Nessun filtro, nessun divieto
Non credo che la peraltro non ancora terminata stagione invernale 2020-2021 sia stata più tragica del solito. Il mesto conto delle vittime non è ancora finito ma possiamo facilmente affermare che stiamo navigando nella norma. Solo per fermarci alle disgrazie che hanno avuto il triste onore di suscitare l’attenzione della cronaca, abbiamo visto il fantastico successo dei dieci nepalesi al K2 offuscato, ma direi quasi rafforzato, dall’emozione per i cinque alpinisti di varia nazionalità che non ne hanno fatto ritorno; sulle Alpi abbiamo assistito alla silenziosa scomparsa sotto valanga di tre grandi sciatori e alpinisti, Cala Cimenti, Patrick Negro e, ultimamente, Luca Pandolfi. Ho scelto di citare questi otto per la notorietà loro o della montagna su cui sono caduti o scomparsi. Ben consapevole che anche solo una superficiale ricerca su internet mi porterebbe ad elencare ben diversa cifra di disastri.
A questi otto si devono infatti aggiungere tanti altri, in particolare i quattro scialpinisti di Avezzano che il 24 gennaio 2021 sono stati vittime di una valanga nell’alta val Majelama, in Abruzzo. Per il recupero dei loro corpi ci sono voluti ben 27 giorni di ininterrotte ricerche e di sforzi coordinati del Soccorso Alpino, della Guardia di Finanza, della Protezione Civile regionale, dei Vigili del Fuoco, della Polizia di Stato e del IX Reggimento Alpini. Tecnici, militari e volontari hanno collaborato al compito del ritrovamento di Valeria Mella, Gianmarco Degni, Gianmauro Frabotta e Tonino Durante. Questo doveroso dispiegamento di forze, di energie e di denaro non è passato inosservato, anzi. Più passavano i giorni, più l’attenzione cresceva morbosamente e un sempre maggiore numero di persone si chiedeva quanto “colpevole” fosse stata l’egoistica scelta dei quattro di lasciare a valle gli affanni del CoViD-19 comuni a tutti e di “giocare d’azzardo con la montagna” fino alle estreme conseguenze, fino a provocare un così rumoroso e ingombrante recupero delle loro povere salme.
Sono certo che Guido Quintino Liris, Assessore al Bilancio della Regione Abruzzo con delega alle Aree interne e allo Sport, abbia agito in buona fede, e continui a farlo, preoccupato che l’Abruzzo, anche per la sua immagine e per il suo bene economico, debba “scommettere sulla sicurezza in montagna”. Ma nello stesso tempo sono anche sicuro che una tragedia come quella e l’attenzione che ne è conseguita, siano il terreno più fertile per giustificare il giro di vite alla libertà che da tempo si sta consumando nella nostra società. Perché buona fede e buona volontà si alleano con la generalmente sempre più diffusa pretesa di sicurezza a spese della libertà e soprattutto della nostra attitudine ad assumerci le nostre responsabilità.
Dal paesino di Forme, il campo base dell’intera operazione, si è originato il grande dubbio che si è immediatamente diffuso a livello regionale, ma anche nazionale. Ne è risultato un gran scrivere e parlare tra CAI, Università, guide alpine, istituzioni, opinioni pubbliche, e in tutto ciò si sono affacciate nuove ipotesi di provvedimenti, di disegni di legge: come se tutti assieme dovessimo sgravarci la coscienza. In realtà siamo afflitti dall’oscuro ma potente senso di colpa di non essere più responsabili di noi stessi e di neppure sapere che dovremmo esserlo: perciò pretendiamo che la soluzione al conflitto che ognuno ha dentro di sé venga dalle istituzioni, cioè dall’esterno. Ed è perfino inutile dire, a questo punto, che qualche rappresentante di queste istituzioni in tutto ciò vada a nozze, sempre in buona fede, s’intende.
“Mai più Forme! Non possiamo cancellare la tragedia, ma l’esperienza che abbiamo vissuto deve produrre sicurezza” dice Liris. Sono in tanti ad applaudire, anche tra i più commossi.
Viene stabilito un obiettivo, quello di impostare, per poi vararla in primavera, una legge regionale su questa materia. Il terreno è pronto. L’emozione a caldo di quell’episodio luttuoso ma anche teatrale si mescola alla consapevolezza che, anche per via del CoViD-19, la frequentazione turistica della montagna, estiva e invernale, sia fortemente aumentata già dall’estate 2020. E’ pure evidente che alcune stazioni non sono attrezzate, non sono preparate all’invasione in atto. Con il numero di presenze è aumentato anche il numero di interventi di soccorso, è quasi scontato. Lo spiega bene Liris, quando dice: “Nell’estate del 2020, dopo il primo lockdown, le nostre montagne hanno visto arrivare un numero mai visto di escursionisti, e anche gli interventi di soccorso sono aumentati in modo esponenziale… Tra qualche mese, in estate, avremo un afflusso ancora maggiore. E’ necessario ridurre gli incidenti, e se saremo capaci di farlo riusciremo anche a risparmiare. Far volare gli elicotteri costa caro, gli stessi fondi possono essere investiti in promozione e in prevenzione”.
Esaminando ancora quanto pronto il terreno fosse per la semina, quest’inverno si sono contati a decine i divieti dei comuni appenninici e alpini di praticare qualunque attività outdoor, dalle escursioni con le ciaspole al fuoripista fino ovviamente allo scialpinismo. Non si faceva certo distinzione tra escursioni pericolose e innocue passeggiate, complice pure la chiusura degli impianti sciistici. Ovvio che questi provvedimenti abbiano suscitato le proteste di associazioni, guide alpine, CAI: proteste che purtroppo sono rimaste inascoltate, mugugni spersi nel mare della convinzione generale che il nostro massimo bene sia la sicurezza e che ogni dignità individuale debba esserle sacrificata.
Sono trapelati i punti forti della nuova legge regionale abruzzese. Anzitutto l’obbligo delle ormai classiche apparecchiature individuali di sicurezza, ARTVA, pala, sonda e magari anche airbag. Sembrerebbe cosa da poco, visto l’ormai ben diffusa abitudine degli appassionati di partire per l’escursione tutti dotati del kit personale. In passato, in questo ha giocato un ruolo essenziale la didattica ufficiale: da quasi trent’anni ormai non c’è uscita di Scuola di Scialpinismo che non lo richieda. Ma, nella mia opinione, è proprio quando un obbligo non fa fatica ad essere accettato che è più pericoloso per l’individuale salute interiore. Liscio come l’olio o la vasellina…
Altro punto della proposta Liris è, nei casi di “evidente imprudenza”, l’introduzione di un contributo obbligatorio da parte delle persone soccorse che vada a coprire i costi che altrimenti sarebbe la Regione a dover affrontare. Già altre regioni italiane hanno istituito regolamenti similari: personalmente non sono contrario a queste disposizioni, per almeno due buoni motivi. Anzitutto ci sono molti modi per cautelarsi e affrontare conti anche molto salati: in genere basta l’iscrizione al Club Alpino Italiano e la sottoscrizione all’opzione assicurativa. In secondo luogo, lo spettro di essere esposti a pretese economiche può effettivamente contribuire a scelte e programmi meno azzardati. Ci si muove infatti in un campo ancora di libera scelta: sono io a decidere se espormi o meno. Nessuno mi obbliga.
Il terzo punto della proposta Liris è però quello più subdolamente pericoloso: l’istituzione di gate, specie di posti di blocco da installare ai punti di partenza degli itinerari più gettonati. Questi “filtri” dovrebbero essere assicurati da volontari ma anche da forze dell’Ordine, come già accade per esempio sulla via normale francese del Monte Bianco. Lo scopo è quello di bloccare la gente non equipaggiata in modo corretto. Ma anche quello di contingentare il numero di frequenze. A Saint-Gervais-les-Bains la prenotazione è obbligatoria. Il sottoprodotto (direi il più evidente danno collaterale) di queste costrizioni è il favorire la convinzione che basta avere la prenotazione o le calzature giuste (per esempio) per essere non solo “autorizzati” a procedere nell’avventura, ma anche convinti nell’intimo che in fondo non ci sia alcuna necessità di precedenti esperienze personali, in più pienamente assistiti in caso di incidente proprio perché si è avuto il nulla osta alla partenza, in un clima da “tutto garantito”!
La proposta Liris si rivolge a tutti i frequentatori, esperti e non, soci del CAI e non, giovani e non. Insiste su concetti del tipo “obbligo d’essere accompagnati se si è inesperti”, anche per favorire la quantità di lavoro delle guide alpine e degli accompagnatori. Riconosce l’esperienza del CAI e la vorrebbe “valorizzare”, spacciando come cultura della “buona pratica di montagna” ciò che invece il CAI vede ancora (per fortuna) come espressione di libertà e di auto-responsabilità. Le due posizioni sono antitetiche, ma è molto alto il pericolo che la forza volontaria del CAI si accodi alla marcia trionfale della “sicurezza prima di tutto”.
“Quello che so è che stiamo perdendo sempre più spazi e libertà. L’unica cosa di cui sono certo. L’emergenza CoViD-19 sta solo aumentando la velocità di un processo che era già in atto prima” mi scrive Alberto Sciamplicotti.
La Sezione del CAI di L’Aquila non ha tardato (24 febbraio 2021) a produrre un documento esemplare. Sono felice di ringraziare qui coloro che l’hanno firmato, il presidente Vincenzo Brancadoro e il vice-presidente Ugo Marinucci.
Qui potete leggere in versione integrale la lettera aperta del CAI di L’Aquila.
In sostanza rivendicano il diritto di tutti gli appassionati di sport della montagna alla pratica delle varie discipline in base alla valutazione personale dei rischi calcolati. Mentre scrivo queste righe il confronto con il team di Liris è ancora in corso.
Il documento si apre con la constatazione che molti comuni montani abruzzesi, a seguito di nevicate abbondanti, seguendo l’inveterata prassi degli anni precedenti, hanno emanato anche quest’anno ordinanze di completo divieto di qualsiasi attività in montagna nel territorio comunale di competenza.
In effetti l’Articolo 54, comma 4,del Dlgs 267/2000 (TUEL – Testo Unico delle Leggi sull’ordinamento degli Enti Locali) prevede che “Il sindaco, quale ufficiale del Governo, adotta con atto motivato provvedimenti, anche contingibili e urgenti nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento, al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana. I provvedimenti di cui al presente comma sono preventivamente comunicati al prefetto anche ai fini della predisposizione degli strumenti ritenuti necessari alla loro attuazione“.
Da studi e convegni, oltre che dai pareri dei Tribunali Amministrativi, sulla legittimità di queste ordinanze è risultato “che, nella quasi totalità dei casi, queste Ordinanze sono state emesse in violazione del citato Art. 54 del Dlgs 267/2000 che le prevede, mancando la cosiddetta ‘urgenza qualificata’. Infatti tali Ordinanze devono e/o possono essere emesse quando vi sia un evidente pericolo per ‘l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana’, mentre è chiaro che, invece, queste Ordinanze non si riferiscono affatto al contesto urbano di cui si parla nella Legge, su cui si estende la correlativa responsabilità amministrativa, ma riguardano l’esatto contrario, cioè l’ambiente montano e selvaggio, ben distante dal contesto urbano e da qualsiasi responsabilità dell’Amministrazione comunale”.
Va osservato che nel loro documento Brancadoro e Marinucci non citano la ben più recente disposizione del DPCM del 12 agosto 2019, che sostanzialmente dice che le ordinanze sindacali di divieto non hanno validità a meno che non siano suffragate da apposite perizie nivologiche (non solo da bollettino valanghe) puntuali e precise per luogo/pendio/versante e temporaneità di inizio e fine. Vedi a questo proposito https://gognablog.sherpa-gate.com/ordinanze-non-legittime/.
Il documento fa giustamente osservare che queste ordinanze che limitano oggettivamente la libertà individuale sono spesso considerate incostituzionali, perché la libertà personale può essere limitata soltanto da Leggi e non da Ordinanze comunali, magari anche emanate fuori dal contesto per le quali sono previste.
“La motivazione in base alla quale i sindaci dei nostri territori montani così frequentemente ricorrono a Ordinanze restrittive, è molto probabilmente riconducibile alla fortissima pressione mediatica che essi stessi sono costretti a subire: chiudere, interdire, vietare, divengono mezzi per tutelare l’Amministrazione stessa da non infrequenti azioni legali. In questi casi sarebbe, però, più intellettualmente onesto parlare di atti di autotutela, non a vantaggio della collettività”.
Considerazioni
Il documento del CAI L’Aquila si addentra poi in quattro riflessioni.
La prima riguarda il tema della pericolosità. C’è un evidente contrasto tra chi intende dedicare alla montagna il proprio tempo libero e chi, a volte anche “sollecitato da un sistema mediatico di divulgazione delle informazioni superficiale e allarmista”, ritiene quella scelta pericolosa, inutile, dunque non necessaria. Con questa logica, le attività inutili e pericolose sarebbero assai di più di quelle che si svolgono in montagna. Il documento fornisce le cifre di quanti, in Italia, annualmente sono vittime dello jogging (investiti da auto), del ciclismo, o semplicemente degli spostamenti turistici in automobile e motocicletta. Numeri di gran lunga superiori a quelli prodotti dagli incidenti in montagna.
Io aggiungerei le vittime del mare: sulle nostre coste, nessuno si preoccupa che “le tragedie debbano produrre sicurezza”.
E non si può continuare questo discorso senza accennare all’enormità di altri pericoli, ben più diffusi e generalizzati: tabagismo, alcolismo, gioco d’azzardo, droghe leggere e pesanti. Queste ultime in Italia non sono legalizzate, ma le prime tre lo sono eccome: sono fonti considerevoli di guadagno per la nostra Agenzia delle Entrate. Nessuno si sogna di limitare davvero l’uso scriteriato di sigarette, liquori e vino. Ci sono le bische clandestine, ma il gioco d’azzardo, con gli enormi danni sociali che produce, è legalizzato con i casino, con le sale bingo, con le squallide slot machine mangiasoldi. E’ facile osservare che tutto ciò è permesso perché rende somme importanti allo Stato e alle altre Amministrazioni. E siccome non si può imporre una tassa sulla frequentazione della montagna, allora ci si accanisce in questo balletto ipocrita di voler proteggere la nostra sicurezza, aggiungendo la scusa del buon nome della stazione turistica e del risparmio pubblico sulle spese di soccorso. Ma queste sono mie idee, preciso che nel documento di ciò non v’è traccia…
Una seconda riflessione del documento riguarda la responsabilità personale: i due autori sottolineano la differenza fra il pericolo per se stessi e quello per la collettività, che non è di poco conto. Insistono sul fatto che le ordinanze dovrebbero essere rivolte alla salute e all’incolumità pubblica in ambito urbano, senza investire l’ambito personale di chi ama l’ambiente selvaggio, dove non sia presente alcuna struttura umana per la quale si possa fare riferimento a qualche responsabilità di costruzione, di manutenzione o di malfunzionamento.
La terza riflessione pone attenzione all’evidente contraddizione tra quanto comunicato dalla promozione turistica, che dipinge comunque un territorio magnifico, selvaggiamente bello, che si appoggia a strutture e servizi turistici di prim’ordine, e tra quanto implicitamente suggerito dalle ordinanze di divieto: l’essenziale pericolosità del terreno montano che impedisce qualunque frequenza.
“L’ultima riflessione riguarda la necessità della data di scadenza che Ordinanze di questo tipo devono avere, non potendo essere quindi valide sine die; potrebbero semmai essere prorogate alla scadenza, ma una scadenza devono prevederla”.
Comunque si analizzi il problema, dal punto di vista dell’utente, dell’amministratore, del professionista o del giurista, in sintesi l’Autorità “può intervenire per bloccare chi mette in pericolo la sicurezza altrui, non chi affronta un pericolo per sua libera scelta”.
Il documento prosegue ricordando che nella frequentazione della montagna è sempre implicita una quota di rischio. Occorre valutare questa quota “imparando a riconoscerla e gestirla, grazie all’acquisizione di consapevolezza ed esperienza, percorrendo un cammino di apprendimento lento e progressivo; un percorso di responsabilità, umile ed accorto, che porti a saper valutare, prima dell’uscita sul terreno innevato– e successivamente in loco – le possibili insidie, legate alle mutevoli condizioni della meteorologia e del manto nevoso”.
Personalmente aggiungo che, a proposito di consapevolezza, trovo del tutto irresponsabile che si continui a parlare e scrivere di “gite” di scialpinismo. Così, senza riflettere, si indica la montagna innevata come terreno di gioco, luogo di divertimento dell’italiano in gita alla Paolo Conte. Al contrario, lo scialpinismo è la disciplina più pericolosa tra tutte quelle che si svolgono in montagna. Le cifre ufficiali lo confermano, pochi lo sottolineano. Vorrei che la parola “gita” venisse usata solo quando si va per sentieri estivi.
Davvero sintetica ed esemplare è la conclusione del documento, dove si ribadiscono concetti non così generali da poter essere dati per scontati. Si è voluto dare una giustificazione forte all’esigenza di libertà di cui fa prova la migliore anima del CAI, perciò ecco le Terre Alte giudicate afflitte da spopolamento, terremoti, incuria del territorio, ma anche mancanza totale di progettualità lungimirante. I fastidiosi divieti e le chiusure sono da considerare un allontanamento da quella strada maestra che il CAI considera per il futuro delle aree montane, il turismo lieve, “basato su un’organizzata semplicità“.
“Occorre lavoro e impegno per stimolare un turismo di massa, diverso e libero; servono lungimiranza e fantasia, per saper attrarre persone responsabili, educate e consapevoli. Certamente occorre anche prudenza nella pianificazione e nella realizzazione di infrastrutture, per le quali si fanno investimenti milionari con progetti di sviluppo, spesso tanto faraonici quanto miopi. Troppi ruderi, troppi tralicci, troppe stazioni sciistiche abbandonate e dismesse ci rammentano che il cambiamento climatico e quello socio-antropologico hanno scritto la parola fine in fondo alla narrazione degli iperbolici vantaggi, derivanti dal turismo di massa negli anni del boom economico, vantaggi che – semplicemente – non ci sono più”.
Personalmente ritengo che, comunque si affronti questo spinoso problema, alla base è la problematica evidente dell’assunzione di responsabilità. In una società in cui da tempo latita una figura paterna in grado di educare alla vita, di responsabilizzare i figli, di insegnare loro ad avere il coraggio delle proprie decisioni; in una società dove si preferisce il liquido amniotico materno delle norme di sicurezza portate spesso all’eccesso, perfino al delirio: in questa nostra attuale società non c’è alcuna reale via di fuga se non la risoluzione di questo problema. Accettare che si può effettivamente morire domani, o tra un attimo; accettare che non sarà mai in nostro potere il pieno controllo delle nostre azioni e neppure del nostro pensiero. E invece che dare ad altri le colpe o, nel caso dei divieti, i “meriti”, dobbiamo assumerci personalmente il compito di dirimere l’interna contraddizione di chi vuole vivere ma sa anche, o dovrebbe sapere, che tutto può finire domani. Quanto noi possiamo intervenire in quel processo che alcuni chiamano destino (o volontà di Dio) dobbiamo stabilirlo solo noi personalmente, con umiltà e con un cammino quotidiano tra lavoro, sentimenti, emozioni e doveri intimi che non provengano da nessun tipo di divieto. Perché il processo della nostra vita sia interamente nostro.
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Io credo che il problema sia da attribuire al contesto….
Un soccorso verso un “esperto”, meglio se famoso, viene recepito dall’ informazione come qualcosa di dovuto, anche se in luoghi lontani, vedi soccorsi sugli 8000. La stessa situazione se riferita al ( Non uso il termine alpinista) appassionato del fine settimana scatena le ire di chi non la pensa come lui, e non solo.
Un personaggio del film della Disney ;” Gli incredibili” , diceva:” Io fornirò a tuti i dispositivi per renderli Super, e quando tutti saranno Super…. piu nessuno lo sara!”:
Ecco io penso che l’ attrezzatura , l’ informazione praticamente in tempo reale sui social, il tempo a disposizione, abbiano trasformato tutti in “Super”, privi però di buon senso.
Nella mia zona, Le alpi orobie, quest’anno ci sono stati un numero esagerato di soccorsi e di morti. Per citare solo due casi il 10 marzo un alpinista perde la vita sul canale Albi sul monte Alben, via poco frequentata che il fine settimana successivo vede però ben sei cordate impegnate nella salita, una delle quali ne uscirà solo a pomeriggio tardo , palesemente non preparata, ma il tam tam anche se di una tragedia e stato una sorta di pubblicità. Il secondo caso e di del giorno di Pascqua, e viene pubblicato tranquillamente su un social locale “ON-ICE” che tratta repor di montagna. Un papa porta con se il figlio di 10 anni sulla ovest di Coca, con lui altri due compagni che esaltano l’impresa del ragazzo e ne evidenziano le future doti alpinistiche.
La ovest di Coca e un a via di misto di 600m. con difficolta fino al terzo in roccia e sino a 60 gradi su neve e ghiaccio…… la “BRAVURA” di tutti ha permesso a quest’ impresa di concludersi in bene, ricevendo i complimenti del mondo Social.
E se qualcosa fosse andato storto?! Cosa si sarebbe detto o scritto di un fatto simile?!
Non si può mettere un gendarme ad ogni montagna per frenare gli slanci eroici, ne far pagare un soccorso quando ogni giorno in altri ambiti di soccorsi se ne fanno ben di piu e gratis!
Smettiamola di strapparci i panni di dosso all’uscita del lavoro per trasformarci in tanti clark kent di Supermen, con tanto si insegne variopinte e griffate dalle ditte di abbigliamento che omologano tutti al ruolo di eroi.
E’ solo l’ umiltà della gente, il buon senso e il non affidarsi alle considerazioni altrui che oggi imperano, vere o false , sui social, ma alle proprie, che possono dare un svolta a queste situazioni.
Ho la sensazione che si sia innescato un equivoco. La mia provocazione di annullare il soccorso non è finalizzata a risparmiare i costi alla collettività, ma va vista come uno dei tanti tasselli per rendere la montagna più scomoda e severa. Meno strade, meno impianti, meno rifugi, meno bivacchi, meno segnaletica, meno soccorsi ecc ecc ecc. Una montagna più scomoda attira meno frequentatori. Nello specifico, si alleggerirebbe la pressione sulle spalle di politici e amministratori pubblici e presumibilmente avremmo meno divieti (non ripeto di nuovo l’intero ragionamento). Buona notte a tutti!
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Circa i commenti mi associo a quelli di Giorgio Daidola e Dino Marini. Buonanotte
Buonasera. È chiaro che tante persone soffocate dal loro divano , è andato in pappa il cervello. Quando non ci capiscono più nulla , sparano la solita fuffa: chi paga i soccorsi? State a casa se non siete capaci… sempre la solita solfa!Ma quando succede un soccorso in mare? Quando annega un turista al lago? Quando un ubriaco si schianta in auto? I malati di fumo di sigaretta? Questi , forse,non costano?
“In una società in cui da tempo latita una figura paterna in grado di educare alla vita ,di responsabilizzare i figli, di insegnare loro ad avere il coraggio delle proprie decisioni;in una società dove si preferisce il liquido amniotico materno delle norme di sicurezza portate spesso all’eccesso, pefino al delirio….”
Fino a prima di questa frase stava rispettando quello che stava predicando.Usare la metafora che contiene in sè il massimo del luogo comune, che il padre rappresenta il buonsenso e il sapere,e la madre la comodità e l’irrazionalità,è esattamente,guarda un pò, quello di cui si stava parlando:
limitativo ed incostituzionale, senza distinzione alcuna…
Non vorrei annoiare i lettori di un blog di montagna con la Scuola italiana, ma ho assistito a decine e decine di incontri studenti-insegnanti in cui gli studenti hanno chiesto di modificare metodi nozionistici di insegnamento, hanno chiesto di partecipare alla definizione dei programmi, alla scelta dei libri di testo, alla costruzione dei progetti a cui erano interessati ecc ecc. La risposta degli insegnanti è quasi sempre stata di tipo Paternalistico: voi NON sapete-NOI sappiamo. Non si insegna il pensiero critico, non si insegna la responsabilità individuale. MA.. non finisce qui: i genitori si arroccano allora nel difendere i figli-studenti contro gli insegnanti-valutatori. Una battaglia perduta tra chi mantiene i propri privilegi e chi crede di difendere i propri figli dalle valutazioni…La mia è una semplificazione, ovvio, non tutti i genitori studenti insegnanti sono così, certo, ma provate a chiedere a chi ci vive nella scuola…La scuola è un’espressione della nostra realtà sociale. E scusate la noia che vi ho trasmesso
commento 22. Giustissimo. Peccato che la scuola italiana sia la quintessenza della mentalità protezione-autoritarismo. Gli insegnanti quasi mai si assumono responsabilità, le demandano ai presidi o ai genitori, i quali le demandano ai provveditori, ai Dirigenti regionali o al ministero. E’ un sistema ingessato dalla burocrazia perchè questo è il paese per eccellenza dove contano le parole, i pezzi di carta.Ci ho combattuto una vita, esprime la nostra cultura della protezione e della sottomissione passiva, nonostante i proclami, i micro poteri demandati ai rappresentanti si studenti ecc.. Parole parole parole era una bella canzone..che descrive proprio la Scuola. però è vero, dovrebbe essere la scuola, il punto di partenza, ma come???
Scusate. Continuate a parlare di informazione, prevenzione, corsi, CAI.
Ma come pensate di arrivare al grande pubblico dei neofiti, senza partire dalla scuola, grande possibile quinta colonna verso le famiglie, gli adulti, i giovani.
A volte perdonatemi, ma qui sembra di stare in club a parlare di un mondo ristretto. Quando invece i problemi che ci troviamo a discutere nascono lontano dalla montagna e da chi la frequenta.
Concordo con Daidola. Ho 59 anni, ho la fortuna di aver vissuto anni bellissimi, con molta libertà, o forse era solo un’illusione. Ora le mie uscite in montagna sono limitate dal mio fisico arrugginito non dai divieti. Non desidero il futuro che verrà, ma purtroppo verrà.
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bisogna anche dire che i soccorritori spesso e volentieri prima di essere tali, sono degli alpinisti loro stessi, che fanno alpinismo per il proprio divertimento.
Quindi sarebbe l’ora di farla finita con questa storia del rischio e dei costi del soccorso.
Ho come l’impressione che vengano usati, da qualcuno… come paravento per portare avanti certe inizitive liberticide.
https://www.aiut-alpin-dolomites.com/italiano/index.html
Se a qualcuno interessasse..
Ci sono una decina di squadre con elicottero in Alto Adige- Trentino ed è, detto tra virgolette, in un certo senso, un “business”, cosicchè il fatto di farsi soccorrere ( non è che lo fanno se non c’è un valido motivo, ovvio, prima valutano il caso) non viene visto come una sciagura, una piaga sociale, una colpa dell’infortunato che si è fatto male..
Il commento di Dino è giusto. In aggiunta alla prevenzione-formazione, però, per quanto mi riguarda, inoltre, devo dire che sono anche arci-stufo di sentire la litania moralistica del soccorso che costa alla collettività, bla bla,.. ai soccorritori che rischiano per andare a prendere alpinisti ed escursionisti. Sono talmente stanco di questo moralismo protettivo ( del portafoglio della collettività) che preferirei pagare una assicurazione annuale ( lo faccio infatti, con una associazione di soccorso, dove vado in vacanza, Aiut Alpin Dolomites) ), cosicchè il soccorso, se capitasse, me lo pago e i soccorritori a questo sono considerati professionisti che lavorano e basta, non vittime di appassionati che si divertono a ” rischiare”, come pensa la gente…Ovvio che, come conseguenza logica, nella società in cui viviamo, ci vogliono assicurazioni per tutto quello che comporta rischi e non so se funzionerebbe..
Dino ha ragione.
Ma in Italia non si è MAI fatta prevenzione. In nessun settore.
Più facile e più da feudatari vietare, mettere cartelli per salvarsi la poltrona.
Non esiste in Italia una cultura della prevenzione.
Condivido DinoM.
Per la politica delle Guide, (generalizzo) che non hanno mai voluto essere altro che tecnici, che hanno sempre rifiutato di operare per divenire protagonisti culturali in senso lato della scena alpinistica italiana e nonostante lo scemare del Cai, che hanno sempre dedicato i loro sforzi a difendere l’escluvità lucrativa in ambito formativo e accompagnatori, sarei sorprevo di vederle cambiare rotta. “L’importante è farli divertire” diceva una guida stimata e apprezzata, ma non parlava solo del suo modus, parlava della logica con la quale un professionista avrebbe dovuto muoversi.
Trovo sempre “centrati” misurati e di buon senso gli interventi di DinoM
Per come la penso io, il problema è da porre assolutamente nella formazione/prevenzione. Il “sistema” sta investendo unicamente in maniera sostanziosa nel Soccorso e nella Protezione Civile ma è un errore grossolano. Queste entità intervengono DOPO l’incidente, non prima. Sarebbe come potenziare smisuratamente i carri attrezzi per evitare gli incidenti d’auto. Occorre investire nelle scuole e nei corsi ( CAI o GA) ed allora avremo una prevenzione efficace. Attenzione a ciò che succederà nei prossimi due/tre anni. Dal 2019 il CAI non svolge più corsi, e la situazione economica è tale che pochi potranno permettersi una GA. In questi due anni migliaia di persone si sono accostate all’outdoor montano senza nessuna formazione, se non quella ricavata da internet. Inutile dire che sono pessimista sui risultati di questo mix. Penso inoltre che anche se venissero messi cartelli e divieti alla fine le persone li ignoreranno, basta vedere cosa accade per i divieti COVID.
La rilettura del contributo (confronto Atena-Afrodite) al fondo dell’articolo di oggi, 22/3/21, mi ha suscitato qualche ulteriore considerazione sul tema di questo post, cioè il tema “morsa giuridica-libertà individuali” (che è “il” tema cardine – almeno ai nostri giorni – dell’andar in montagna).
Premetto che non sono un esperto di computer, ma mi viene da utilizzare una metafora informatica. So, da ignorante, che esistono almeno due sistemi operativi per i PC: Windows e Unix. Forse saranno anche più di due, ma qui non importa, il concetto ci serve solo per capire il ragionamento, non addentriamoci nei risvolti tecnologici.
Ebbene il “sistema operativo” in cui si inserisce il modello giuridico, almeno quello italiano, è marcatamente in stile Atena (=razionale). Il modello giuridico è un classico modello aristotelico-hegheliano: perfettamente razionale, strutturato secondo modalità a cascata, assolutamente anaffettivo (non trovate la norma: è obbligatorio amare il coniuge, ma trovate la norma: è obbligatorio mantenersi fedele al coniuge, le due cose sono molto diverse), quindi è un modello totalmente privo di correlazioni col mondo dei sentimenti e delle passioni, in tutti i loro risvolti, positivi e negativi.
Quel particolare modo di approcciare la montagna che io definisco “di testa” si inserisce anch’esso nel sistema operativo Atena, anzi ne è figlio diretto.
L’alternativa, cioè il modo di approcciare la montagna che io definisco “di pancia”, fa parte invece del sistema operativo Afrodite, cioè di un altro sistema operativo rispetto a quello dominante in termini giuridici.
Ecco dove si scatena il cortocircuito. Il punto NON è confrontarci qui fra noi per far prevalere l’approccio Atena o quello Afrodite all’andar in montagna. Il punto è che il primo è nello stesso solco razionale che ha generato il modello giuridico, il secondo appartiene ad un altro contesto, completamente scorrelato da quello in cui si inserisce il modello giuridico.
Peccato che il modello giuridico (per un suo stesso principio generale interno) si estenda all’intero territorio nazionale, abbracci quindi sia i nostri atti compiuti in citta sia quelli delle alte vette. E’ ingenuo dire “io mi comporto diversamente perché a me piace andare in montagna in libertà”, per la legge non ha senso.
I politici, i responsabili di Istituzioni (come Protezione civile ecc) e i magistrati applicano le leggi, che non hanno niente a che fare con il mondo Afrodite.
Per sanare il cortocircuito descritto si può agire su uno o addirittura su entrambi i versanti: cioè modificare il modello giuridico oppure modificare il modo in cui andiamo in montagna.
Apportare variazioni al modello giuridico sarebbe bello ma è irrealistico: sono decenni (forse 40 o 50 anni) che si parla di riforma complessiva della Giustizia, quella generale intendo cioè per tutti i cittadini, e non se ne fa niente. E’ ingenuo aspettarsi che il mondo politico dislochi risorse (umane, organizzative e finanziarie) per elaborare una legge quadro finalizzata a regolare l’approccio alla montagna degli amatori (e relativi rapporti giuridici fra loro). Discorso diverso è la legge quadro delle guide, già esistente da tempo, ma lì siamo in un contesto professionale, le esigenze sono completamente diverse (difatti la legge esiste già da tempo). Quindi mettiamoci in testa che il quadro giuridico in essere non cambierà mai, almeno nei prossimi decenni che rappresentano l’arco temporale realistico in cui noi qui andremo ancora in montagna (se il quadro giuridico cambia fra 100 anni, per noi non è rilevante).
Si potrebbe allora cambiare il modo prevalente di andare in montagna, sfumando quello “di pancia” (Afrodite) e sostituendolo con quello “di testa” (Atena), che come ho detto ha la stessa matrice razionale del modello giuridico. Qui la scelta sta a voi, nel senso che io ho già per default un modus operandi secondo lo stile Atena, un po’ in tutta la vita e nell’approccio alla montagna in particolare. Non c’è da parte vostra la disponibilità a rinunciare alla “passione”, specie se è “passione bruciante”, per la montagna? Ma per carità, fate pure, è legittimo! Però non stupitevi poi se scatta il cortocircuito con il modello giuridico.
Un’ultima annotazione: per osservazione diretta ho constatato che il grande aumento degli incidenti negli ultimi 20 anni NON è solo conseguenza del fortissimo aumento indifferenziato dei fruitori della montagna, ma deriva in particolare da un sotto-fenomeno. Ovvero che all’interno dell’aumento generale dei fruitori, sono aumentati quasi esclusivamente quelli che io chiamo “cannibali”. Eccvo la grande differenza rispetto ai decenni ante 2000: non solo ci sono “più” incidenti in assoluto, ma ci sono più incidenti assurdi, incomprensibili (secondo i codici di Atena), errori madornali, ecc tutte cose che alimentano la grancassa mediatica. Paradossalmente l’incidente incomprensibile che coinvolge un “grosso” nome fa molto male al mondo della montagna. La reazione è: bhe se anche uno così ha sbagliato, vuol dire che si tratta di fenomeni inevitabili, per cui, senza sapere né leggere né scrivere, io, sindaco del paesino montano, piazzo preventivamente un cartello VIETATO L’ACCESSO, così mi copro le spalle a prescindere, e chi si è visto si è visto.
Ecco perché io temo che, in montagna, vedremo un infittirsi di regole, divieti, impedimenti, lacci e lacciuoli nel prossimo futuro, restringendo il nostro spazio di azione. In parte, però, potremmo mitigare questo trend, agendo sul nostro modo di andare in montagna. Se non siamo disposti a fare nulla, se non vogliamo rinunciare a nessun sprazzo dio passione bruciante… bhe l’evoluzione andrà in quella direzione.
Buona giornata a tutti!
Il “margine” e’ eterno problema..a volte si pensa di essere sotto ed invece con una vibrazione infinitesima lo si oltrepassa. Mentre si ripassano a mente tutte le regole.. e’quello il momento giusto per inciampare, ma neppure andare in modo ingenuo ed irresponsabile. Se non altro perche’ l’attivita’ potrebbe piacere e si vorrebbe continuare. Con 350 lire di un manualetto “Garobbio-Rusconi-Alpinismo” imparai i rudimenti , ma per capire bisogna applicare..(ars longa vita brevis ) e a volte sopportare i consigli o rimproveri …e ritornare ad approfondire e ripassare ed aggiornarsi( teoria e pratica).
Quanto alle cronache, ci sono gli incidenti mediatici di serie A e quelli persi in trafiletti di giornali locali. Il resoconto finale del CNSAS a fine stagione fa giustizia.
Qualche illustre giornalista ha scritto sulla esagerata fame di certezza e prudenzialita’ vigenti nella vecchia Europa… a proposito dei dubbi sul vaccino low cost. Per scandagliare pochi casi sospetti e non sicuramente conseguenti, …ne sono morti nel frattempo centinaia .
Anche tutta la formazione “scientifica”scolastica e’ deterministica: regola, formuletta, calcolo..e invece incertezze nella verifica sperimentale e raccolta dati effettivi di misurazione.. errori e scostamenti …banditi dalla mentalita’.
Un popolo composto da adulti deresponsabilizzati lo si vede dal numero di leggi e altre disposizioni che vanno a regolare ogni aspetto della vita. Parimenti i “deresponsabilizzati” non abituati a porsi un limite ed a prestare attenzione o comunque a comportarsi con buon senso, in assenza di una disposizione di legge, di un cartello di divieto o di avviso tenderanno ad azzardare. Poi, se capita il guaio, saranno i primi a fare causa per ottenere un risarcimento. Non è immune da tale atteggiamento il mondo della montagna, vuoi per il risalto che i media danno ad ogni incidente, vuoi per il maggior numero di fruitori, molti dei quali afflitti dalla necessità di compiere imprese “adrenaliniche” o comunque non in grado di porsi un limite. Esempio gite di sci dopo una settimana di nevicate, discese a rotta di collo in mtb come se non vi fosse un domani, escursionisti che si avventurano nei boschi senza avere il ben che minimo senso dell’orientamento. Purtroppo la superficialità di alcuni la pagano tutti. L’unico cartello che ci dovrebbe essere alla partenza di un sentiero : “State entrando in un ambiente naturale e non in un parco giochi pertanto comportatevi di conseguenza”
La colpa non è necessariamente degli alpinisti e della loro presunta imperizia. In questi due anni sono morti nomi che non avevano bisogno di dimostrare nulla a nessuno. Ad uno di loro ero molto affezionato.
Il problema resta semplice nelle sue premesse e non risolvibile nel quadro giuridico: c’è più gente che va in montagna, questo aumenta le statistiche relative alla possibilità di incidenti, di conseguenza si assiste un impegno maggiore del soccorso alpino.
Se tutto ciò si traduce in costi e possibilità di imputazioni, le amministrazioni pubbliche reagiscono (sconsideratamente) nell’unico modo in cui sono abituate, formate, costruite per agire: il divieto.
Torniamo all’eterno problema dell’educazione, non solo di chi va in montagna, di chi avvicina la Natura anche la domenica e basta. Ma della società in generale su un duplice e complicatissimo fronte, ben delineato dall’articolo: la auto responsabilità, sempre più rarefatta in ogni ambito; la conoscenza almeno minima della Natura per quello che è, un luogo potenzialmente pericoloso e impossibile da mettere in sicurezza.
Sono stufo di questa immagine green e benevola dell’ambiente, che benevolo non è per niente. E sono stufo di questa ricerca di un responsabile da punire sempre e comunque, in ogni circostanza o luogo.
Ma serve una educazione mirata.
Al momento, per me che lavoro nell’ambito di quest’ultima, non c’è nessun programma di ampio respiro e di lungo periodo in entrambe le direzioni. Semmai il sistema educativo sembra sempre più improntato a seguire l’onda, anche e soprattutto contro le preoccupazioni del corpo insegnante, ben consapevole di un eccesso protettivo.
Che si fa?
E’ una domanda seria, non polemica. Perché noi ci stiamo arrovellando sulla strada più corretta per ricevere attenzione e stimolare pensiero costruttivo.
Da molto tempo sono convinto che assisteremo a un incontrollato infittirsi dei divieti in montagna. In un futuro non lontanissimo arriveremo alla testata di una qualsiasi valle e ci saranno solo infiniti cartelli di divieto: vietato questo, vietato quello ecc. Ma sono profondamente convinto che la colpa non sia dei politici né dei magistrati: agiscono nel solco del nostro generale quadro giuridico. La responsabilità del problema è degli alpinisti, intesi come frequentatori della montagna (con o senza sci). Troppi errori, troppe scemenze, troppo “andar di pancia”, troppi incidenti eclatanti e incomprensibili… troppi episodi che alimenrano la grancassa mediatica… è inevitabile che le autorità rispondano stringendo severamente la morsa.
Parimenti sono convinto che , anche sul tema del giorno, ciò che si puo/si deve fare è far tornare la montagna più scomoda e più severa. Per esempio: annulliamo completamente il soccorso. Il primo anno registreremmo un’ecatombe. L’anno dopo i cannibali, impauriti, si dedicherebbero ad altre attività. Resterebbero solo i veri appassionati di montagna, il numero di incidenti si ridurrebbe drasticamente, gli episodi non sarebbero più oggetto di mediatizzazione, l’attenzione delle autorità si sposterebbe su altri problemi del vivere e la montagna tornerebbe ad essere davvero “libera”. PS. Chiarisco ad un appunto: all’inizio della mia carriera, mi hanno portato i miei genitori, che ragionavano anche per me (ho iniziato a 5 anni), poi ho frequentato una scuola del CAI torinese molto formativa e prima dei 20 anni ero completamente autonomo e avevo già la testa per ragionare come ho descritto. Pero’ sia chiaro: non è una colpa nascere “non imparato”. È invece una colpa rifiutarsi di volerlo diventare. E’ questo il vero problema dei nostri giorni: spacciare come massimo della libertà quel modo di andare in montagna che (con gli step descritti) innesca la reazione delle autorità a infittire i divieti. Se tutti noi andassimo usando prioritariamente la testa anziché la pancia, il problema non apparirebbe così inarginabile agli occhi delle autorità. Buona serata a tutti.
Ottimo articolo che affronta bene una problematica complessa che ha come filo comune la volontà di controllare i cittadini-sudditi in ogni loro azione, criminalizzando quei bei principi libertari che si chiamavano autodeterminazione, libero arbitrio, capacità di ragionamento, di valutazione, di autoregolazione, cioè sana responsabilità individuale.
La citazione dell’assurda ricerca lunga un mese di quattro persone travolte da una valanga in Abruzzo darebbe l’occasione per meditare su un cambiamento del Soccorso Alpino, cambiamento che io chiamerei degenerazione.
Una volta era composto da veri volontari che generosamente lasciavano le loro attività e intervenivano per salvare alpinisti in difficoltà. La ricerca di cadaveri sepolti dalla neve non è certo un’operazione di soccorso.
Anni fa, sempre in Abruzzo, tre “volontari” son precpitati in elicottero levatosi in volo malgrado la nebbia, non per soccorrere un alpinista ma per portare uno sciatore, un raccomandatissimo “vip”, nell’ospedale che lui preferiva invece che quello in cui lo avrebbe portato l’autoambulanza intervenuta.
Le persone del Soccorso Alpino non sono più volontari che agiscono secondo il loro buon senso; sono diventati soldatini retribuiti agli ordini di quella associazione a delinquere statalizzata che è la Protezione Civile; ovviamente: con riferimento ai vertici, e non a chi ci si impegna generosamente.
Ho appreso questo cambiamento una volta che ho sentito Bertolaso (che di montagna e valanghe non capisce niente) inveire contro tutti gli scialpinisti che mettevano in pericolo la vita dei “suoi uomini”. Allora io non comprendevo come li potesse chiamare “suoi”.
La “sua” Protezione Civile è sata del tutto assente nella prevenzione del terremoto dell’Aquila ma presentissima nel recludere poi terremotati e no in tendopoli in cui si permetteva di reprimere ogni dissenso e di impedire ogni intervento spontaneo di ricostruzione.
Un primo passo dovrebbe essere quello di ridare autonomia, dignità e libertà al Soccorso Alpino, che sul tema valanghe, sarebbe in grado di dare un contributo educativo, quindi preventivo.
Preventivo? forse ho scritto una parola proibita.
Geri
Confesso che non sono riuscito a finire tutto questo articolo. I morti sotto le valanghe è meglio lasciarli stare dove sono finché la neve si scioglie, stanno meglio che nelle tombe. Quando sento parlare di normative e provvedimenti per la sicurezza mi vengono attacchi di orticaria, da curare subito salendo in montagna, finché non ci sono i tornelli di controllo. Concludo velocemente dicendo che questo mondo ha perso davvero la bussola e sta diventando sempre più invivibile. Mi spiace essere vecchio perché devo morire ma per vivere in un mondo così non so se ne vale ancora la pena. Poveri ragazzi.
Dobbiamo trovare un modo che queste logiche naturali semplici modi di comportarsi siano conosciuti e magari accolti. Ben sapendo che la libertà comporta responsabilità. Per questa responsabilità cerchiamo di attivarsi ognuno come può. Mauro Giongo
C’è un unico problema, se: “quando sentivo di avere i numeri per il VI, mi sono sempre autolimitato al V, quando ero meno allenato, mi limitavo al IV, ecc.”
come hai fatto ad iniziare ad arrampicare anche solo sul I grado?
Condivido da sempre il principio dell’auto-responsabilizzazione in montagna. Questo significa che ognuno deve sapere fin dove la sua preparazione/esperieenza/allenamento gli consentono di muoversi con ragionevole (auto)sicurezza in ogni specifica gita e imporsi di stare ancora un po’ prima. Mio padre, completamente autodidatta in montagna (anni ’20 e ’30 del Novecento), pur avendone poi fatta a vagonate per decenni, mi diceva sempre: “Meglio stare un metro prima del baratro che un centimetro dopo”. Va inteso in senso letterale e metaforico. Mi sono sempre comportato di conseguenza: quando sentivo di avere i numeri per il VI, mi sono sempre autolimitato al V, quando ero meno allenato, mi limitavo al IV, ecc. Va inteso in senso metaforico riguarda sia la roccia che ghiaccio che lo scialpinismo. Anticipo l’obiezione che la difficoltà è scollegata dal rischio, che si può anche morire su un sentiero ecc. In parte è vero, ma in gran parte no: ne sono arciconvinto. Se ti impegni in un itinerario dove sei al limite o addirittura oltre il tuo limite (almeno di quel giorno spdcifico), i margini di sicurezza sono limitatissimo, basta un nonnulla e sei già nel dramma.
Qui sta lo scontro ideologico con l’attuale società consumistico-prestazionale, quella che io chiamo la società del No Limits, che invece “spinge” tutti al limite, anzi oltre il limite (con la contraddizione ideologica, poi, di voler garantire la sicurezza a tutti oppure di voler mettere divieti di legge). Se iniziassimo tutti ad andare in montagna con i giusti margini rispetto al nostro stato di forma (mentale ed atletico) di quel momento, gran parte degli incidenti non accadrebbero o avrebbero conseguenze inferiori, quasi marginali.
Questo ragionamento è rivolto a quelli, come me, che si dedicano alla montagna come hobby, come divertimento. Trovo stupido morire per divertimento. L’ho sempre pensato e l’ho sempre insegnato.
Discorso diverso per i professionisti e gli alpinisti impegnati gli estremi. Per loro muoversi al limite, o addirittura oltre il limite, è implicito nel loro ruolo, altrimenti come potrebbero spostare in la’ i limiti dell’alpinismo? Ma questi sono pochi, pochissimi individui e con un ruolo sociale e tecnico ben marcato. Non bisogna confonderli con gli alpinisti della domenica. Sono due categorie nettamente diverse con paradigmi nettamente diversi: mescolarli e’ l”errore che si commette. I piloti di F1 non sono come gli automobilisti della domenica. Qui si apre un sottoproblema: quello di osannare gli eroi morti, come fossero personaggi dell’epopea omerica”, come se valesse la pena mettere a rischio la propria esistenza. Non è un valore, è un disvalore. Massima libertà se vogliono sposare questa causa, ma massima oggettività nel valutarli da parte di normali alpinisti. Altrimenti si accentua la trappola, anziché smontarla. Peggio ancora quando qualcuno di questi eroi ha commesso un errore fatale. Bisogna avere l’onestà intellettuale di dirlo pubblicamente. Altrimenti si consolida l’impressione negli alpinisti amatoriali che sia normale partire senza ragionare. Non è cosi e da sempre mi batto, ideologicamente, per una pratica consapevole, ragionata e estremamente prudente della montsgna. La “legge” che deve regolare le nostre decisioni NON è quella giuridica, ma quella razionale che sta dentro di noi. Se non l’abbiamo di natura, dovremmo costruircela.
Un’altra trappole del No Limits e’ sbandierare gli eroi (i corrispondenti dei piloti di F1) e implicitamente spingere i normalissimi alpimisti a emularli, pena la frustrazione di sentirsi e apparire degli sfigati. Immaginatevi la differenza fra tornare in città potendo dire “son sceso in sci da un canale a 55 gradi” (oppure ho fatto il 7b, oppure ho salito una stalattiti strapiombante…) e, invece, ho fatto una gitina sfruttando le piste con impianti chiusi…
Tra l’altro molto interessante lo spunto sull’inadeguatezza del termine gite per indicare le uscite di scialpinismo. Sono convinto anche io che lo scialpinismo sia la pratica più pericolosa perché ad ogni metro può esserci la valanga. Non importa se il terreno estivo lì è “facile”. È come se si arrampicasse sul IV costantemente slegati e in comitive più o meno numerose… per questo i margini di prudenza dovrebbero essere ancora più ampi nello scialpinismo. Quando invece in giro si leggono cose tipo “orgasmo bianco” , “abbuffata di powder”, “puoi fare tutto quello che vuoi” (letto testualmente su una rivista), è ovvio che l’attuale modello sociale spinge in una direzione che è molto pericolosa. Altro detto, questa volta di mio suocero: “Se non vuoi che la paglia bruci, non metterla vicino al fuoco”.
La domanda però è: se non è più adeguato utilizzare il termine gite per lo scialpinismo, cosa usiamo? Uscite? Va bene, accordiamoci pure sui termini. Il punto è che resta il problema di fondo: una società che da un lato spinge a/oltre il limite di ciascuno, con l’illusione di poter garantire la sicurezza a tutti. Questa è la trappola ideologica. Le leggi giuridiche sono ridicole perché non puntano a risolvere il problema di fondo che è quello che ho cercato di delineare. Buona giornata a tutti!
E’ proibito proibire!!
Le silenti affermazioni – pardon, assuefazioni – della tecnologia come salvifica e necessaria, della mercificazione progressivamente estesa a tutto e del diritto al consumo come affermazione di democrazia implcano il problema in questione.
Dire, fare e parlare sul problema corrisponde a prendere un farmaco per sopprimere i sintomi.
Il Padre o l’iniziazione alla vita come assunzione di resonsabilità, altrettanto silentemente sono scivolati fuori dal crogiolo di ciò che conta.
Chiunque e qualunque legge non arginerà i sintomi della patologia di dipendenza dalla sicurezza. Ci attende un crescente regolamentarismo fondato sulla paura. I delatori in fieri si grattano le mani.
Sotto l’ombrello del mercato si è radunata l’attenzione. Fuori da esso piove per tutti. I complottisti del caso provano impotenti a reagire.
Ormai il concetto di rischio e’rimosso, specie nelle nazioni della Vecchia Europa.Oppure lo si sublima spostandolo nel gioco d’azzardo, nell’ affidarsi allo stellone piuttosto che stipulare polizza assicurativa.Poi magari ci si allarma per incidenti dalle percentuali infinitesime , ma molto amplificati da social e stampa e tv.Per cui uno stesso incidente per pratica sportiva , specie se in montagna, diventa 10..100…mentre ormai ci siamo abituati a incidenti su tratti di autostrada maledetti .Non ci si indigna neppure piu’ per mancato uso di frecce direzionali, telefono all’orecchio mentre si tiene il volante con le ginocchia, bambini senza seggiolini…Se un pedone su marciapiede viene sfiorato da bicicletta o monopattino, deve evere un sesto senso per scansarsi all’ultimo e chiedere pure scusa a chi commette l’abuso mai sanzionato.Il medesimo ciclista o monopattinatore elettrico magari poi si indigna per l’incidente del “colpevole alpinista”. Rimane pur sempre la consolazione di qualche giovane che dopo aver inseguito la moda di vacanze griffate , riscopre l’escursione in Montagna e magari si informa ed addestra ed equipaggia.