New-trad generation
di Marco Blatto
(pubblicato sull’Annuario del GISM 2013-2014, per gentile concessione)
Ho iniziato a praticare l’alpinismo e ad arrampicare nel periodo post-Nuovo Mattino, alla fine degli anni Settanta. Sono cresciuto con il mito del free-climbing, cui personalmente ho sempre attribuito il significato di arrampicata senza l’uso dei mezzi artificiali, piazzando le protezioni amovibili e limitando l’utilizzo dei chiodi “tradizionali”. Pur ricevendo da adolescente una formazione “classica” a un corso di alpinismo organizzato dalle guide di Courmayeur, diretto dall’indimenticabile Cosimo Zappelli, ho viaggiato da autodidatta nel mondo dei nut, degli excentric, dei friend e delle scarpette a suola liscia. Fu proprio l’avversione alle scarpette a suola liscia da parte di alcuni alpinisti “per bene” di allora, a mostrarmi l’esistenza di un confine tra l’alpinismo tradizionale e il diffondersi della filosofia del free-climbing.
Marco Blatto
Ricordo benissimo un episodio nei primi anni Ottanta, quando, giovanissimo aiuto istruttore in un corso di alpinismo del CAI, commisi di fronte a tutti il mio primo atto blasfemo. Durante un’uscita del modulo d’introduzione all’alpinismo (eravamo in palestra), un istruttore assicurato da un’allieva s’impegnò su una breve parete di quinto grado. Dopo aver alquanto faticato nel superare una placca con pochi appoggi (ovviamente indossava gli scarponi) tentò invano di piantare un chiodo in una fessura verticale laddove si sarebbe potuto agevolmente piazzare un proibitissimo friend. Il chiodo, non di misura, schizzò fuori dalla fessura al terzo colpo di martello, lasciando l’istruttore alla mercé del vuoto e delle gambe tremolanti. Seguirono istanti d’apprensione da parte dei presenti che non si accorsero che mi ero defilato per togliermi gli scarponi e indossare le “scarpette”. In pochi secondi salii così la paretina slegato fino a una pianta che sporgeva dalla sommità, e vi buttai giù appena in tempo una corda al malcapitato. Il fortuito salvataggio scatenò le ire dei tradizionalisti, forse non molto interessati al fatto che si era evitato un probabile incidente.
Eppure arrivavo dall’alpinismo, usavo con disinvoltura gli scarponi e sapevo piantare i chiodi benissimo. Semplicemente, accettavo che vi era il momento per gli scarponi e per i chiodi e vi era quello per le scarpette e le protezioni amovibili. Il free-climbing, almeno come lo avevamo inteso noi, non escludeva l’uso dei chiodi “tradizionali” seppur limitati ad alcune circostanze. Non si trattava insomma di un’etica propriamente “clean”. Occorre dire, per dovere storico, che il clean-climbing ovvero l’arrampicata senza l’uso del martello e dei chiodi (hammerless), prerogativa per lo più britannica, si era diffusa negli Stati Uniti come reazione a un periodo esasperato di artificialismo negli anni ’60.
L’uso massiccio di chiodi a pressione e talvolta anche lo scavo di appigli, aveva provocato come reazione numerose schiodature e la progressiva introduzione dell’uso di protezioni amovibili. Scalare in clean climbing non significava, però, deprecare la progressione in artificiale. Ecco perché il fenomeno del free-climbing, “l’arrampicata libera”, è da considerarsi una sorta di passo successivo. In ogni caso, almeno sulle Alpi occidentali, la diffusione del free-climbing verso la metà degli anni ’70, si colorò di elementi che potremmo definire “tradizionali” e tutt’altro che “total clean”.
Materiale per il new-trad
La vicinanza culturale alla Francia favorì poi, nel giro di pochi anni, la diffusione di un vento “sportivo” e l’introduzione dello spitroc, il nuovo erede del chiodo a pressione. Per quanto riguarda la mia generazione, formatasi soprattutto nei primi anni ’80, testimonio che non vi fu una particolare difficoltà ad accettare il “nuovo” integrandolo nella cosiddetta “tradizione”. La maggior parte degli scalatori “top” torinesi, passava con disinvoltura dalle vie di Michel Piola sul Monte Bianco, al free-climbing nostrano della Valle dell’Orco e alle falesie di grido della bassa Valle di Susa. Certo, ciascuno seguiva le proprie preferenze senza però rispondere a una coscienza etica vera e propria.
Quando l’arrampicata diventò “sportiva” a tutti gli effetti con l’affermazione delle prime competizioni, ci si espresse pro o contro le gare ma, al più, non si colse l’avvento di questa disciplina, anche fine a se stessa, come un pericolo diretto per le sorti dell’alpinismo. Era chiaro fin da subito che il mondo delle competizioni avrebbe seguito una via autonoma tagliando progressivamente le radici culturali con l’attività in ambiente naturale. Fu piuttosto il metodo d’introduzione del nuovo chiodo a pressione a creare delle divergenze di pensiero.
Lo spit decretava non tanto una nuova “morte dell’impossibile” ma poneva in primo piano il superamento del grado (quindi un’idea comunque sportiva della scalata) eliminando la zavorra della componente psicologica. La stampa, anche specializzata, ci mise ovviamente del suo, e non fu difficile creare una certa confusione. Chi praticava l’arrampicata sportiva in falesia, quindi in libera ma totalmente protetta, era definito genericamente un free-climber, dimenticando e stravolgendo ciò che quel termine aveva significato in senso filosofico e tecnico. Altri, ancora più maldestramente, iniziarono a definire sia gli assertori del free-climbing sia dell’arrampicata sportiva, come “sassisti”.
Adam Bailes lotta contro Fat Tony, Valle del Orco
Ricordo un giorno, nel 1984, che recatomi in un noto negozio torinese di articoli per la montagna per acquistare un nuovo imbrago il negoziante mi chiese: per alpinismo o per sassismo? Risposi: «Beh! Per tutto!». Ci fu chi, come il sottoscritto, s’impose delle regole basate sulla propria sensibilità, creando una precisa divisione mentale delle varie attività e confinandole in ambienti ben definiti. Nelle mie “aperture” in falesia utilizzavo senza remore lo spit ravvicinato piazzandolo dall’alto, nell’apertura delle vie di più tiri di medio-fondovalle, piantavo lo spit salendo dal basso e limitandolo alle sole sezioni non proteggibili. In montagna infine, avevo deciso di non utilizzare lo spit. Accettavo appieno la legittimazione dell’arrampicata sportiva in falesia e vedevo nel parsimonioso uso del chiodo a espansione una buona mediazione per l’arrampicata su certi tipi di terreno (quello che sarebbe stato definito poi in modo generico “terreno d’avventura”). Lo bandivo del tutto, invece, dalla mia idea di “avventura” in montagna. Può apparire una distinzione grossolana forse ma in qualche modo tentavo di perseguire un ordine etico. Più severi e privi di sfumature erano i britannici che dopo l’avvento del fenomeno “sportivo” vedevano due discipline ben distinte: sport-climbing e trad-climbing. È superfluo dire che la prima non riscontrasse un gran favore in terra d’Albione, da sempre contraria all’uso del chiodo espansione e appena tollerante nei confronti di quello “tradizionale”.
Il trad-climbing era la tecnica preferita dai britannici, un’arrampicata “tradizionale” in ottica “clean” che aveva raggiunto dei livelli di estrema severità etica in alcune zone delle Gran Bretagna, come in Galles o nel Peak District. Sulle Alpi occidentali dalla fine degli anni ’80 prese a diffondersi il cosiddetto fenomeno dell’arrampicata plaisir che, personalmente, ho sempre considerato una degenerazione dell’arrampicata sportiva. Quest’ultima, infatti, nell’accezione originaria prevedeva il superamento di una difficoltà obbligatoria seppur protetta in modo adeguato. Alcune aperture cosiddette “moderne” degli anni ’90 avevano peraltro seguito un’etica abbastanza severa, pur importando l’uso sistematico dello spit sulle placche compatte: foratura con il trapano salendo dal basso, senza fermata su punti artificiali e grado obbligatorio alto.
Marco Blatto
Il “plaisir” partiva da una filosofia completamente opposta, che consisteva sostanzialmente in una chiodatura ravvicinata e in un grado obbligatorio molto basso. Inutile dire che in tal modo si garantiva la riuscita della via a qualsiasi ripetitore, né più né meno che la progressione da chiodo a chiodo sulle staffe che tante reazioni aveva scatenato nell’ambiente negli anni Sessanta. È anche facile intuire come questa sorta di “democrazia della salita” abbia trovato rapida espansione anche in ambienti “di montagna”, con grande soddisfazione di guide alpine e rifugisti, talvolta addirittura con il sostegno di enti e aziende di soggiorno che hanno intuito l’affare di un allargamento della potenziale fascia di frequentatori di pareti di fondovalle o situate in prossimità di strutture turistico-ricettive.
Al contempo, la minoranza che ha continuato a sostenere la necessità di preservare uno spazio d’avventura, dove il rischio fosse considerato un elemento del gioco dell’alpinismo e della scalata, è stata spesso indicata come un cenacolo di aspiranti suicidi da sottoporre alla pubblica gogna dell’opinione pubblica, spesso disinformata ed estranea al mondo dell’alpinismo. La libertà di rischiare è divenuta inoltre un disvalore da combattere non soltanto con la legittimazione del massiccio “intervento tecnologico” ma anche con divieti e sanzioni che rischiano di creare una pericolosa giurisprudenza.
Come spesso accade nella storia dell’alpinismo, che se avesse una rappresentazione grafica potrebbe essere paragonata a una curva sinusoidale, a eccessi di tecnologia hanno sempre fatto seguito movimenti di forte opposizione d’opinione, d’entità uguale e contraria. Il periodo delle direttissime a “goccia d’acqua”, per quanto deprecabile, ebbe almeno dalla sua una pratica limitata agli alpinisti di punta e una certa laboriosità nel piazzamento realizzato a mano e salendo dal basso.
La concezione dello “spit plaisir”, invece, prevede nella maggior parte dei casi “cantieri” approntati dall’alto con l’utilizzo del trapano, cui si accompagna un’opera di pulizia e di disgaggio. Seppure con un uso più limitato (ma ugualmente inutile), lo spit ha costituito l’innesco della reazione che è partita nel 2010 nella Valle dell’Orco in provincia di Torino, ultima riserva di un’arrampicata “tradizionale” con ancora salde radici in quel free-climbing degli anni Settanta e Ottanta. Alcune fessure, infatti, erano state addomesticate da solidi spit con l’intento di migliorare la sicurezza delle vie, scatenando in breve una serie di schiodature anonime. A queste azioni, certamente opera di alcuni scalatori “locali”, si è però affiancato il plauso di numerosi scalatori europei frequentatori della valle, che avevano visto nell’anomalia delle fessure protette un fenomeno tutto italiano. Com’era prevedibile, si è determinata in breve una dura contrapposizione tra i sostenitori dello spit e i difensori della “tradizione”, e ha iniziato a circolare il termine trad-climbing per promuovere un’arrampicata “clean” praticata per lo più in fessure proteggibili.
È facile intuire come sia stato difficile far calzare alla Valle dell’Orco questo termine preso in prestito dalla tradizione britannica dove, per “traditional climbing”, s’intende un’arrampicata che ha mal tollerato anche l’utilizzo occasionale di chiodi “tradizionali”. Va rilevato quindi che, inizialmente, il pretesto “trad” è servito soprattutto per porre un freno alle richiodature snaturanti che molte vie stavano subendo in valle. In un secondo tempo però, grazie anche al Trad Climbing Meeting organizzato dal CAAI a Ceresole Reale (TO), si è diffusa una concezione più purista e “inglese” della scalata, con la ricerca di brevi fessure che in tanti anni di esplorazione su quelle rocce non erano neppure state prese in considerazione dai top-climber locali. Questo si deve anche alla partecipazione nelle varie edizioni di fuoriclasse in questo stile, primi fra tutti Toni Randall e Pete Whittaker
Pete Whittaker su Greenspit, Valle dell’Orco. Foto Michele Caminati
Si è infine proposto, tra gli addetti ai lavori, un termine più consono al nuovo fenomeno: il new-trad, che supera connotazioni storico-locali dell’arrampicata aprendo una fase nuova per una disciplina che a livello tecnico-fisico, ha in sé parte dell’esperienza della “scalata sportiva” e del bouldering. Svolgendosi per lo più in fessura, il new-trad ha come roccia d’elezione il granito e i suoi derivati, e accanto a siti noti come la Valle dell’Orco o Cadarese stanno nascendo nuovi terreni di gioco. Personalmente, poiché legato a un’arrampicata “tradizionale” nel senso più nostrano del termine, non sono particolarmente interessato al new-trad come a un’ennesima diversificazione specialistica del mondo verticale. L’aspetto maggiormente interessante è quello etico e psicologico. Il “vento trad” che ne deriva direttamente, favorisce una sempre maggiore coscienza critica nei confronti dello spit “inutile” e della banalizzazione della scalata. Rifiutando la riuscita ad ogni costo garantita dallo spit, si può concentrare la propria azione sull’incertezza della riuscita e su una maggiore consapevolezza dei propri limiti. Il rischio assunto non più come un elemento estraneo alla scalata ma accettato responsabilmente, diviene al contempo una libertà di scelta individuale. Ho inteso chiudere questa mia breve dissertazione con una sorta di piccolo dizionario, sperando che possa contribuire a fare chiarezza tra chi è meno avvezzo ai fenomeni e alle vicende odierne del mondo verticale, con la certezza, che sia della massima importanza saper intercettare e conoscere quegli aspetti etico-morali che nel prossimo futuro influenzeranno il mondo dell’alpinismo.
Arrampicata tradizionale: nel senso più “nostrano” del termine, si può così genericamente indicare quella scalata che non prevede la foratura della roccia per la posa di protezioni a espansione. Tenendo conto dell’evoluzione storica dei materiali, essa annovera la possibilità di piazzare chiodi tradizionali da fessura, se necessario, e protezioni amovibili come nut e friend.
Trad-climbing: termine anglosassone che designa una scalata sostanzialmente “hammerless” (senza martello e chiodi o protezioni fisse) quindi non identificabile in senso stretto con la nostra “arrampicata tradizionale”.
Free-climbing: di questo termine si è spesso abusato, generando una confusione di ordine tecnico, storico e filosofico. Letteralmente “arrampicata libera”, è stato talvolta identificato con l’arrampicata sportiva, con cui, in realtà, condivide solo il tipo di progressione: senza l’uso di mezzi artificiali. Affermatosi verso la metà degli anni Settanta, quando lo spit era ancora poco diffuso, ebbe connotati filosofici ed etici distanti anni luce dall’odierna arrampicata in falesia. Si può affermare che il free-climbing, in questo senso inteso, si esaurì con l’avvento delle competizioni e dell’arrampicata “sportiva”, a metà degli anni Ottanta.
Clean-climbing: ovvero una scalata “pulita” che non lascia traccia di protezioni fisse. Nei paesi anglosassoni questo termine può identificarsi con il trad-climbing.
New-trad: arrampicata “clean”, generalmente su brevi lunghezze fessurate, con un’etica precisa circa la posa delle protezioni e di eventuali soste fisse.
Terreno d’avventura: s’intende con questo termine una categoria dell’arrampicata abbastanza “allargata” e variegata, che comprende idealmente tutte le voci citate in precedenza, più le vie dove vi sia una presenza anche degli spit, ma parziale o particolarmente distanziata e pericolosa. In questa categoria rientrano ovviamente tutte le vie in roccia di stampo “alpinistico”, in cui l’ambiente, anche di bassa quota, comporti dei pericoli oggettivi.
Arrampicata sportiva: è l’arrampicata sui “monotiri” con chiodatura fissa, sicura e sufficientemente ravvicinata, in settori (falesie) dove non sussiste alcun tipo di pericolo oggettivo.
Arrampicata sportiva agonistica: è la scalata il cui fine è la competizione nelle tre diverse discipline: lead (difficoltà), speed (velocità) e boulder. È praticata esclusivamente su strutture artificiali ed è “figlia” dell’arrampicata sportiva.
Marco Blatto
Arrampicata plaisir: con questo termine sono generalmente designate quelle vie di più lunghezze con chiodatura fissa e ravvicinata, con grado “obbligatorio” molto basso, il cui scopo è eliminare quasi del tutto l’elemento psicologico e il rischio a favore del puro divertimento.
Green-point: è la salita di una via con attrezzatura fissa in posto, senza però utilizzarla, facendo in alternativa.
Marco Blatto
Marco Blatto, Testimonial e Accademico del Gism, è membro dell’Alpine Climbing Group britannico, del Groupe de Haute Montagne de Chamonix (GHM), Capogruppo dei “Rocciatori Val di Sea” e Istruttore Federale di arrampicata sportiva.
Articolo interessante che merita però alcune precisazioni, certamente non necessarie per chi ha dimestichezza con l’arrampicata ma utili per coloro i quali si avvicinano ad essa oppure che ne hanno una scarsa conoscenza.
Mi sta’ bene l’elencazione finale di una terminologia largamente in uso con la spiegazione del relativo significato però sarebbe bene precisare che a ciascun termine corrisponde anche un preciso terreno arrampicatorio e non solo un determinato modo o stile di arrampicata.
A parte il fatto che alcuni termini sono sovrapponibili (es., trad climbing e clean climbing) è abbastanza evidente che non si possa affrontare una placconata liscia e compatta con protezioni removibili o piantando i chiodi col martello come nell’arrampicata tradizionale.
Decidere di arrampicare in un modo o in un altro, aldilà delle questioni etiche, significa fare delle precise scelte di campo. Voglio salire in maniera tradizionale con chiodi e martello? Bene, ma ciò significa che dovrò scegliere delle pareti che mi consentano di farlo, che abbiano fessure, clessidre, ecc.. Idem se voglio salire delle pareti con protezioni removibili (nut, friends). Se voglio cimentarmi con placche compatte di grado dal 8a in su sarà un po’ difficile fare a meno dello spit.
Michelazzi ha citato Preuss, giustissimo. E’ noto a tutti che questo signore non solo saliva ma scendeva pure e, pertanto, anche se non mi pare l’abbia fatto sempre, doveva tarare le salite in base alla possibilità di discesa e, infatti, nei suoi famosi punti ha chiaramente evidenziato il collegamento che dovrebbe esserci fra le difficoltà della salita e quelle della discesa.
Oggi Honnold fa delle strepitose salite slegato però non scende perché chiaramente non sarebbe in grado di farlo, si ammazzerebbe, in quanto il livello delle salite è troppo alto per poter anche scendere.
Ripeto, sono considerazioni che possono sembrare banali per chi arrampica a tempo pieno ma è bene fare queste precisazioni perché no sembra che si possa arrampicare qualunque parete con modalità diverse quando invece non è così (o per meglio dire “non è sempre così”).
Se poi vogliamo parlare anche di etica il discorso cambia perché risulta evidente l’assurdità di spittare laddove si possano piazzare delle protezioni removibili e, quindi, pulite però deve essere chiaro che alcuni stili d’arrampicata sono indissolubilmente legati alle caratteristiche della roccia e non sono esportabili tout court.
Marco puntuale e preciso come ci ha ormai abituati ! Le note storiche sono sempre interessanti e ci fanno capire come sia cambiato nel tempo il concetto stesso di ” Arrampicata “. Gli istruttori dovrebbero farne tesoro per poter trasmettere , nella maniera più coinvolgente possibile , queste informazioni ai loro allievi di corso .
mi domando cosa avrebbe detto Preuss davanti ai frendoni come quelli dell’ultima foto che sembrano ombrelli. Certamente permettono un’arrampicata pulita ma non si può dire che non sia tecnologica.
Relazione belle ed esaustiva per quanto riguarda il mondo anglosassone ma… continuo a ripetere (italiani esterofili senza speranza…), che nel 1911 ci fu chi deliberatamente espresse la probabile prima esperienza di Clean Climbing gettandone le basi che, talmente elementari ancora oggi resistono… : Paul Preuss in compagnia del cognato Paul Relly che scalarono senza uso (ma anche senza averne proprio appresso per scelta…) di chiodi, la Piccolissima di Lavaredo, oggi Torre Preuss lungo quella serie di fessure della nord-est che all’epoca vennero date di 5°+ ovvero “estremo” (oggi valutate un pelo meno dure rispetto ai canoni attuali: 5°) per l’epoca!
Allora se storia dev’essere scriviamola almeno corretta!
Considerazioni accurate e molto interessanti, nonché esaurienti, che costituiscono un contributo di approfondimento di cultura e storia alpinistico/arrampicatoria su argomenti e sfaccettature degli stessi che in genere consideriamo ma soprattutto trattiamo, parlando e scrivendo, in modo alquanto approssimativo con idee peraltro un po’ confuse, che tendono a ingenerare ancora più confusione soprattutto per coloro (a molti dei quali non frega nulla…) che non hanno attraversato personalmente il lungo periodo cui Marco si riferisce. Complimenti.
Illuminante e chiarificatore.
Ciao