede sul ghiacciaio verso quota 2900 m circa. Si continua nella medesima direzione fino ad aggirare l’isolotto roccioso quotato 3040 m, lasciandolo alla propria sinistra. Accedendo al pianoro superiore del ghiacciaio, la direzione di marcia (ovest) diventa parallela ai grandi crepacci che caratterizzano questo tratto. Lasciato alla propria destra il Col de Saleina, si punta verso la vetta della Grande Lui che si può raggiungere direttamente risalendo il ripido pendio sud (ramponi), oppure percorrendo la cresta sud-est, dopo aver lasciato gli sci alla sella nevosa ad ovest del gendarme.
Dalla vetta si torna (versante A Neuva) fino al pianoro glaciale a quota 3300 m circa dove, con un traverso verso est, si guadagna il Col de Saleina. Dal colle occorre scendere il primo ripido pendio (ramponi, probabile crepaccia terminale). Da qui è possibile raggiungere la cabane de Saleina attraverso più itinerari.
Il primo, più classico, consiste nel puntare direttamente (direzione nord, crepacci) verso il pianoro del Glacier de Saleina, che si raggiunge a quota 2870 m. In seguito, voltando a destra, si percorre il valloncello glaciale all’estremità sud del ghiacciaio, che si abbandona a quota 2600 m, in corrispondenza dei salti rocciosi discendenti dalla Grande Pointe des Planereuses. Proseguendo nella medesima direzione (est) anche fuori dal ghiacciaio, si raggiunge il rifugio in leggera salita.
La seconda alternativa consente di lambire la bastionata del Petit Darrey e di traversare (a quota 3170 m circa) in direzione del Tita Neire. Nei pressi del colle omonimo, piegando a sinistra, si cala sul Glacier de Saleina (delicato), raggiungendo l’itinerario precedente poco prima del punto in cui si esce dal ghiacciaio. Volendo attraversare fin sotto il Col des Planereuses 3030 m, è anche possibile, valicando il costone che scende dall’omonima punta, portarsi sul Glacier de l’Evole e calare direttamente sul rifugio (traverso delicato in corrispondenza della Pointe des Planereuses).
• 3 – Cabane de Saleina 2691 m – Fenètre de Saleina 3261 m – Aiguille du Tour (Cima Sud) 3542 m – Col Droit 3246 m – Cabane de Saleina
Dislivello: 1000 m (+235 m se si effettua la variante)
Tempo: 8-10 ore, di cui 4-5 (+1.30) per la salita
Dal rifugio, ritornati sul Glacier de Saleina, lo si rimonta in direzione ovest, ponendo attenzione alla zona fittamente crepacciata verso quota 2700 m. Poco oltre, in corrispondenza del bacino laterale che cala direttamente dalla Grande Lui, conviene attraversare il ghiacciaio pianeggiante e contornare a destra l’isolotto roccioso quotato 2944 m. È anche possibile attraversare il ghiacciaio prima della zona crepacciata (cioè verso i 2650 m) e risalirlo sul suo lato sinistro orografico. Si prosegue in direzione ovest-nord-ovest imboccando l’anfiteatro che, racchiuso tra la Grande Fourche e le Aiguilles Dorées, culmina con la Fenètre de Saleina 3261 m. L’ultimo breve pendio costringe a togliere gli sci. Valicato il colle, si percorre il Plateau du Trient in direzione nord-ovest, cercando di non perdere quota. Per salire sull’Aiguille du Tour, si oltrepassa la terminale e, per un ripido pendio e roccette innevate, si guadagna una evidente spalla della cresta nord-est che si segue fino in vetta. Calzati nuovamente gli sci, si attraversa il Plateau du Trient puntando dapprima verso les Aiguilles Dorées (direzione sud-est) e, costeggiato successivamente il loro versante settentrionale, si perviene al Col Droit 3246 m. Riaffacciatisi sul versante Saleina, si discende una gobba glaciale, piuttosto ripida, fino alla forcella 3110 m, dove inizia uno sperone roccioso. A questo punto piegando a sinistra, è possibile risalire il Glacier des Ravines Rousses in direzione del Portalet 3344 m la cui cima si raggiunge lungo un ripido canale, da percorrere con i ramponi. Viceversa, dalla forcella 3110 m, si discende (sud-ovest) l’invitante Glacier des Plines e la successiva comba, giungendo così sul pianoro del Glacier de Saleina, poco a valle (sud) dell’isolotto roccioso quotato 2944 m. A questo punto, percorrendo a ritroso l’itinerario di salita, si ritorna al rifugio.
• 4 – Cabane de Saleina-Col deTita Neire 3157 m – Petit Darrey 3508 m – Col de Créte Sèche 3024 m – Col superieur des Essettes 3113 m – La Fouly 1593 m
Dislivello: 1070 m in salita e 2080 m in discesa (2140 m con la variante)
Tempo: 7.30-8 ore di cui 4.30 per la salita
Dalla cabane de Saleina si raggiunge il Col de Tita Neire 3157 m risalendo il Glacier de l’Evole oppure, in alternativa, il ramo laterale del Glacier de Saleina (vedi 2a tappa). È anche possibile valicare il Col des Planereuses 3030 m (più scosceso) e raggiungere il Glacier du Darrey, contornando poi la cresta est-sud-est del Tita Neire. Si risale quindi il Glacier du Darrey fino al suo circo terminale. Ci si porta a destra e si raggiunge, risalendo in ultimo un ripido pendio, una sella posta sulla cresta est del Petit Darrey. Dalla forcella si percorre la cresta, dapprima nevosa e in ultimo rocciosa, fino in vetta. Si scende il Glacier du Darrey, puntando alla base della cresta est-sud-est del Tita Neire e si giunge così sul pianoro (posto a quota 2950 m) del Glacier des Planereuses. Occorre tenersi proprio sotto la parete del Tita Neire per evitare una zona crepacciata e seraccata. Per ritornare nella comba de l’A Neuva, è necessario valicare dapprima il Col de Créte Sèche 3024 m e, attraverso il Glacier de Treutse Bô, il successivo Col Superieur des Essettes 3113 m (quotato, ma innominato sulla carta IGN). La discesa da quest’ultimo avviene per un ripido couloir lungo un centinaio di metri che cala sul Glacier de l’A Neuva, dove, svoltando a sinistra, ci si dirige verso la cabane de l’A Neuva. Questo couloir non è visibile direttamente dal rifugio, poiché si presenta incassato nella bastionata rocciosa delle Pointes des Essettes: per la sua ripidità e la possibile presenza di ghiaccio, può richiedere la discesa senza sci. Infine, dal rifugio si scende lungo l’itinerario di salita fino a La Fouly, prestando attenzione al tratto sottostante la capanna.
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Caro “Charly”
complimenti per l’ottimo articolo e le commoventi fotografie.
Mannaggia che bel gruppo di allegri ragazzini eravamo….
Al
Grazie Charlie per averci riportato alla memoria quel meraviglioso trekking e in particolare l’impresa della truna… grande emozione nel ripensare ai momenti ‘tesi’ in cui abbiamo dovuto prendere quella decisione seguita dalla gioia, al mattino, di vedere splendere il sole, ma anche grande nostalgia del gruppo e di quelle esperienze condivise!
Concordo con Carlo che lo sci di raid è la quintessenza dello scialpinismo.
Per tanti e ovvi motivi è anche il più difficile da praticare. Si finisce così, ed è un’autocritica, a praticare di preferenza quello che lui definisce “scialpinismo mordi e fuggi” rinunciano a quelle sensazioni uniche che sono ben descritte nel godibilissimo articolo. Vedremo se raggiungendo la pensione ed avendo finalmente il tempo per programmare, organizzare ed eseguire qualche bel raid di più giorni, le forze saranno sufficienti per farlo…
Ciao ragazzi non c’ero in quella traversata ma mi ricordo sempre di tutti voi con i quali ho condiviso momenti indimenticabili e che serbero’ sempre nel cuore.
Danilo Bongiovanni
Crovella il Martellatore.
Lo sapevamo anche qui.
(risata)
ho fatto solo una breve esperienza in quell’ambiente ma ricordo bene che tutti, soprattutto Crovella, ti martellavano in testa le cose da fare però alla fine del corso le sapevi fare a occhi chiusi. ancora adesso preparo le gite come l’ho imparato allora
Anno 1976, conobbi ,alla mia prima supplenza in Scuola Media di Montagna Dolomitica, un collega.Una chiacchera tira l’altra, emerse comune passione per le escursioni.Mi racconto’ che con un nutrito gruppo di soci locali Sat, avevano in estate piena intrapreso salita al monte Vioz per una via su ghiacciaio.Li colse una improvvisa(allora il Meteo non era tanto accurato su scala locale) bufera di vento e neve che duro’ due giorni..sopravvissero perche’ le due Guide alpine (in paese non mancavano di certo, c’era imbarazzo della scelta) accompagnatrici fecero scavare con piccozze e caschi una truna , trovarono un qualche modo di coprirla e dentro tutti con i piedi infilati negli zaini, addosso tutto l’abbigliamento e fondo schiena seduto su strato formato dalle corde. Corpi vicini a formare una stufa a calore umano. Se la cavarono..entrarono in cronaca e il collega riporto’un pricipio di congelamento alle dita dei piedi..ancora dopo mesi faceva il”bagnetto svedese”ossia immersione alternata delle “fette” in tinozze di acqua fredda e calda . Altri allievi scuola alpina Finanza, inpieno inverno, al bar raccontavano di aver fatto compo invenale al distaccamento al passo Rolle, con tanto di preparazione trune ed igloo e pernottamento interno.
Molto interessanti le considerazioni circa l’abitudine delle scuole di concentrarsi sulle esercitazioni artva, tralasciando o quasi il resto.
Bell’articolo, belle foto, complimenti! Evviva i raid, la Sucai, la Rivista della montagna, gli innamoramenti, i favolosi Anni novanta!
Bell’articolo stimolante. Grazie
Ho letto con interesse questo articolo di Charlie. Questo per molti motivi: in primis perchè ritengo che i raid siano la maggiore espressione dello scialpinismo, poi perchè i luoghi descritti sono per buona parte compresi in un raid fatto tanti anni addietro, ma in senso contrario. Condivido dunque le impressioni che sono state descritte di posti appartati, fuori dalle tracce più battute ma al tempo stesso meravigliosi, tali da fare affiorare una grande nostalgia. Per me è indimenticabile la discesa dalla Grande Lui sino a La Fouly, 2000 di dislivello su firn perfetto.
Certo che la notte in truna è un valore aggiunto e quando si è ben preparati rimane un ricordo indelebile.
Grazie Carlo , bell’articolo !
La nostra mitica impresa che resta ben impressa nei ricordi, ai quali si aggiunge la dolcezza di riscoprire i prati verdi e i ruscelli in primavera al nostro ritorno in valle
Carlo, i tuoi articoli sullo scialpinismo, in particolare quelli con riferimenti autobiografici, sono sempre interessanti. Continua cosí.
Minimo un telo alluminato ..un materassino di espanso arrotolato..pesano poco..oltre a tutto il resto saggiamente consigliato comprese esercitazioni e prove in truna.La peparazione dello zaino rapportata al percorso programmato, e ‘ un noto rompicapo della RicercaOperativa( nicchia nella” matematica applicata”)
https://it.wikipedia.org/wiki/Problema_dello_zaino
Ma piu’ che risolvere sistemi di equazioni con limitazioni, conta l’esperienza o l’addestramento sotto consiglio di un esperto.
Tra le foto si notano indossatori delle rosse tute SAMAS(marchio ormai sparito).. di tela di cotone antistrappo. Chi ne ha avuto una ( io ancora in uso sebben riparata) sa che internamente avevano un accorgimento protettivo a scomparsa, utilizzabile alla bisogna e molto utile a proteggere certe zone anatomiche.