Nevado Sarapo
di Lorenzo Colombo
(pubblicato su “Passo dopo passo“, CAI Sottosezione di Ballabio)
«Dal secondo giorno in avanti pensavo a come andare a tirarli su, invece… Probabilmente ho prega anca gioeust! (Egidio Spreafico)».
«Di cime importanti ne ho fatte cinque, ma questa è stata senz’altro la più impegnativa e la più bella. È stata un’ascensione dura perché i 1300 metri di sviluppo per 75 gradi impegnano non poco il fisico e la mente; bella perché in cima c’è arrivata la forza e la volontà dell’uomo, non la tecnica dei materiali sofisticati (Casimiro Ferrari)».
Quella al Nevado Sarapo 6127 m è la prima vera spedizione alpinistica organizzata dall’allora giovane Sottosezione di Ballabio del CAI. Siamo nel 1979. L’attivissimo Casimiro Ferrari, reduce da un tentativo sulla via normale dello Huascarán 6768 m insieme ai Ragni Vittorio Meles e Donato Erba, lancia l’idea agli amici di Ballabio: obiettivo Nevado Sarapo. «Non so se Casimiro conoscesse o meno quella montagna e non so dire neanche da chi avesse avuto lo spunto. L’unica cosa certa è che si trattava di una cima molto bella, come del resto tutte quelle scelte da Casimiro. Belle, ma mai banali», spiega Egidio Spreafico.
Nel libro Casimiro Ferrari. L’ultimo re della Patagonia, l’autore Alberto Benini parla di «un’idea nata quasi per scommessa durante un viaggio in Africa». La proposta di Casimiro, che sarà il capo spedizione, piace alla Sottosezione che in breve tempo forma la squadra così composta: i Ragni Vittorio Meles, Giuliano Maresi e il dottor Sandro Liati a cui si aggiungono i soci CAI Bruno Lombardini, Maurizio Diabolik Scaioli, Egidio Spreafico, Luigi Corti, Natale Dell’Oro, Piero Frigerio, Erminio Manzoni e Giulia Crosa (la cuoca).
Il 14 luglio 1979, nel salone dell’oratorio di Ballabio Inferiore, la Sottosezione presenta ufficialmente la spedizione alla comunità ballabiese e a tutti gli appassionati di montagna, che nel corso della serata possono ammirare anche la proiezione dei cortometraggi Jirishanca, parete ovest di Riccardo Cassin e Uanzan di Casimiro Ferrari. Pochi giorni prima della partenza Casimiro Ferrari, intervistato dal quotidiano La Provincia di Lecco (articolo pubblicato il 18 luglio 1979), spiega: «Puntiamo al Sarapo non soltanto perché su quella stessa parete hanno fallito altri. C’è la via da fare, è vero, ma c’è da conoscere una montagna, che per quanto abbiamo potuto vedere è una gran bella montagna». E infatti la squadra guidata dal Miro tenterà l’ascensione al Nevado Sarapo lungo l’inviolata parete sud-ovest.
Gli agganci che Casimiro ha in Sud America permettono di snellire le pratiche di preparazione. Il forte alpinista ballabiese parte prima degli altri per pianificare le tappe e gli spostamenti.
Il 28 luglio la spedizione decolla da Milano con un volo diretto a Lima, capitale del Perù, dove Casimiro aspetta con trepidazione l’arrivo dei compagni. La prima notte il gruppo dorme a casa della cognata di Miro, Rita Giudici, mentre il giorno seguente i lecchesi sono ospiti del Circolo degli italiani. Il terzo giorno inizia l’avvicinamento organizzato alla perfezione da Casimiro con il supporto di portatori e muli. «Casimiro, vista la facilità degli spostamenti, sosteneva che fosse più una gita che non una spedizione – ricorda con ironia Egidio – In fondo non aveva tutti i torti. Escluso l’aspetto alpinistico, il resto era tutto organizzato al meglio in maniera confortevole. E poi adesso arrivi in aeroporto e trovi i monzesi che sono andati da una parte, i milanesi dall’altra, quindi Miro in fondo aveva ragione nel chiamarla gita sociale».
L’avvicinamento è rapido come ricorda Giuliano Maresi in un articolo apparso il 16 ottobre del 1979 sulla rivista del CAI Lo Scarpone: «Giovedì 2 agosto. Sembra incredibile almeno a me che son nuovo a questa esperienza. Dopo soli cinque giorni dall’aver lasciato casa, ci troviamo già con il Campo Base montato, sotto la parete della montagna. Non è un miracolo, per realizzare tutto questo, nulla è stato lasciato al caso. Il nostro capo spedizione, Casimiro Ferrari, ha lavorato sodo nei giorni che ci ha preceduto a Lima. Infatti a noi è bastato un solo giorno, anche se intenso, per approntare tutto e partire. Il lungo viaggio in pullman, l’incontro a Cajatambo con una spedizione svizzera che tornava da un tentativo alla nostra stessa parete, i due giorni di marcia con la sete, il mal di testa, la polvere, la miseria davanti agli occhi passo dopo passo, tutto è già alle nostre spalle. Ora siamo una piccola parte d’Italia, piantata nel cuore di una delle più belle zone delle Ande Peruviane, ognuno con il suo compito, ma tutti con la stessa speranza: arrivare in vetta al Sarapo per l’inviolata via della parete sud-ovest senza mastodontiche attrezzature, in stile alpino».
Il 4 agosto la squadra inizia a esplorare la zona. Viene superata una prima fascia rocciosa che consente di localizzare un deposito materiali 400 metri sopra il Campo Base. Il 7 agosto si formano due squadre: quella formata da Casimiro e Vittorio ha il compito di superare la seconda fascia rocciosa e di raggiungere il pianoro ghiacciato ai piedi della parete, l’altra di portare più materiale possibile al deposito. Giovedì 9, nonostante il tempo incerto, viene posizionato il Campo 1 a quota 4900 metri, proprio sotto la cresta est del Sarapo Ovest. Sabato 11 Casimiro, Bruno ed Egidio decidono di dedicare la giornata all’ascesa del Sarapo Cicho, altra vetta vergine, con l’obiettivo di osservare da una prospettiva differente la parete ovest del Nevado Sarapo perché guardandola dal basso sembrava completamente piatta.
Prima di lasciare la «parola» a Giuliano Maresi e al suo dettagliato e puntuale articolo pubblicato sulle pagine sportive del quotidiano L’Unità di lunedì 12 novembre 1979, vale la pena ricordare un simpatico siparietto fra Casimiro Ferrari e il dottor Liati. E’ l’una di notte di domenica 12 agosto quando il gruppo si sta preparando per aggredire la parete. Ma c’è qualcosa che non va. I ramponi del dottor Liati non calzano come dovrebbero sotto gli scarponi. «Impusìbil, li hoo metuu so un para de setimàn fa per ‘nà al Rosa (1)», sbotta il dottore. E mentre Liati litiga con i suoi ramponi, Casimiro s’innervosisce e non riesce a trattenersi. Inizia a smadonnare fino a esplodere quando Liati stesso scopre il motivo per il quale non vanno bene i ramponi: «Osti, l’è vera che prem de vegnè in Perù ho cambià scarpuni…». Altra mitragliata di Casimiro. Poi si parte.
A questo punto lasciamo spazio al racconto di Giuliano Maresi pubblicato sul numero di lunedì 12 novembre 1979 del quotidiano L’Unità.
«È l’una di notte. Pur essendo più dei sei ore che ci siamo ritirati nelle tendine del campo 1 a 4000 metri di quota, non si può certo dire che siamo freschi e scattanti. Sarà l’ora non certo normale per alzarsi, sarà la tensione del momento: certo è che non è facile coordinare i preparativi. Una pallida luna illumina l’immane parete del Nevado Sarapo che ci sovrasta e tutto il ghiacciaio attorno a noi. Ogni tanto qualche scarica sottostante contribuisce ancor di più a ricordarci dove siamo. Il nostro capo spedizione Casimiro Ferrari è più efficiente che mai, e si occupa e preoccupa di tutto e di tutti. E’ fuori discussione che non si può attaccare in stile alpino una parete come questa lasciando qualcosa al caso. Tutto deve essere soppesato: dal materiale personale a quello per l’arrampicata, dai viveri ai medicinali. Egidio, che rimarrà al Campo 1 a filmare la nostra ascensione, aiuta a coordinare, oltre a rimpinzarci di bevande calde. Finalmente alle 3 la cordata di punta (Casimiro Ferrari e Bruno Lombardini) parte, subito a ruota partiamo io (Giuliano Maresi) e Sandro Liati (il medico) e poi Vittorio e Maurizio. La luna scompare e si passa alle pile. L’andatura è lenta (la quota e lo zaino si sentono non poco), ognuno è immerso nei propri pensieri. Miro supera con impareggiabile perizia un tratto molto infido tra crepacci e muri di ghiaccio. Noi tardiamo un momento (per me personalmente ci vuole una banale scivolata sul primo muro per svegliarmi del tutto) e subito Miro ci incita a salire più celermente per portarci sotto la terminale. Dopo un tratto di neve farinosa, molto faticoso, arriviamo sotto la terminale. Miro, molto saggiamente, decide che si faccia un’unica cordata. La terminale, enorme sopra di noi, non è di facile superamento.
Le prime luci dell’alba vedono il nostro capo spedizione impegnato su un altro salto verticale. Dopo parecchio tempo riesce a immettersi in un colatoio di neve farinosa, che se pur faticoso è di più veloce percorso. Finalmente attrezza la prima fermata, via via lo seguiamo. Dopo tre filate di corda siamo praticamente tutti in parete. Ora Miro lascia il colatoio che si perde contro una fascia rocciosa ed esce a sinistra in piena parete. Contrariamente alle valutazioni fatte dal basso, la pendenza in questo tratto si accentua. La cattiva qualità della roccia (già sperimentata nel percorso tracciato dal Campo 1) sconsiglia di avventurarsi, anzi dopo poco, Miro, per non portare peso inutile, lascia ad un chiodo di fermata tutti i chiodi da roccia (li recupereremo al ritorno, dato che scenderemo a corde doppie per la stessa via di salita). Ogni tanto guardiamo verso il Campo 1 (e il Campo Base) che via via rimpiccioliscono. Sono già le 15 ed il tempo cambia rapidamente.
Non ci preoccupiamo più di tanto poiché normalmente dura qualche ora al massimo e poi torna bello. Infatti è così. Tiranno è ora il giorno, poiché le ore scorrono veloci. Alle 18.30 è praticamente buio e noi siamo in piena parete senza un punto di sosta. Un crepaccio sopra un seracco atto a raccoglierci è ancora troppo alto per pensare di raggiungerlo. Una provvidenziale cestola permette, dopo un lungo e faticoso lavoro di piccozza, di ricavare un modesto ripiano dove passeremo la notte. Siamo talmente stanchi e allo stretto che non riusciamo a far funzionare i fornelli. Mangiamo qualcosa di solido per non far debilitare troppo il fisico e poi tentiamo una sistemazione decente per passare la notte. E’ ben visibile al Campo Base il gran fuoco che hanno acceso per riscaldarci almeno moralmente. Al Campo 1 si intuisce, più che vedere, la pila di Egidio che tenta un impossibile dialogo. Personalmente, anche se contento di vivere questa esaltante esperienza, penso a chi a casa aspetta fiducioso, alle mie paure (non ancora scomparse) di cedere fisicamente, alle sere trascorse attorno al fuoco del Campo Base sperando e fantasticando.
Ora sono qui, su una delle più ardite pareti delle Ande Peruviane, con un gruppo di amici a trascorrere un bivacco ad oltre 5500 metri di quota su un’esile piazzola ricavata nel ghiaccio. Ogni movimento deve essere concordato, tanto lo spazio è ristretto, ogni movimento deve essere studiato affinché qualcuno o qualcosa non corra il rischio di precipitare lungo la parete. Mai notte fu per me più intensa. Il ricordo di altri bivacchi invernali su pareti delle nostre Alpi si perde in confronto a questa esperienza. Certo il freddo e i disagi non posso dire che siano molto superiori. È sicuramente diverso l’ambiente, la montagna, la quota con tutto quello che ne consegue sotto il profilo psicologico. Sento di «giocare fuori casa». Buona grazia che è salda la fiducia nel capo spedizione: ora dopo ora la notte passa e le prime luci dell’alba ci trovano seduti ad ammirare il sorgere del sole e a tentare di recuperare logica e riflessi appannati dalle 12 gelide ore trascorse. Adesso non possiamo rinunciare a qualcosa di caldo e con un po’ di peripezie riusciamo a prepararci delle bevande. I preparativi per la partenza sono lunghi, ma finalmente Casimiro riprende l’ascesa. Dopo un tratto particolarmente ripido ed uno assai infido per il tipo di neve, Miro raggiunge ed esplora la crepa nel ghiacciaio che pensavamo di raggiungere la sera precedente. Abbiamo percorso dal bivacco appena 5 tiri di corda (ossia circa 200 metri) ed è ancora presto, ma Casimiro decide di fermarsi poiché valuta che, con la stanchezza accumulata e data la parete che ancora ci sovrasta, non si riuscirebbe a raggiungere la vetta, rischiando pertanto un ulteriore scomodo bivacco.
Siamo tutti d’accordo e, a turno, ci diamo da fare per preparare una comoda e riparata piazzola dove sistemare le due tendine da parete che abbiamo con noi. Appena lo spazio lo permette, Sandro (oltre che medico, ottimo cuoco) incomincia a preparare bevande e minestre calde al fine di farci recuperare le forze. Assai prima del buio tutto è a posto e la notte si preannuncia migliore della precedente. Da questa posizione non vediamo né il Campo Base né il Campo 1. Possiamo però immaginare la trepidazione degli amici che dal basso ci seguono. Sono soltanto 16 giorni che abbiamo lasciato l’Italia e siamo già con la vittoria a portata di mano: certo, sappiamo che quello che ancora ci aspetta non sarà né semplice, né facile. Infatti il tratto che abbiamo fatto è più che sufficiente per chiarirci che la parete non concede soste o tratti non molto impegnativi. Bisogna poi pensare alla discesa su questa stessa parete e la cosa mi preoccupa non poco, anche se le argomentazioni di Casimiro sono più che valide. Comunque, dicevo la vittoria è a portata di mano. A parte la stanchezza non vi sono problemi di acclimatamento o altro e pertanto l’intervento di Sandro si limita a qualche pastiglia che concili il sonno. L’alba del 14 agosto (chissà perché il mio primo pensiero va alle spiagge italiane) ci trova più pigri a rimetterci in marcia. Dopo due tiri di corda ritorniamo a renderci visibili ai nostri amici dal basso. Al bivacco abbiamo lasciato le tendine e quanto non abbiamo ritenuto necessario nella pia illusione di sentir lo zaino più leggero; ma ormai la fatica è tale che non si apprezzano più queste cose. Tiro dopo tiro continuiamo a salire su questa parete che sembra non debba finire mai.
A turno, siamo presi da crisi di stanchezza. L’unico che, imperterrito, continua a faticare per aprirci la via è Casimiro, la cui resistenza è davvero eccezionale. A cento metri dalla vetta, la neve troppo inconsistente obbliga ad uscire verso la cresta ovest, dove in alcuni tratti (sembra incredibile!) sono ancora ben evidenti le tracce della spedizione del CAI Brescia che nel 1974 è riuscita a passare di qui. Ad un tratto Miro scompare e lo immaginiamo in vetta. Infatti è così ed alle 17.30 del 14 agosto del 1979 siamo tutti e sei in vetta. Abbracci, foto, gagliardetti al vento, film, occhi e mente impegnati a registrare il massimo di momenti e sensazioni irripetibili. Il tempo anche qui passa veloce e già è ora di ripartire, poiché lungo e non semplice è il percorso per ritornare al nostro bivacco. L’indomani, con il rientro al Campo 1, ci si avvia passo dopo passo alla vita di tutti i giorni, ma con alle spalle un’esperienza di vita indimenticabile».
Tutta l’impresa è stata seguita dal Campo 1 dal solitario Egidio. «Avevamo piantato il campo su un ghiacciaio che era un colabrodo. Spesso lo si sentiva muovere e i rumori che emetteva non erano per nulla confortanti. Di notte mi è capitato più volte di svegliarmi di soprassalto per i forti rumori. Il ghiaccio si spaccava emettendo un botto così forte che squarciava il silenzio della notte. Era un suono foltissimo simile a quello di una fucilata. Più volte mi son detto: ‘Cristu, go scia la muntagna in crapa’. Anche durante il giorno, a dire il vero, la vita non era un granché. Fuori non si poteva stare perché il sole intenso e il riverbero sul ghiaccio ti facevano impazzire. Stare dentro la tenda era impossibile perché si moriva dal caldo. Insomma, era un inferno di ghiaccio! Le giornate non passavano mai e i sei puntini sulla parete sembravano immobili».
Per Egidio, a dire il vero, i problemi non erano solo questi. Anche per andare a prendere l’acqua doveva tribolare. «Ero solo al Campo 1 e l’unico punto in cui si poteva fare scorta d’acqua era un buco che si era formato nel ghiacciaio. Insomma, un punto non proprio a portata di mano. Così, ogni volta che mi serviva dell’acqua, dovevo assicurarmi a un chiodo o alla piccozza per evitare di finire nel buco e fare la fine del topo». La noia di Egidio è rotta dalla montagna stessa, come dai cattivi pensieri.
«Monitoravo costantemente la loro salita, ricordo che li avevo lasciati sotto la terminale, quindi li avevo visti entrare nel colatoio, superarlo e poi proseguire». Tutto andava per il meglio, ma il giorno dopo succede una cosa che fa impallidire Egidio. «Dal colatoio scende improvvisamente un’enorme valanga. La cosa mi preoccupa perché da quel punto Casimiro e gli altri sarebbero dovuti ridiscendere. Speravo fosse un caso e invece…». L’indomani le cose non si mettono meglio.
«Era ormai il terzo giorno che erano in parete e mentre osservavo con il binocolo il Nevado Sarapo, il colatoio scarica nuovamente. Questa volta la potenza della neve è inaudita a tal punto che lo spostamento d’aria travolge il Campo 1, solleva le tende e un gigantesco polverone bianco mi avvolge».
Al Campo Base Luigi Corti ed Erminio Manzoni vedono la nube bianca e capiscono che è successo qualcosa. Pensano al peggio, così decidono di salire al Campo 1. Lo raggiungono e fortunatamente trovano Egidio vivo e vegeto che spiega ai due compagni l’accaduto. La sera si sta avvicinando e Luigi e Erminio si congedano così: ‘Ah, nün turnem indree, stèm mia che a durmè…’ (2)».
Egidio è preoccupato e inizia a pensare al peggio: «Dicevo tra me ‘Anca anda a tirai soeu comè faroo! E a turnà indree da chèll sît ché, saroo in gradu? (3)”. Ero ormai convinto che, una volta giunti nel colatoio, una valanga li avrebbe portati via, anche perché scendendo in corda doppia (serviranno 20 tiri per raggiungere la base della parete) la velocità è quella che è». In quei momenti nella testa di Egidio frullano mille pensieri e altrettante domande, mentre lassù i sei appiccicati alla parete sono all’oscuro di tutto e, difficoltà a parte, procedono con totale tranquillità.
Il quarto giorno Egidio scorge gli amici sulla via del rientro e aspetta di vederli affrontare il colatoio. È nervoso, sono momenti di grande tensione, ma fortunatamente la montagna li lascia passare. «Prubabilmeent hoo prega anca gioeust», dirà alla fine Egidio. La sera Ferrari, Meles, Maresi, Liati, Lombardini e Scaioli raggiungono Egidio al Campo 1. Il Nevado Sarapo è stato conquistato.
E’ ora di fare le valige, ma per la vittoriosa spedizione c’è tempo per visitare Cuzco e Machu Picchu. Poi il 25 agosto il rientro in Italia.
La stampa locale, e non solo, saluta la spedizione capitanata da Casimiro con numerosi articoli che esaltano la meravigliosa impresa.
Venerdì 31 agosto la Sottosezione di Ballabio organizza una grande festa, intanto arriva una lettera del presidente della Sezione ANA (Associazione Nazionale Alpini) del Perù, Eligio Languasco, dove si legge:
«… abbiamo avuto la visita della Spedizione composta da alcuni vostri soci capitanati dal buon amico Casimiro Ferrari, diretti alla Cordillera Huayhuash, e li abbiamo ospitati nella nostra sede. Con orgoglio anche nostro siamo venuti a conoscenza delle mete raggiunte. Ci è gradito quindi congratularci con voi tutti inviandovi un affettuoso saluto alpino e un ringraziamento per il contributo che ci hanno lasciato al momento di partire per aiutarci a coprire le spese di manutenzione del nostro locale nel quale saremo sempre lieti di vedere i nostri amici in visita alle montagne del Paese che ci ospita».
Ma le congratulazioni giungono anche dalla Sezione del CAI Lecco: «A nome della presidenza della sezione, certo di interpretare il pensiero del consiglio e di tutti i soci, esprimo i più vivi rallegramenti per il successo ottenuto dalla spedizione organizzata dalla Sottosezione sulla parete sud-ovest del Nevado Sarapo in Perù. La magnifica vittoria aumenta il prestigio dell’alpinismo lecchese oltreoceano e per questo particolari sentimenti di stima e ammirazione ai componenti che hanno brillantemente contribuito al conseguimento dell’obiettivo». Firmato il presidente Riccardo Cassin.
Il comune di Ballabio non è stato da meno organizzando per il 29 settembre una serata presso l’oratorio don Giovanni Bosco. In una sala gremita viene rivissuta la grande impresa attraverso le diapositive e il commento del capo spedizione Casimiro Ferrari. Per l’occasione il sindaco Bruno Colombo consegna a tutti i membri della squadra una medaglia e una targa ricordo alla memoria di Mario Merlo, che fu un valido amministratore comunale, come segno di ringraziamento per le attività svolte a favore di Ballabio e della Sottosezione.
Note
1) «Impossibile, li ho messi un paio di settimane fa per andare al Rosa».
2) «Ah, noi torniamo indietro, non stiamo qui a dormire».
3) «Anche andare e riprenderli come farò! E a tornare indietro da questo posto, sarò capace?».
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Ho sempre avuto la massima stima per Casimiro Ferrari come alpinista ma ne ho anche tanto sentito parlare negativamente come persona nella vita di tutti i giorni. Io l’ho conosciuto un po’ in Patagonia, dove aveva più nemici che amici, e non mi aveva dato l’impressione di essere chissà quale persona.
Ma come testa in montagna, tanto di cappello!
Primavera 2001.
Ho conosciuto il Miro in ospedale, anche mia mamma era ricoverata nello stesso periodo. Lo vedevo tutti i giorni camminare per i corridoi trascinando il treppiede per la flebo che aveva sempre nel braccio. Ogni tanto gli dicevo dove ero andato la domenica, da lui non traspariva nessuna rabbia o risentimento per quello che lui a 60 anni non poteva più fare, ma solo piacere d’ascoltare. Non era mai attorniato da parenti e amici e questo mi sembrava strano per un personaggio come lui, mitico. Viveva la sua malattia e i suoi ultimi giorni con tranquillità e in solitudine, come aveva imparato a fare vivendo in Patagonia… Come era andato a cercare in Patagonia.
Le vostre curiosità hanno qualcosa di perverso.
Che splendido racconto!
Già, che cosa avrà fatto la Giulia? La cuoca o altro?
E Giulia Crosa la cuoca?
Oltre a fare la foto dei maschietti (suppongo), ha cucinato? Fatto l’uncinetto? Riassettato le tende? Rammentato calzettoni?
Fatto il bucato?
Sarebbe interessante saperlo.