Neve – 2
di Thomas Mann
(da La montagna incantata)
Lo lasciò da parte e cercò la via del ritorno sul ripiano dove sorgeva la malga. Ma una via non c’era; tenere la direzione, l’approssimativa direzione verso il sanatorio e la valle era più questione di fortuna che di giudizio, perché egli riusciva magari a vedere la mano davanti agli occhi, ma non la punta degli sci; e se anche avesse potuto vedere meglio, la natura aveva preso ancora abbondanti misure per rendergli estremamente difficile l’avanzata: il viso pieno di neve, la lotta contro la bufera che annullava più di quanto non ostacolasse il respiro, impedendo di accogliere l’aria e di espirarla, e costringendo a voltarsi ogni istante boccheggiando, come era possibile che uno avanzasse, fosse Castorp o un altro più robusto di lui. Bisognava fermarsi ansimando, spremersi l’acqua dalle ciglia, a suon di pacche liberarsi dalla corazza di neve che si formava davanti e considerare pretesa irragionevole quella di andare avanti in siffatte circostanze.
Eppure Castorp andava avanti, ossia si spostava. Ma, che fosse uno spostamento opportuno, un’avanzata nella direzione giusta, o non fosse meno sbagliato fermarsi dov’era (ma nemmeno questo pareva fattibile) restava da vedere; vi si opponeva persino la probabilità teorica, e in pratica Castorp ebbe presto l’impressione di non essere a buon punto, di non avere il terreno giusto sotto i piedi, cioè quel pianoro che salendo dalla forra era riconquistato con grande fatica e ora si trattava anzitutto di ripercorrere. Il tratto piano era stato troppo breve, egli stava già risalendo. Il maltempo che veniva da sudovest, dallo sbocco della valle, lo aveva fatto deviare con la sua furiosa pressione. Egli si logorava, da parecchio ormai, in uno spostamento errato, alla cieca, avvolto in una bianca notte turbinosa, si affannava a inoltrarsi sempre più nella minacciosa indifferenza.
«Questa poi!» borbottò tra i denti e si arrestò.
Non assunse toni più patetici, benché a un certo punto gli sembrasse che una mano gelida gli stringesse il cuore, in modo da farlo sussultare e battere veloce contro le costole come allora, quando Radamanto aveva scoperto la sua zona umida.
Capiva infatti di non aver alcun diritto a parole grosse e gesti drammatici, perché la sfida l’aveva lanciata lui e a lui andavano addebitate tutte le difficoltà della situazione. Mica male disse accorgendosi che i suoi lineamenti, i muscoli del viso non obbedivano più all’anima e non erano in grado di esprimere nulla, né paura né furore né disprezzo, perché erano irrigiditi. «E ora? Giù di qua, di sbieco, e poi bel bello dietro al naso, sempre esattamente contro il vento. Più facile dire che fare, è vero continuò ansando, a pezzi e bocconi, ma parlando davvero sottovoce, mentre si rimetteva in moto; qualcosa devo pur fare, non posso sedermi qui e attendere, perché sarei ricoperto dalla regolarità esagonale, e Settembrini, se viene a cercarmi con la sua cornetta, mi trova qui rannicchiato, con gli occhi vitrei, un berretto di neve in testa per traverso…» Notò che parlava con se stesso, in un modo un po’ strano. Se lo vietò, ma lo fece ancora, a mezza voce, espressamente, benché avesse le labbra così paralizzate da rinunciare a servirsene, e da parlare omettendo le consonanti che si formavano con le labbra, e ciò gli rammentò un’altra situazione in cui era avvenuto lo stesso. «Sta’ zitto e bada a muoverti» si impose, e soggiunse «Mi sembra di vaneggiare e di non avere la testa a posto. Che è grave in un certo senso».
Che fosse grave, però, in quanto al progredire, era un puro e semplice avvertimento del vigile raziocinio, come dire di una persona estranea, non interessata, anche se in apprensione. Per sua natura egli era molto propenso ad abbandonarsi alla mancanza di chiarità che stava per impadronirsi di lui con l’aumento della stanchezza, ma si accorse di questa inclinazione e si mise a ragionarci su. «Questo è l’alterato comportamento di chi in montagna è sorpreso da una tormenta di neve e non trova la via per tornare a casa argomentò affannandosi e buttando là le parole, staccate, senza fiato, evitando per discrezione espressioni più precise. Chi ne sente parlare dopo, si figura l’orrore, ma dimentica che la malattia – e la mia situazione è in certo qual modo una malattia – concia il suo uomo in maniera che entrambi possono andare d’accordo. Ci sono menomazioni sensorie, narcosi generose, misure di sollievo che la natura prende, sissignori… Ma occorre combatterle perché sono bifronti, quanto mai ambigue; tutto dipende, chi le voglia valutare, dal punto di vista.
Sono offerte a fin di bene e benefiche in quanto non si debba arrivare a casa, sono invece malefiche e vanno assolutamente combattute quando si pensi ancora a tornare a casa, come nel caso mio, poiché non intendo nel mio cuore burrascosamente agitato, non intendo affatto di farmi coprire qui da una cristallometria stupidamente regolare…» In realtà era già molto depresso e lottava contro l’incipiente ottenebramento del sensorio in modo vago e febbrile. Non si spaventò come da sano si sarebbe dovuto spaventare, quando capì che di nuovo aveva abbandonato la via piana; questa volta evidentemente dall’altra parte, dove il pendio si abbassava. Scese infatti col vento obliquamente contrario, adottando, benché per il momento non lo dovesse fare, la soluzione più comoda. “Va bene così” pensò. “Più in basso, rettificherò la direzione”. E lo fece o credette di farlo, o non lo credette veramente nemmeno lui o, peggio ancora, cominciò ad essergli indifferente se lo faceva o no. Era l’effetto delle ambigue menomazioni che egli combatteva solo debolmente. Quel misto di stanchezza ed agitazione che era lo stato costante e familiare dell’ospite la cui acclimazione consisteva nell’assuefarsi a non assuefarsi, si era rafforzato in entrambe le componenti fino al punto che non era più il caso di parlare d’un assennato contegno contro le menomazioni. Stordito e balordo, tremava di ebbrezza e di eccitazione, press’a poco come dopo un colloquio con Naphta e Settembrini, ma in misura più forte; e così fu che cominciò a scusare la sua lentezza nel combattere le narcotiche menomazioni con ebbre reminiscenze di quei tali dibattiti, e, ad onta della sprezzante ribellione contro la coltre della regolarità esagonale, si diede a cianciare tra sé nel senso (o non senso) che quel sentimento del dovere, per cui avrebbe dovuto lottare contro le sospette minorazioni, non era che etica, cioè meschinità borghese e filisteismo irreligioso. Il desiderio e il tentativo di coricarsi a riposare gli s’insinuarono nella mente in modo da farlo riflettere che era come in una tormenta di sabbia nel deserto, dalla quale gli arabi sono indotti a buttarsi con la faccia a terra e a coprirsi col burnùs. E solo il fatto che non possedeva un burnùs ed è difficile coprirsi con un panciotto di lana, soltanto questo gli parve un’obiezione a tale contegno, benché non fosse un infante e da varie descrizioni sapesse abbastanza bene in che modo uno muoia assiderato.
Dopo una discesa a velocità moderata e un breve tratto in piano, il terreno saliva di nuovo, e alquanto ripido. Non era detto che fosse sbagliato perché durante il percorso fino a valle ci doveva pur essere anche qualche salita, e in quanto al vento, esso si era incapricciato a mutar direzione, perché Castorp l’aveva di nuovo alle spalle e, in sé e per sé, gliene era grato. Ma era la bufera a piegarlo, o il soffice pendio bianco davanti a lui, velato dal crepuscolare nevischio, esercitava un’attrazione tale da fare che il suo corpo vi si inclinasse. Affidarsi ad essa era soltanto un modo di appoggiarsi, e grande era la tentazione di farlo, grande e, secondo le esperienze, tipicamente pericolosa, la qual cosa però non recava alcun pregiudizio al vivo e presente potere della tentazione stessa. Essa vantava diritti individuali, non voleva inserirsi nell’ordine delle cose note a tutti, non vi si voleva riconoscere, si dichiarava unica e incomparabile nella sua oggettività, ma senza poter negare di essere il suggerimento che veniva da una determinata parte, l’ispirazione di un individuo in nera foggia spagnola, con la gorgiera nivea e pieghettata, alla cui idea e ai cui principi era connessa ogni sorta di particolari truci, spiccatamente gesuitici e misantropici, ogni sorta di torture e percosse da schiavi, che Settembrini aborriva, ma non senza che si rendesse ridicolo con il suo organetto e la sua “ragione”.
Castorp però seppe reggersi e resistette alla lusinga di appoggiarsi. Non vedeva niente ma lottava e si spostava; in senso utile o no, fatto è che faceva quanto stava in lui e si moveva, ad onta dei sempre più grevi legami nei quali la gelida tormenta lo inviluppava. Quando la salita si presentò troppo scoscesa, piegò di fianco senza rendersi ben conto di ciò che faceva, e per un po’ seguì il pendio. Per aprire le palpebre paralizzate ed esplorare ci voleva uno sforzo la cui provata inutilità incoraggiava poco a sobbarcarvisi. Eppure ogni tanto qualcosa vedeva: abeti che si accostavano, un ruscello o un fosso la cui riga nera spiccava tra i margini nevosi a strapiombo; e quando, per cambiare, riprese a scendere, contro il vento questa volta, scorse poco lontano, quasi sospesa nell’intreccio dei veli svolazzanti, l’ombra di una dimora umana.
Benvenuta, confortante visione! Ecco che c’era riuscito con la sua energia, nonostante tutte le contrarietà, se ora gli apparivano persino costruzioni umane, indizio che la valle abitata era vicina. Forse c’era qualche persona, forse si poteva entrare per aspettare sotto un tetto la fine del maltempo e trovare magari una guida, nel caso che intanto fossero scese le tenebre normali. Si diresse verso il chimerico oggetto che ogni tanto spariva nel buio del temporale; per raggiungerlo dovette superare ancora contro vento una snervante salita e, appena arrivato, si convinse, indignato, atterrito e preso dalle vertigini che era la nota capanna, il fienile col tetto gravato di pietre, riconquistato con i più onesti sforzi dopo mille ambagi.
Il diavolo ci aveva messo la coda. Dalle labbra rigide di Castorp uscì, senza le labiali, una sequela di maledizioni. Per orientarsi fece il giro della capanna e trovò che l’aveva raggiunta dal lato posteriore, e per una buona ora, secondo i suoi calcoli, si era arrabattato nella più schietta e arcinutile assurdità. Ma così avviene, dice l’esperienza. Si gira in tondo, ci si affatica con l’idea di far cosa utile, e non si fa che percorrere un arco lungo e sciocco che rientra in se stesso come il burlesco corso dell’anno. Così si vaga intorno e non si arriva a casa. Castorp riconobbe il tradizionale fenomeno con una certa soddisfazione, benché con sgomento, e dalla stizza e dallo stupore si batté una gamba, perché il fatto generico si era così puntualmente avverato nel suo caso particolare, individuale e presente.
La malga solitaria era inaccessibile, la porta sprangata, non si poteva entrare da nessuna parte.
Castorp deliberò tuttavia di fermarsi là per il momento, dato che il tetto sporgente dava l’illusione di una certa ospitalità, e la capanna stessa, sul lato rivolto alla montagna, offriva davvero un po’ di riparo dalla tormenta: bastava appoggiare la spalla alla parete di tronchi d’albero, dato che, a causa dei lunghi pattini, non era possibile appoggiarvi la schiena. Stette così obliquo dopo aver piantato il bastone accanto a sé nella neve, le mani in tasca, il bavero della giacca di lana alzato, usando la gamba esterna come puntello, e posò il cranio rintronato con gli occhi chiusi contro l’intavolato, lanciando solo ogni tanto uno sguardo lungo la spalla, oltre la forra, alla montagna di contro che a momenti traspariva scialba dai veli.
La sua posizione era relativamente comoda.
“Così, se occorre, posso star qui tutta la notte” pensò, “se ogni tanto sposto il peso da una gamba all’altra, se mi giro, per così dire, sull’altro fianco e ogni volta intercalo un po’ di moto, che è indispensabile. Benché sia rigido di fuori, dentro ho accumulato calore col moto che ho fatto, e l’escursione non è stata del tutto inutile, anche se ho finito col girare in tondo ed errare dalla malga alla malga… Ho finito? Che modo di parlare è questo? E’ il caso di dirlo nelle mie condizioni? Mi è sfuggito soltanto perché ho la testa un po’ balorda, eppure mi sembra che in fondo era detto bene…
Meno male che resisto, perché questo turbine di neve, questo disordine può anche durare fino a domattina, e se anche dura solo fino a che fa buio, è già un brutto guaio, perché di notte si finisce, si finisce, dico, col girare in tondo, la notte è pericolosa quanto la tormenta… Anzi, dovrebbe già essere sera, circa le sei, dopo tanto tempo che ho sprecato nel giro. Che ora sarà?” E guardò l’orologio quantunque non gli riuscisse facile scavarlo dagli abiti, con le dita rigide e insensibili… il suo orologio d’oro, col coperchio a scatto ornato del monogramma, il quale ticchettava vivo e ligio al dovere, nella deserta solitudine, come il suo cuore, il commovente cuore umano nel calore organico del suo torace…
Erano le quattro e mezzo. Che diamine? Era quasi l’ora in cui era scoppiato l’uragano. Doveva credere che tutti quei giri fossero durati soltanto un quarto d’ora? “Il mio tempo s’è allungato” disse tra sé. “A quanto sembra, girare così è noioso. Ma alle cinque o cinque e mezzo farà buio sul serio, questo è certo. Cesserà prima? cesserà in tempo perché altri giri mi siano risparmiati? Intanto, per prendere forza, potrei bere un sorso di Porto”. Si era messa in tasca questa bevanda da dilettanti unicamente perché al Berghof la tenevano a disposizione in bottigliette piatte e la vendevano ai gitanti, beninteso non pensando a quelli che senza averne il permesso andavano, con tempo di neve e gelo, a smarrirsi in montagna e in tali condizioni aspettavano la notte. Se avesse avuto i sensi meno compromessi, avrebbe dovuto pensare che, in quanto a tornare a casa, quel vino era forse la cosa peggiore che potesse prendere; e lo pensò davvero quando ebbe mandato giù qualche sorso che gli fece subito effetto, un effetto simile a quello della birra di Kulmbach che aveva bevuto la sera del primo giorno, dopo il suo arrivo, quando non potendo frenare la lingua aveva urtato Settembrini con allusioni a salse di pesce e simili, il signor Lodovico, il pedagogo, che con lo sguardo faceva diventare ragionevoli persino i pazzi agitati, e la cui armoniosa cornetta squillava proprio in quel momento per segnalare a Castorp che l’eloquente educatore si avvicinava a marce forzate con l’intento di liberare da quella folle situazione e condurre a casa l’alunno del dolore, il pupillo della vita… Tutto ciò era naturalmente assurdo e dipendeva soltanto dalla birra di Kulmbach che aveva bevuto per errore. In primo luogo, infatti, Settembrini non possedeva una cornetta, ma sol tanto l’organetto sostenuto da una gamba di legno piantata sul marciapiede, e mentre sonava girando agilmente la manovella alzava gli occhi umanistici lungo la facciata delle case; in secondo luogo non sapeva e non avvertiva niente di ciò che accadeva, perché non abitava più nel sanatorio Berghof, bensì da Lukacek, il sarto per signora, nello stanzino sotto il tetto, con la bottiglia dell’acqua, sopra alla serica cella di Naphta, d’altra parte non aveva né il diritto né la possibilità d’intervenire, come non l’aveva avuta a suo tempo, la notte di carnevale, quando Castorp si era trovato in una simile posizione folle e difficile e aveva restituito alla malata Clavdia Chauchat son crayon, la sua matita, la matita di Pribislav Hippe…Posizione? Era forse una “posizione” la sua, finché stava così in piedi? A rigore, secondo l’etimologia, avrebbe dovuto “porsi” giù, sdraiarsi, orizzontale era la posizione che spettava a chi viveva lassù da tanto tempo. Non era forse avvezzo a stare in posizione orizzontale all’aperto, con la neve e col gelo, di giorno e di notte? Si accingeva quindi ad abbandonarsi allorché gli passò per la mente, anzi lo prese, diremo, per il colletto e lo tenne ritto, il pensiero che anche le sue segrete chiacchiere sulla “posizione” andavano messe a carico della birra di Kulmbach e provenivano dalla propria impersonale e, secondo ogni esperienza, tipicamente pericolosa voglia di coricarsi e dormire, la quale lo voleva sedurre con sofismi e bisticci.
“Questo fu un passo falso” ammise. “Il Porto non era il rimedio che ci voleva, i pochi sorsi mi hanno appesantito la testa che ora mi casca sul petto, i miei pensieri sono roba confusa e insulse facezie delle quali non devo fidarmi, non solo i pensieri originali, come mi vengono in mente, ma anche i successivi, cioè le mie considerazioni critiche sui primi, questo è il guaio. Son crayon significa il crayon di lei, ma potrebbe anche essere suo di lui, il ‘suo’ non distingue se un oggetto appartiene a un uomo o a una donna; tutto il resto sono facezie. E io perdo il tempo con queste sciocchezze! mentre, ad esempio, è molto più urgente il fatto che la mia gamba sinistra, sulla quale mi appoggio rammenta la gamba di legno dell’organetto di Settembrini che egli va spingendo col ginocchio sul marciapiede, quando si accosta alla finestra e porge il cappello di velluto, affinché la ragazza lassù vi butti qualcosa.
E intanto mi sento impersonalmente indotto, quasi tirato a sdraiarmi nella neve. Unico rimedio è il moto. Devo muovermi per espiare la birra di Kulmbach e ammorbidire la gamba di legno”. Con una spallata si staccò dalla parete. Ma non appena fece un passo avanti, il vento lo investì come a colpi di roncola e lo respinse contro il riparo che senza alcun dubbio era il rifugio assegnatogli, del quale intanto doveva accontentarsi, mentre era libero di appoggiare la spalla sinistra e di reggersi sulla gamba destra, dondolando la sinistra per animarla. “Con un tempo simile non si abbandona il tetto”, pensò. “La posizione alterna è ammessa, non invece la smania di tentare vie nuove e di azzuffarsi col turbine. Stai quieto e lascia pur cascare la testa, visto che è così pesante. La parete è buona, travi di legno, che par che emanino un certo calore, seppure qui si può parlare di calore, del calore proprio del legno, magari è questione di sensazioni oggettive… Oh, quanti alberi! Ecco il clima vivo dei viventi! Che profumo!…”.
Era un parco che si stendeva lì sotto, sotto il balcone sul quale egli si trovava, un ampio, verde, lussureggiante parco di alberi frondosi, olmi, platani, faggi, aceri, betulle, con le tinte graduate del fogliame fresco, abbondante, lucido, nel sommesso stormire delle cime. L’aria era umida, deliziosa, balsamica in seguito al respiro degli alberi. Vi passò un caldo scroscio di pioggia, ma attraversato dai raggi del sole. Si vedeva l’aria fino in alto nel cielo percorsa dal vivido ruscello. Che bellezza! Oh, respiro della patria, aroma e dovizia della pianura, da tanto tempo perduto! L’aria era piena di voci d’uccelli, di un grazioso, intimo e dolce flautare, gorgheggiare, cinguettare, tubare senza che nessuno dei pennuti apparisse alla vista.
Castorp sorrise, respirando con gratitudine, E intanto tutto diventava ancor più bello. Un arcobaleno s’incurvò da una parte sopra il paesaggio, con tutti i suoi colori vivaci, umidi, lucenti, che densi come olio fluivano sul verde intenso e luminoso. Una meraviglia. Era come una musica, come un forte tinnire d’arpe che accompagnasse flauti e violini. Specie il turchino e il viola scorrevano stupendamente. Tutto si vi immergeva, con sfumature magiche, si trasformava e si risviluppava più bello di prima. Era come una volta, parecchi anni prima, Castorp aveva ascoltato un cantante di fama mondiale, un tenore italiano, dalla cui gola sgorgava un’arte generosa e potente che si riversava nel cuore degli uomini: aveva tenuto un tono alto, bello fin da principio; ma poi a poco a poco, di momento in momento la voce armoniosa e appassionata si era aperta, gonfiata, sempre più luminosa e raggiante. Ne erano caduti i veli, l’uno dopo l’altro, che prima nessuno aveva notati, un ultimo ancora che pure, così si pensava, aveva svelato la luce estrema e più pura, e poi un ultimissimo e ancora uno inverosimilmente ultimo che liberò una profusione di splendore e una tale lacrimante magnificenza da suscitare nella folla un mormorio estatico, quasi di incredula protesta, e da far venire a lui stesso, al giovane Hans Castorp, la voglia di singhiozzare. Così gli accadeva ora, in quel paesaggio che si mutava e si apriva in una luce sempre più viva, nuotando nell’azzurro… I lucidi veli di pioggia caddero, ed ecco il mare… era il mare meridionale, d’un turchino cupo e profondo, balenante di guizzi argentei, una baia meravigliosa, aperta da un lato tra vapori sfumanti, circondata per metà da catene di monti d’un azzurro sempre più scialbo, con alcune isole sulle qua”i crescevano le palme o si vedevano casette bianche occhieggiare dai cipresseti. Oh, basta, troppo, tutto immeritato! Come mai tutta quella radiosa beatitudine, quella purezza di cieli, quella frescura d’acque solatie? Castorp non aveva mai visto una cosa simile. Nei suoi viaggi di vacanza aveva appena assaggiato il Mezzogiorno, conosceva il mare pallido, accigliato, gli era affezionato con sentimenti puerili, goffi, ma non aveva mai raggiunto il Mediterraneo, Napoli, per esempio, la Sicilia o la Grecia. Eppure “ricordava”. Sì, quell’incontro era un riconoscimento. “Eh sì, così è!” pensava come se l’azzurra felicità solare che si stendeva davanti a lui l’avesse tenuta segretamente, senza dirlo neanche a se stesso, e portata nel cuore da sempre, da un tempo lontano, infinitamente lontano come quel mare aperto, là a sinistra, dove il cielo si chinava tinto d’un tenero colore di viole.
Alto era l’orizzonte e la lontananza pareva salisse, illusione creata dal fatto che Castorp vedeva il golfo dall’alto, da una certa altezza: i monti si allungavano in promontori, irti di boscaglia, protesi nel mare, e dal centro del panorama arrivavano in semicerchio fin dov’era lui e più oltre; accucciato su gradini di pietra scaldati dal sole, egli si trovava su una costa rocciosa; la riva che aveva dinanzi, petrosa e muscosa, dirupava con blocchi a scalinata, inframmezzati di sterpi, verso una spiaggia pianeggiante dove gli sfasciumi formavano, in mezzo a canneti, seni azzurrini, porticciuoli, laghetti. E quella zona soleggiata, quelle accessibili alture costiere, quei ridenti bacini rocciosi, nonché il mare fino alle isole dove le barche andavano e venivano, erano tutti popolati: uomini, figli del sole e del mare, si movevano o riposavano da per tutto, bella giovane umanità, intelligente e serena, tanto simpatica da vedere… Il cuore di Castorp si aprì tutto, dolente e amoroso, a quella vista.
C’erano giovani che addestravano cavalli, correvano, reggendo la cavezza accanto al loro trotto fra nitriti e groppate, tiravano i riottosi per le lunghe briglie o, cavalcando senza sella, li spingevano in mare con colpi dei calcagni nudi nei fianchi, mentre si vedeva il giuoco dei muscoli delle spalle sotto la pelle bruno-dorata esposta al sole, e le voci che si scambiavano o rivolgevano ai loro animali avevano, per chi sa quale ragione, un suono affascinante. Sulle rive di un’insenatura, specchiante come un lago alpino, profondamente incuneata nella terraferma, si svolgeva un ballo di fanciulle. Una di loro, i cui capelli erano annodati sulla nuca con una grazia particolare, stava seduta, coi piedi in una cavità del terreno, e sonava la zampogna, mentre il suo sguardo, al di sopra del giuoco delle dita, era rivolto alle compagne che, in abito largo e fluente, sorridenti e con le braccia distese, singole o a coppie, la tempia dolcemente appoggiata alla tempia, si spostavano a passo di danza, e alle spalle della sonatrice bianche e tenere e arrotondate a causa della posizione delle braccia, altre sorelle stavano sedute o in piedi a braccetto, in pacata conversazione. Un po’ più in là alcuni giovanotti si esercitavano nel tiro dell’arco. Era un piacere osservare come i più anziani istruissero i ricciuti inesperti a tendere la corda, a incoccare, a mirare e li sorreggessero ridendo allorché, partita la freccia frullante, barcollavano per il contraccolpo.
Altri pescavano: proni sulle lastre di pietra, dondolando una gamba, calavano la lenza in mare, chiacchieravano tranquilli, la testa rivolta al vicino, che seduto e reclinato lanciava l’esca possibilmente lontano. Altri ancora erano occupati a trascinare in acqua, tirando, puntando, spingendo, una barca d’alto bordo con l’albero e il pennone. Bambini giocavano e gridavano in mezzo ai frangiflutti. Una giovinetta, lunga distesa, guardando all’indietro, si reggeva con una mano l’abito fiorato tra i seni, mentre con l’altra cercava avidamente di agguantare un frutto con foglie che un giovane, snello di fianchi, in piedi dietro a lei, col braccio teso le offriva e per giuoco negava. Appoggiati a incavi di roccia, alcuni esitavano a fare il bagno tenendo le proprie spalle con le braccia in croce e tastando l’acqua fredda con la punta del piede.
Coppiette passeggiavano lungo la riva e all’orecchio della fanciulla erano vicine le labbra di colui che la guidava in confidenza. Capre dal vello arruffato balzavano di rupe in rupe sorvegliate da un pastorello che, una mano sul fianco, l’altra poggiata al bordone, un cappellino con la tesa rialzata di dietro sulle ciocche castane, stava sopra un’altura.
“E’ bellissimo!” pensò Castorp incantato… “E’ un piacere e se ne rimane conquisi. Come sono belli, sani, saggi e felici! Infatti, non soltanto belli di forme, ma anche intelligenti e intimamente amabili.
Ecco, questo mi commuove e m’innamora: lo spirito, il senno, direi, che è nella loro natura e li unisce nella vita”.
Intendeva la grande gentilezza di quel popolo solare e gli unanimi riguardi che gli uni avevano per tutti gli altri: un rispetto facile e nascosto sotto i sorrisi che si tributavano reciprocamente a ogni piè sospinto, quasi inavvertito, eppure presente in virtù di un universale legame tra i cuori e di un’idea innata; persino una dignità severa, ma serenamente distesa, che guidava le loro azioni e omissioni sotto un inesprimibile influsso spirituale di tutt’altro che fosca serietà e di comprensiva devozione… sia pure non del tutto priva di formalità. Là infatti sopra una pietra tonda e muscosa stava seduta, in abito bruno, aperto su una spalla, una giovane madre che allattava il bambino. Chi le passava davanti la salutava in un modo particolare che assommava tutto quanto il generale comportamento delle persone esprimeva in eloquente silenzio: i giovani chinavano sorridendo la testa rivolta alla madre, le braccia incrociate sul petto rapidamente, con leggerezza formale; le fanciulle accennavano non troppo chiaramente una genuflessione simile a quella di chi va in chiesa e leggermente si umilia passando davanti all’altar maggiore. Ma nello stesso tempo, le facevano cenni del capo vivaci, allegri, cordiali, e quel misto di devozione formale e di serena amicizia, insieme con la lenta dolcezza con cui la madre alzava gli occhi dalla creaturina, cui facilitava il poppare premendo il seno con l’indice, e ringraziava con un sorriso quelli che la riverivano, empì Castorp di vivo entusiasmo. Non si saziava di guardare, ma si chiedeva anche con angoscia se gli era lecito guardare, se spiando quella solare e civile felicità egli, estraneo e per giunta (così si reputava) ignobile e brutto e goffamente calzato, non commettesse un reato gravissimo.
Pareva che non fosse il caso. Un bel ragazzo, i cui abbondanti capelli con la scriminatura da una parte gli ricadevano sulla fronte e su una tempia, stava discosto dai compagni, le braccia conserte, poco sotto di lui… non triste o imbronciato, ma soltanto in disparte e tranquillo. Questi lo vide alzando gli occhi, e stette a guardare ora lui, ora le scene sulla spiaggia, osservando l’osservatore. A un tratto però guardò oltre lui, dietro a lui, lontano, e sull’istante il suo bel viso, dal taglio severo, seminfantile, perdette quel sorriso di cortese fraterno riguardo che era comune a tutti… Anzi, senza che egli si fosse accigliato, vi si stese una serietà quasi petrigna, insondabile, inespressiva, una riservatezza mortale che a Castorp, da pochi istanti tranquillato, incusse un livido spavento, non senza l’aggiunta di un vago presentimento circa il suo significato.
Si voltò anche lui a guardare… Dietro a lui sorgevano possenti colonne senza plinto, a rocchi sovrapposti dai cui interstizi spuntava il musco: le colonne dell’ingresso a un tempio sulla cui aperta gradinata stava seduto. A malincuore si alzò, scese di fianco i gradini ed entrò in un lungo androne, lo attraversò percorrendo una via lastricata di mattonelle che lo portò subito ad altri propilei.
Attraversò anche questi e si trovò davanti al tempio, massiccio, grigio-verdognolo per l’azione del tempo, con ripidi gradini di base e la fronte larga, posata sui capitelli di quelle immense colonne tozze, rastremate, dalla cui compagine qualche rocchio scannellato sporgeva leggermente di fianco. Con fatica, usando anche le mani e sbuffando, perché sempre più sentiva stringerglisi il cuore, Castorp s’arrampicò sugli alti gradini e raggiunse la foresta delle colonne che formavano l’atrio. Questo era profondo ed egli vi si aggirò come fra i tronchi del faggeto in riva al mare grigio evitando apposta la parte centrale e cercando di scansarla. Ma ci ritornava sempre finché, nel punto in cui le file di colonne divergevano, scorse un gruppo marmoreo, due figure femminili, su un piedestallo, madre e figlia probabilmente: l’una seduta, più anziana, più veneranda, molto clemente e divina, ma con le sopracciglia dolenti sopra gli occhi vuoti, senza pupilla, la tunica e il manto ricchi di pieghe, le onde dei capelli da matrona coperte da un velo; l’altra in piedi, cinta dal braccio materno della prima, col tondo viso di vergine, le mani e le braccia nascoste e avvolte nelle pieghe della sopravveste.
Mentre Castorp era immerso nella contemplazione del gruppo, il suo cuore per oscuri motivi si fece ancora più gonfio, pieno di angoscia e di presentimenti. Non ne aveva quasi il coraggio, ma si vide costretto a girare intorno alle statue e a passare, dietro di esse, fra le successive file di colonne: trovò aperta la porta metallica della cella del tempio e alla scena che gli si presentò il poveretto si sentì quasi spezzare le ginocchia. Due donne grigie, seminude, coi capelli scarmigliati, i seni da streghe penduli e i capezzoli lunghi un dito, erano impegnate là dentro, tra sfiaccolanti padelle di fuoco, in un lavoro orribile. Sopra un catino sbranavano un bambinello, lo sbranavano con le mani in un silenzio sinistro – Castorp vide teneri capelli biondi lordi di sangue – e ne divoravano i pezzi facendo scricchiolare tra i denti i fragili ossicini, mentre il sangue sgocciolava dalle loro labbra selvagge. Un gelido spavento lo fece inorridire. Voleva coprirsi gli occhi e non poteva.
Voleva fuggire e non poteva. Quelle intanto, nella loro orrenda bisogna, avendolo già scorto lo minacciarono coi pugni insanguinati, lanciando insulti afoni, ma quanto mai volgari e osceni, nel popolare dialetto della patria di Castorp. Il quale si sentì male, come non si era sentito mai. Disperato fece per strapparsi di lì… e così, addosso com’era alla colonna dietro di lui, avendo ancora nelle orecchie quegli sconci strilli sommessi, ancora in preda a quel freddo raccapricciante, si trovò coricato su un braccio nella neve, la testa contro la capanna, le gambe lunghe e distese coi piedi allacciati agli sci.
Ma non fu un vero risveglio; egli batté soltanto le palpebre, col sollievo di essersi liberato da quelle streghe, ma non capiva ancora bene, né gli importava di sapere se stava addossato a una colonna del tempio o alla parete d’una malga, e continuò in certo modo a sognare, non più con visioni, ma col ragionamento che però non era meno audace e confuso.
“Lo sapevo che era un sogno” disse tra sé vagellando. “Un sogno delizioso e terrificante. In fondo, me ne rendevo conto, in tutto questo tempo me lo sono fabbricato da me, il parco frondoso e il dolce umidore e tutto il resto, il bello e il brutto, lo sapevo quasi in anticipo. Ma come si possono sapere queste cose e fabbricarsele, e procurarsi felicità e angoscia? Dove l’ho preso quel bel golfo con le isole e con il tempio indicatomi dallo sguardo di quel simpatico giovane isolato? I sogni non nascono soltanto dalla propria anima, direi, ma possono essere anonimi e comuni, sia pure a modo loro. La grande anima, della quale sei soltanto una particella, sogna, sì, talvolta per opera tua, a tuo modo, cose che in segreto sogna sempre, la sua giovinezza, la sua speranza, la felicità, la pace… e il suo banchetto cruento. Ed eccomi steso ai piedi della mia colonna e ho ancora in corpo i residui reali del mio sogno, il gelido orrore del sanguinoso pasto, e anche la grande gioia precedente, la gioia della felicità e delle pie consuetudini degli uomini bianchi. Mi spetta, dico io, ho l’implicito diritto di giacere qui e di sognare queste cose. Molto ho imparato tra le persone di quassù, in fatto di sconsideratezza e di raziocinio. Con Naphta e Settembrini sono finito… ho finito col girare per la montagna piena di pericoli. So tutto sul conto dell’uomo. Ne conosco la carne, il sangue, ho reso a Clavdia malata il lapis di Pribislav Hippe. Ma chi riconosce il corpo, la vita, riconosce la morte. Salvo che ciò non è tutto, è piuttosto un principio, nient’altro, pedagogicamente parlando. Bisogna tener conto dell’altra metà, del contrario. Ogni interessamento alla morte e alla malattia non è che un modo di esprimere l’interessamento alla vita, come dimostra l’umanistica facoltà di medicina, che parla, sempre cortesemente in latino, alla vita e alla sua malattia, ed è soltanto la sfumatura dell’unico, grave, urgentissimo oggetto che, con tutta la mia simpatia, voglio chiamare per nome: si tratta del pupillo della vita, dell’uomo, della sua posizione e del suo stato… Di lui m’intendo non poco, ho appreso molto tra le persone di quassù, dalla pianura mi sono spinto in alto finché, povero me, mi è quasi mancato il respiro; ma ora dalla base della mia colonna godo un discreto panorama… Ho sognato le condizioni dell’uomo, della sua cortese, comprensiva, rispettosa comunità, dietro alla quale ha luogo nel tempio l’orrendo banchetto di sangue.
Erano così cortesi e garbati tra loro i figli del sole proprio nella silenziosa previsione di quell’orrore? Ne trarrebbero davvero una bella e galante deduzione! Col mio cuore starò dalla loro parte, non da quella di Naphta; e nemmeno da quella di Settembrini, sono chiacchieroni tutti e due. L’uno è libidinoso e maligno, l’altro non fa che sonare la cornetta della ragione e s’illude di far rinsavire persino i pazzi, che è assurdo. E’ filisteismo, mera etica, è irreligioso, siamo d’accordo. Ma non intendo nemmeno di mettermi dalla parte del piccolo Naphta, con quella sua religione che è soltanto un guazzabuglio di Dio e diavolo, di bene e male, buona appena perché l’individuo vi si butti a capo fitto con la mira di affondare misticamente nell’universale. Oh, i due pedagoghi! Le loro liti e i loro contrasti sono a loro volta un guazzabuglio e un confuso strepito di battaglia, dal quale non si lascia stordire chi abbia soltanto un poco la testa libera e il cuore buono. La loro indagine aristocratica! La loro nobiltà! Morte o vita; malattia, salute; spirito e natura. Sono forse contraddizioni? Domando: sono forse problemi? No, non sono problemi, non lo è nemmeno l’inchiesta sulla loro nobiltà. La sconsideratezza della morte è nella vita, senza di essa la vita non sarebbe vita, e nel mezzo sta l’homo Dei – nel mezzo tra leggerezza e ragione – come nel mezzo tra mistica comunità e vana individualità è il suo stato. Questo vedo dalla mia colonna. In queste condizioni egli ha il dovere di avere con se stesso rapporti di fine galanteria e gentile rispetto, perché lui solo è nobile, non le antitesi. L’uomo è signore delle antitesi, esse devono a lui la loro esistenza, perciò è più nobile di esse. Più nobile di esse. Più nobile della morte, troppo nobile per essa, ecco la libertà della sua testa. Più nobile della vita, troppo nobile per essa,…
ecco la bontà del suo cuore. Ho combinato una poesia, un sogno poetico dell’uomo. Ci voglio pensare. Voglio essere buono. Non voglio concedere alla morte il dominio sui miei pensieri! In questo infatti consistono, in nient’altro, la bontà e l’amore del prossimo. La morte è una grande potenza. Alla sua presenza ci si leva il cappello e si cammina oscillando in punta di piedi. Essa porta la solenne gorgiera del passato, e in suo onore l’uomo si veste severamente di nero. La ragione le sta dinanzi da sciocca, perché non è che virtù, la morte invece è libertà, leggerezza, assenza di forma e piacere.
Piacere, dice il mio sogno, non amore. Amore e morte: ecco una rima mal riuscita, insulsa, sbagliata. L’amore è opposto alla morte, esso solo, non la ragione, è più forte di essa. Esso solo, non la ragione, suggerisce pensieri di bontà. Anche la forma è fatta soltanto di amore e bontà: forma e civiltà d’una gentile e intelligente comunità e del bello stato degli uomini… nella silenziosa visione del pasto cruento. Oh, questo si chiama sognare chiaramente, governare bene! Ci voglio pensare.
Voglio restare fedele alla morte dentro al mio cuore, ma rammentare con chiarezza che la fedeltà alla morte e al passato è soltanto cattiveria e tetra voluttà e misantropia, se determina il nostro pensare e governare. Per rispetto alla bontà e all’amore l’uomo ha l’obbligo di non concedere alla morte il dominio sui propri pensieri. E con ciò mi sveglio… Con ciò ho terminato di sognare e sono alla meta. Da un pezzo ero in cerca di questa sentenza: nel luogo in cui mi apparve Hippe, sul mio balcone e dappertutto. La ricerca di essa mi ha spinto anche sulla montagna nevosa. Ora l’ho trovata. Il sogno me l’ha suggerita così chiaramente che la saprò per sempre. Sì, ne sono entusiasta e accalorato. Il mio cuore batte forte e sa perché. Non batte soltanto per motivi fisici, non come alla salma crescono ancora le unghie; batte umanamente e proprio con animo felice. E’ un filtro, la mia sognata sentenza, migliore che il Porto e la birra, mi scorre nelle vene come l’amore e la vita, perché mi scrolli dal sonno e dal sogno che naturalmente so benissimo quanto siano pericolosi per la mia giovane vita… Su, su! Aprire gli occhi! Sono tue queste membra, queste gambe nella neve! Devi contrarle e alzarti. Guarda!… Il tempo è bello”.
Fu enormemente difficile liberarsi dalle catene che lo stringevano e cercavano di tenerlo al suolo, ma la spinta che Castorp seppe darsi fu più forte.
Egli puntò sui gomiti, tirò a sé con forza le ginocchia e con mosse da ginnasta si rimise in piedi. Pestò la neve con le assicelle, si sbatté le braccia intorno al torace e scrollò le spalle lanciando sguardi agitati e affaticati qua e là e verso il cielo dove un pallido celeste baluginava tra grigiazzurri veli di nuvole che migravano adagio e scoprivano la falce della luna. Un leggero crepuscolo. Niente uragano, niente nevicata. La parete del monte dirimpetto, irsuta di abeti, appariva distinta, in un’aura di pace. L’ombra la copriva fino a metà, più in alto era illuminata dal più tenero color di rosa. Che cos’era successo? Che mondo era quello? Era già il mattino? Era rimasto tutta la notte nella neve senza assiderarsi come avrebbe dovuto secondo tutte le esperienze? Non aveva alcun membro tramortito, alcun membro che si spezzasse tintinnando mentre pestava i piedi e si scrollava e si dibatteva alacremente cercando nello stesso tempo di rendersi conto del la situazione. Le orecchie, i polpastrelli, i diti dei piedi erano, sì, insensibili, ma non più di altre volte, quando nelle notti invernali stava coricato sul balcone. Riuscì a pescare l’orologio. Non si era fermato come gli capitava di solito quando si scordava di caricarlo.
Non segnava ancora le cinque… Mancava ancora parecchio, dodici, tredici minuti. Stupefacente! Possibile che fosse rimasto steso nella neve soltanto dieci minuti o poco più e avesse concepito fantastiche visioni paurose e pensieri temerari, mentre l’esagonale maltempo dileguava con la stessa velocità con cui si era scatenato? In tal caso, per quanto riguardava il ritorno, aveva avuto una considerevole fortuna. Due volte infatti il sogno e il delirio avevano preso una piega tale da farlo sussultare rianimato: una volta dall’orrore, un’altra volta dalla gioia. La vita aveva avuto buone intenzioni col suo smarritissimo pupillo…
Ma comunque fosse e fosse mattina o pomeriggio (senza dubbio era ancora pomeriggio, verso sera), in ogni caso né le circostanze né le sue condizioni personali impedivano che Castorp se ne ritornasse a casa. E così fece: in grande stile, quasi in linea d’aria scese a valle dove al suo arrivo trovò già i lumi accesi, benché durante il tragitto gli fossero bastati i residui della luce diurna conservata dalla neve. Scese per il Brehmenbuhl, sul margine del Mattenwald, e fu alle cinque e mezzo a Dorf, dove, deposti gli arnesi presso il droghiere, fece sosta nella soffitta di Settembrini e gli raccontò come anche lui si fosse fatto sorprendere dalla tormenta di neve. L’umanista ne rimase atterrito. Alzò la mano sopra la testa, biasimò aspramente quella pericolosa leggerezza e accese sui due piedi lo sbuffante fornello a spirito per preparare al giovane sfinito dalla stanchezza un caffè, che per quanto forte non impedì a quest’ultimo di addormentarsi sulla sedia.
La civilissima atmosfera del Berghof lo accolse, un’ora dopo, dolce e carezzevole. A cena mangiò come un lupo. Quanto aveva sognato stava impallidendo. Quanto aveva pensato, già quella sera non gli appariva del tutto chiaro.
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Che meraviglia, questo racconto!
Temevo davvero il peggio per l’inesperto sciatore!
Questo è l’intero capitolo “neve” della Montagna Incantata.
Uno dei libri più belli che abbia letto il cui finale segnava irreparabilmente il destino di Castorp con l’entrata in guerra….
Grazie per averlo pubblicato!