Il maestro di Mariano Lamberti
Nichiren come Cristo, iconoclasta del buddhismo
di Filippo La Porta
(pubblicato su ilriformista.it il 1° ottobre 2021)
Chi non si è imbattuto almeno una volta nella pratica buddhista del nam-yoho-renge-kyo (il titolo in giapponese del Sutra del Loto), o non ne ha fatto diretta esperienza, sia pure passeggera? Il movimento – in Italia raggiunge quasi 100.000 adepti (in Giappone 8 milioni) – può contare tra l’altro su vari testimonial d’eccezione, da Baggio a Sabina Guzzanti, e negli Stati Uniti rockstar, jazzisti, attori… (lo so, è desolante parlare ogni volta dei cosiddetti Vip, ma solo per dare un’idea dell’ampiezza del fenomeno).
Tale pratica è fondata sull’insegnamento di Nichiren Daishonin, un monaco vissuto in Giappone nel XIII secolo (il periodo in cui da noi nasceva la lirica cortese, san Tommaso insegnava teologia a Parigi, e san Francesco parlava con gli animali), e capace di rileggere la dottrina tradizionale buddhista in chiave iper-laica, per quei tempi “sovversiva”. Qualcuno parla anche di un buddhismo eretico, perché – paradossalmente – sembra rovesciare l’assunto della dottrina: non liberarsi dai desideri, dalla loro dipendenza, ma far leva sui desideri, nostro principale combustibile, per trasformarli alchemicamente. Il contrario dello zen! A proposito di questo approccio – a tratti spaesante – le opinioni sono svariate e in conflitto tra loro. Ora, senza fingere una competenza che assolutamente non ho, vorrei però suggerire la lettura de Il maestro (Giulio Perrone Editore) di Mariano Lamberti – biografia in forma di romanzo di Nichiren – come onesta, documentata introduzione a quell’approccio.
Lamberti riprende il personaggio – reale – di un giovanissimo discepolo di Nichiren, che conobbe il suo maestro quando aveva appena 13 anni, Hokibo,poi Nikko Shonin,e ne racconta in prima persona le vicende, con accuratezza e amore devoto. Subito si notano alcune analogie con la vita di Gesù. Attitudine all’ascolto e piglio estremista. Nichiren attacca in modo radicale la tradizione e la rilegge in modo innovativo, per estrarne il nucleo secondo lui più genuino. Critica le varie correnti di buddhismo, penetrate in Giappone dalla Cina 700 anni prima, per la loro astrattezza formalistica. Colpisce il suo afflato democratico, inclusivo. Mentre spesso il buddhismo tradizionale si risolve in un culto selettivo e per pochi lui s rivolge a tutti, vuole convertire sia i samurai che la gente più umile. Come Cristo viene considerato un iconoclasta – elimina le statue di Buddha dai luoghi della preghiera e della liturgia – , un pericoloso sovversivo, un esaltato e un folle. Perciò è perseguitato, calunniato, screditato e infine condannato a morte, per decapitazione. Ma, al contrario di Cristo, qui il miracolo avviene prima dell’esecuzione (una luce improvvisa dal cielo) e non dopo la morte (la resurrezione). Nichiren, pur disdegnando il potere e qualsiasi ruolo istituzionale, aveva una sensibilità “politica”, nell’accezione più ricca del termine (interesse per il bene comune), e in varie occasioni diventò “consigliere del Principe” dando consigli preziosi alla classe dirigente del suo paese (visse in un periodo turbolento, con due invasioni di mongoli, poi respinte).
La principale differenze con il cristianesimo consiste in ciò: Cristo ti dice che puoi salvarti se credi in lui, Nichiren invece si appella alla buddhità, alla parte divina, racchiusa in ciascuno, che occorre risvegliare attraverso l’abitudine sistematica alla cosiddetta “pratica” (la recitazione del Sutra del Loto, come un mantra). Nella storia cristiana potrebbe essere accostato all’eretico Pelagio, convinto che l’essere umano si salva da solo, senza l’aiuto della grazia. Di fronte alla morte Nichiren ha una duplice reazione: prima ne è angosciato (ama la vita, le feste, andare in barca, la convivialità) poi però sente di morire per il mondo intero (Cristo?) e si convince che la propria morte serve a risvegliare una moltitudine di bodhisattva. Il libro di Lamberti è un atto di amore e una accurata ricostruzione. La lingua è quella semplice, disadorna di un monaco medievale, che solo a tratti si trova ad adoperare immagini poetiche: “la mia angoscia svanì come i petali di un fiore presi nelle spire de vento, e mi sciolsi in un mare di lacrime”. L’unica obiezione che si potrebbe fare al libro, ma ovviamente va oltre il libro stesso, riguarda la enorme difficoltà di tradurre testi religiosi o sapienziali appartenenti a culture distanti, senza perdere l’incanto dell’originale. I versi qui riprodotti di Nichiren, le sue frasi celebri, somigliano a un catechismo senza vita, ridotto a formule cerimoniali.
Insomma: se devo leggere il resoconto di una esperienza mistica – come qui la “vetta della perfetta illuminazione”, quando tutto diventa la “Terra della Luce Tranquilla”) – allora pretendo il XXXIII canto del Paradiso, o anche il meraviglioso Cantico delle creature di san Francesco. Lì trovo una forma adeguata al contenuto, e cioè l’equivalente verbale – capace di emozionarmi – di una esperienza interiore unica e vertiginosa. Mentre nei versi tradotti di Nichiren (oltretutto dall’inglese) – e lo dico con tutto il rispetto possibile – non sento alcuna vibrazione. Ma, ripeto, Lamberti non è responsabile di una delicatissima questione di mediazione culturale. Resta un libro appassionato, simpatetico con la sua materia, scritto con una prosa anch’essa “devota”, giustamente priva di ammiccamenti e preziosismi – che almeno per il periodo della lettura ci trasferisce in un universo lontanissimo, per noi lievemente onirico, quasi intangibile, facendocene percepire i sapori terrestri, gli umori, la sensibilità spirituale, le visioni.
C’è invece una pagina che conserva miracolosamente intatta la qualità poetica dell’insegnamento di Nichiren: il “maestro” spiega che le piante manifestano la loro natura illuminata quando ci danno riparo con l’ombra nei periodi di sole. Qui l’immagine fiabesca trascende qualsiasi mediazione linguistica. Potremo dire allora che il libro di Lamberti estende la sua ombra a “riparare” il lettore attuale, distratto dai troppi messaggi di una contemporaneità invasiva, ed impegnato a immergersi nella verità di un messaggio consegnato molti secoli fa da un monaco ribelle.
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Non immortalità.
Evolvere è ridurre la generazione di sofferenza, in tutte le sue espressioni, modulazioni, dimensioni, quantità.
Provare per ricreare e quindi credere.
La questione, da cognitivo-intellettuale passa a quella sentimental-carnale.
Sono convinto che qualunque conoscenza che non sia amministrativa sia in realtà una mancanza di conoscenza, perché al fondo trattasi di esperienze dovute a droghe autoprodotte (volg. endorfine), solo che non sappiamo ancora come e quali.
E che qualunque religione, con o senza dio, sia solo un tentativo di evitare di confrontarsi con la nostra mortalità.
Tentativo comprensibile, onesto e ingenuo ma che sempre si trasforma in violenza, sopraffazione e potere.
Devo proprio essere ontologicamente inetto!
Purtroppo religione e spiritualità non hanno nulla di sostanziale in comune. Ma è una precisazione che va ricreata al fine d’essere intesa. Altrimenti si torna alla critica materialista, ontologicamente inetta ad indagare la conoscenza che non sia amministrativa.
IL PUNTO COMUNE
Le religioni vengono inventate dagli uomini, anche se questi hanno il frequente vizio di raccontare che gliele ha rivelate Dio e che loro hanno raccolto quelle rivelazioni in un “testo sacro”. Dalla immutabilità di un testo dovrebbe discendere l’immutabilità delle religioni, mentre invece queste si differenziano geograficamente, si differenziano in culti e tutte si evolvono nel tempo.
Perciò quando si parla delle religioni si pretende di astrarne una negando le tante differenze. In questo modo chiunque ci può trovare esattamente ciò che vuole, perchè in quelle differenze c’è di tutto.
Quando in Nepal ho visitato uno stupa che si dice essere il più antico, sono rimasto stupito dal vedere statue di diverse divinità e di diversi Buddha: niente a che vedere con quel che avevo letto sul buddismo!
La statua del Buddha Illuminato veniva unta con non so quale olio perchè risplendesse meglio.
Negli stupa c’è spesso uno specchio, e lì ci puoi vedere Dio, perchè lui è in te.
Ma pare che non basti specchiarsi, perchè devi avere l’illuminazione per trovarlo, e con il pretesto dell’illuminazione salta fuori un personaggio poco previsto nei testi sacri, che si può chiamare Maestro o Prete, e pare che solo lui abbia la chiave dell’illuminazione o della redenzione o della purificazione o del paradiso.
In buona sostanza, il punto comune delle religioni è la tua sudditanza verso un prete o un santo che ti fa da mediatore con Dio.
Geri
Distinguere Cristo dal Buddha e volendo da qualunque altro culmine di ricerca evolutiva, non è difficile, ma a mio parere ha poco valore evolutivo.
Ne ha invece riconoscere le identicità che geografie differenti hanno vestito con le loro forme.
Allora nelle parole di Cristo del Buddha, di Zarathustra, di Maometto, degli animisti, della tradizione tolteca, si rischia di trovare il medesimo messaggio.
Tra i medesimi, troveremo quello che più risuona, il più adatto a noi.
Se si resta esauriti nella classifica che facciamo, nel giudizio che esprimiamo, se riamniamo nel dubbio della scelta di chi scegliere, addio evoluzione.